Le cronache di Manuel García: Sondra Radvanovsky in concerto. Mexico City, Palacio de Bellas Artes, 24.03.2012

Un buon punto di partenza nel commentare la recente prestazione canora di Sondra Radvanovsky ci è proposto, forse ingenuamente da parte sua, dalla cantante stessa che spesso, come in questa occasione, tende a presentarsi al cospetto del pubblico come una cantante verdiana di razza pura. Beh, che dire? Spesso in questa sede sono state analizzate cantanti verdiane che pur senza aver la voce adatta a tale repertorio affrontavano con dignità e sapienza ruoli come Aida, le due Leonore, Violetta, Lady Macbeth, Elena uscendone sempre a testa alta. Prima fra tutte, ricordando un contributo della nostra Giulia Grisi, la Gencer. Col senno di poi, dopo averla sentita eseguire alcune celebri arie verdiane e facendo un banale confronto con la cantante turca, possiamo certamente percepire, in quanto detto dalla cantante americana, un velo di arroganza ma soprattutto una scarsa, se non nulla, conoscenza sia del canto verdiano e di che cosa esso rappresenti, sia delle proprie capacità musicali e scelte di repertorio.
Nelle tre arie del Cigno di Busseto scelte dalla soprano per questa serata a Città del Messico (la romanza “In solitaria stanza”, “Pace, pace, mio Dio!” e il bolero dei Vespri siciliani), ha dato mostra non solo di non conoscere i fondamenti basilari del canto verdiano, ma addirittura di non essere in possesso dell’ABC elementare del canto lirico. La Radvanovksy infatti, pur possedendo una voce di discreto volume e di notevole grandezza, in nessun momento, in nessun brano è riuscita a controllarla, a gestirla secondo le esigenze musicali del caso.
Nel registro basso era quasi inesistente e spesso ingolfata, come se cantasse con la bocca piena (passatemi la similitudine), con una emissione quindi volgare e con un suono sporco. Nel registro alto tutto diverso: suono tutto aperto, notevole per volume, ma completamente fuori controllo. Paradigmatico il bolero dei Vespri in cui, come era prevedibile, sono emersi tutti i difetti e le deficienze tecniche di fondo: la voce ingolata, senza sostegno e senza la corretta emissione in maschera l’ha costretta ad eseguire il trillo sul mi4 in modo a dir poco ridicolo e così la conclusione sul mi5 completamente aperta. Nel fraseggio ha cercato, e spesso con ostinata insistenza, la smorzatura, la filatura, la mezza voce: potete solo immaginare l’esito di tutto ciò considerando l’impostazione tecnica di cui è in possesso la cantante in questione. A voi la surreale immaginazione. Così pure nel trillo su cui spero che il mio silenzio valga più di mille aggettivi. Permettetemi tuttavia esprimere un pizzico di ingenuo rammarico per una voce che potrebbe esprimersi in modo decisamente migliore di quanto ha fatto, che potrebbe, se supportata da una giusta e coerente tecnica, raggiungere livelli assai più soddisfacenti: nonostante tutto la cantante ha mostrato una voce di notevole volume, di colore singolare e pure una continua ricerca della frase, del fraseggio musicale (certo, con i risultati descritti poco sopra) forse perché almeno lei è consapevole che l’opera non si canta come un elenco del telefono o la lista della spesa. Certo elementi positivi, rimasti però in potenza.
E così, con questi mezzi, ha affrontato le canzoni di Copland (Simple Gifts, At the River, Long Time Ago) e di Duparc (Chanson Triste, Extase, Au pays se fait la guerre), i pezzi di Rachmaninoff (A Dream, Oh Never Sing To Me Again, How Fair This Spot, Spring Waters), due evergreen della tarda opera italiana (“La mamma morta” e “Io son l’umile ancella”) e i due bis pucciniani posti a chiusura di questa serata: “O mio babbino caro” e “Vissi d’arte”.
L’arte del canto richiede tempo, pazienza e costanza cose che oggi un cantante avido di successo non si può permettere: tutto dev’essere veloce e immediato, deve dare risultati istantanei. La Radvanovsky non fa eccezione: ha trovato, come tutti, il modo giusto e vincente per cantare in modo immediato e veloce: metti la voce in gola, spingi, apri e vai, finché duri.

Manuel García

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