Il soprano prima della Callas, ventiduesima puntata. Lotte Lehmann, parte seconda: la cantante d’opera

Lotte Lehmann viene comunemente considerata una delle più complete cantanti attrici, che tra la fine del  primo conflitto mondiale ed il secondo abbia calcato la scena lirica. Tale fama è essenzialmente legata all’interpretazione del personaggio della Marescialla del Cavaliere della Rosa. Le cantanti, che, successivamente la Lehmann, hanno vestito i panni della disinibita e disincantata dama viennese hanno dovuto misurarsi con la interpretazione del soprano di Perleberg.

Che si trattasse di una attrice, forse esagerata, sembra emergere dal famoso racconto di Kirsten Flagstad, che vendendola come Sieglinde nelle rappresentazioni di Walkiria al Met pare abbia sentenziato che certe cose una donna per bene le debba fare solo in camera da letto e con il proprio marito.
Eppure il giudizio del tempo,  ad opera del librettista di Cavaliere della rosa ossia Von Hofmannsthal, non è affatto orientato su quella stessa lunghezza d’onda. Con riferimento alla Lehmann, quale  interprete di Tintora, avanza molte riserve derivanti dalla natura piccolo borghese della cantante in contrasto con la spiritualità del personaggio stesso. Non mi addentro ad esaminare la natura del personaggio della complessa fiaba nata dal sodalizio Strauss-Hofmannsthal, mi limito a due dati di fatto ossia che per Hofmannsthal il paradigma di cantante attrice fosse incarnato da Maria Jeritza e che la Lehmann ebbe un rapporto assolutamente fugace ( 4 recite, salvo ripetere il ruolo per altrettante serate nel 1932) con il personaggio di Strauss e che la stessa cantante fosse solita raccontare della propria profonda invidia per la relativa facilità e brevità della parte dell’Imperatrice di cui la Jeritza, appunto, fu la prima esecutrice.
I due aspetti sono solo in apparente contrasto perché la Lehmann fu un’interprete davvero unica ed unica per la semplicità  di mezzi con cui raggiungeva i propri intenti. In questo la cantante rappresenta un unicum insieme a Claudia Muzio. Normalmente siamo abituati a sentire dalla cantanti attrici dinamiche ed agogiche esasperate, giochi di colori condotti all’estremo. In questo il modello unico a tutti note è rappresentato dall’Olivero, ultima di  una serie di soprani,  che muoveva da Emma Calvé, Salomea Krusceniscka e, magari, Maria Farneti. Spesso, inoltre, la cantante attrice, che utilizza questa esasperata dinamica lo fa per limiti vocali di tutta evidenza, perché è evidente che, in natura, l’Olivero non disponeva del mezzo consono ad una Fedora, piuttosto che ad una Francesca da Rimini e tanto meno la Krusceniscka con riferimento a Brunilde od Isotta.
Quanto alla Lehmann in primo luogo va osservato, che escluse le poche recite di Frau e le altrettanto poche di Turandot rimase di fatto sempre nel proprio repertorio che era quello del lirico o al più lirico spinto e solo nella fase  finale della carriera cantò le parti più drammatiche del proprio repertorio.

Lotte Lehmann nacque Perleberg nel 1888, studiò  a Berlino con Etelka Gerster, che era stata a sua volta allieva di Matilde Marchesi, debuttando il 2 settembre 1910 ad Amburgo, cantò titoli operistici sino al 26 ottobre 1946 quando diede l’addio alle scene con il personaggio di Marescialla, pur continuando ad esibirsi in concerto sino al 1951. I primi sei anni di carriera furono spesi sempre ad Amburgo, dove passò da parti di fianco a  prime parti, squisitamente liriche quando non lirico leggere come Sofia del Cavaliere, Agathe, Antonia, Micaela, Marta, Contessa, Elsa di Brabante. Sporadicamente nel periodo amburghese cantò anche Irene del Rienzi e Sieglinde. Cantante dotata al centro fu anche Dorabella. Nel primo periodo della carriera due soli sporadici rapporti con altri teatri nel 1914 Berlino e nel 1915 Rostock.
Ma l’8 agosto 1916 il primo salto di carriera con il debutto a Vienna. Possiamo definire Vienna il teatro della Lehmann , che vi cantò sino al 25 settembre 1937, in pratica sino all’addio all’Europa.
A Vienna arrivò cantante fatta e quasi diva. Poco dopo il debutto fu il Compositore nella prima della seconda versione dell’Ariadne (con Selma Kurz e Maria Jeritza) e partecipò subito ad un galà dove gli altri colleghi erano i divi della Staatoper ossia Kurz, Jeritza, Slezak e Piccaver. A Vienna ampliò il proprio repertorio con altre parti liriche  come Manon di Massenet, Margherita di Faust,  Elisabetta, ma anche ruoli centrali come Mignon e Rachele di Ebrea.
Vienna significò per Lotte Lehmann anche  la possibilità di essere la prima interprete di prime assolute o prime locali: nel 1919 Silla nel Palestrina di Pfitzner, la Tintora (ripresa solo per poche recite nel 1932 con Krauss), Suora Angelica  (20 gennaio 1920), Butterfly (12 aprile 1920), Tosca (26 gennaio 1923) Manon Lescaut (15 gennaio 1923) Maddalena di Coigny (28 gennaio 1926)  sino a Turandot (14 ottobre 1926). Non solo, sempre nel teatro della capitale austriaca la cantante aggiunse al proprio repertorio  alcune parti come Leonore di Fidelio, che  rappresenterà uno dei ruoli più importanti del soprano.
Nel frattempo dopo  anni di presenza costante a Vienna un altro ampliamento di carriera con il debutto nel 1922 in Sud America (Montevideo e Buenos Aires) e nel 1924 a Berlino come diva (debutto va segnalato con Elsa del Lohengrin in uno con l’Ortrud di Frida Leider e George Szell direttore), a Dresda per la prima di Intermezzo sotto la direzione di Fritz Busch e soprattutto il debutto al Covent Garden dove  per la prima volta il 21 maggio affrontò Marescialla, come “doppio” di Frida Leider e sotto la direzione di Bruno Walter.
Bruno Walter fu anche il primo “accompagnatore” della Lehmann nel 1929 quando la cantante, ormai diva inizio a dedicare una sempre più ampia parte della propria attività artistica ai recital.
Il sodalizio con Walter  e con Londra durò oltre un decennio. I cast di quegli spettacoli sono da capogiro. Cito, solo per la cronaca ed il giusto rammarico di non essere stato spettatore, il trio femminile Leider, Lehmann, Schumann che si esibiva con Mariano Stabile in Don Giovanni sotto la guida di Bruno Walter. Le cronologie, mi pare di averlo già detto non servono a contare quante sere, ma a far riflettere come debba essere esercitata la professione del cantante per essere Arte e non ciarlataneria.
Nonostante gli approdi a  Breslau, Monaco e Colonia nel 1926 Salisburgo (1927) a Parigi nel 1929 i teatri più frequentati sino al 1933 rimasero  Vienna e Berlino, le parti più praticate quelle del tradizionale repertorio lirico o lirico spinto.

Ma nel frattempo era arrivata l’America del Nord con il debutto operistico a Chicago quale Sieglinde  e nel 1932 a New York quale concertista alla Town Hall (la stessa sala dove nel 1951 la cantante salutò il pubblico nuovayorkese). Il 1934 fu l’anno del debutto sulle due coste americane  l’11 gennaio al Met (dove si esibì sino al 17 febbraio 1946) e il  successivo 22 novembre a San Francisco come Tosca.
Fu il 1934 anche l’anno dell’addio da Berlino, dettato ufficialmente dalla inaccettabile clausola contrattuale di esclusiva per quel teatro e per quelli di  lingua tedesca. Credo che i motivi debbano essere cercati altrove pur in assenza di motivi raziali (quelli un Kipnis o di una Leider). Tanto è che  il 25 settembre 1937 la Lehmann calcò per l’ultima volta  il palcoscenico della Staatsoper e il successivo 1 ottobre diede l’addio all’Europa.
Si aprirono altri tre lustri di carriera  americana ed anche australiana (due tournée nel 1937 e nel 1939) e se i titoli operistici si ridussero in pratica a quattro o cinque i programmi di concerto scandagliarono tutta la letteratura cameristica di autori tedeschi ed  austriaci.

A mero titolo di cronaca in questa  diffusa onnipresenza la Lehmann si esibì sempre in concerto in Italia dal 1931 (a Roma) sino al 1935 a Milano dove  cantò pagine del Tristano e del Tannhäuser sotto la guida di Mitropoulos.
Inutile dire che non vi fu grande direttore del tempo e non solo di scuola tedesca che non avesse diretto la Lehmann. Primo fra tutti Arturo Toscanini con il quale si diceva vi fosse stata una leason. Lui non era estraneo, da sempre, a questo genere di avventura e la Lehmann era donna, oltre che intelligente e di grande sensibilità artistica, di grandissima avvenenza. In gioventù soprattutto.
Divenne cittadina statunitense e negli Usa morì nel 1976, quasi novantenne. E’, giustamente, sepolta a Vienna, la sua città, artisticamente parlando.

Sino all’abbandono del paese d’origine il repertorio era stato quello del soprano lirico dove i titoli più eseguiti erano Mimì, Butterfly, Manon di Massenet, Tosca, ma anche parti marcatamente centrali come Mignon, Rachele dell’Ebrea. Lotte Lehmann fu, poi, la prima interprete di molte parti straussiane  (Tintora, Compositore nella seconda versione di Ariadne, Intermezzo) e di molte prime pucciniane in Austria e Germania (citiamo almeno le prime viennesi di Manon Lescaut e appunto Turandot).
Quanto a Wagner la frequentazione di Eva Elsa ed Elisabeth oltre che di Sieglinde ci conferma che la cantante fosse ritenuta e si considerasse un soprano lirico o poco più. A parte il ruolo di Leonore, che la Lehmann cantò dal 1926  e con tutti i maggiori direttori d’orchestra del tempo.
A prescindere dalla virtuosa sposa beethoveniana la Lehmann non si lasciò mai tentare da personaggi drammatici e all’arrivo negli Stati Uniti il repertorio subì una drastica riduzione derivata in parte dall’età e dalla carriera della cantante e più ancora dal fatto che la stessa non conoscesse il repertorio italiano e francese in lingua originale, con esclusione della Tosca. Gli anni del Met furono gli anni dei ruoli straussiani e wagneriani con un totale di 82 recite.
Un assente a conferma della cognizione dei propri limiti in tutta la carriera: Verdi, di cui cantò solo e sporadicamente la Desdemona di Otello.  Per altro i deputati soprani verdiani coevi si chiamavano  Leider,  Kemp, Larsen Todsen e Nemeth e la Lehmann non poteva  -e credo lo sapesse  molto bene-  competere non tanto con la potenza ed ampiezza vocale, ma con la spavalderia nel reggere tessiture “gagliarde” (per dirla con Lauri Volpi) e con il legato e l’accento, che si richiedeva, giustamente, alla cantante verdiana. Talvolta la lunga carriera (perché quella della Lehmann si protrasse per oltre quarant’anni) deriva anche dalle scelte oculate di repertorio e dalla cognizione dei propri limiti.
Ascoltate le registrazioni dal 1920 al 1930 circa la voce appare una voce di colore gradevole, cristallina, non estesissima (soprattutto se il ruolo fra quelli non perfettamente consoni alla vocalità della cantante) saldissima al centro e questo è l’eredità della scuola Marchesi, che  dava a tutti i propri allievi saldezza e robustezza al centro e nei primi acuti, ossia nella zona dove insistono le tessiture. La voce non è particolare per colore e smalto ( tanto per restare in area tedesca Barbara Kemp, Tiana Lemnitz vantavano timbri raffinati e sontuosi). Ma il punto di forza della Lehmann è nella zona centrale e medio alta della voce di fare, senza esasperazioni e leziosaggini interpretative quello che vuole. Talvolta in certe frasi di slancio e legate si percepisce sforzo (vedi “le trine morbide”  del 1924). La caratteristica emerge sia nel repertorio italiano o francese (cantato quasi sempre in tedesco) che in quello wagneriano. Solo dopo il 1935 principalmente dalle registrazioni del Met si può captare qualche durezza di suono e un impoverimento del timbro. Ricordiamo  la Lehmann cantava da  più di vent’anni all’epoca di quei live.
La capacità di passare dal piano al forte o viceversa in una frazione di secondo è evidente ad esempio nel recitativo che precede il “picciol desco” registrazione del 1924. Nell’aria la Lehmann rispetta perfettamente l’andamento da soliloquio del brano tanto che  è difficilissimo captare le infinite  sfumature ed i cambi di dinamica,  che non sembrano  mai interrompere la musica ovvero il flusso dei pensieri della protagonista. Di queste prodezze erano capaci solo Schipa e Claudia Muzio. Lo stesso accade nel racconto di Mimì dove la Lehmann non è mai  né leziosa e  né presa dall’ansia di esprimere, pur essendo varia e sfumata e  governando facilmente le frasi scomode come “il profumo dei fiori” e lo slancio di “ma quando vien lo sgelo”. Bandisce ogni leziosaggine anche dal personaggio di Butterfly: sentire la facilità di canto ed il legato, insomma la voce della donna  innamorata, che sfoggia all’ingresso del personaggio. Idea interpretativa, che nonostante la tensione che la linea vocale genera è presente anche nel breve estratto del terzo atto di Turandot.

La Lehmann nel repertorio italiano fu essenzialmente un soprano pucciniano e soprattutto una famosissima Tosca, apprezzata dall’autore stesso. L’ascolto dell’aria e del duetto inciso con Kiepura dove la dizione italiana e l’accento sono quasi perfetti (anche su “scenica scienza”) e siamo dinnanzi ad una donna innamorata (vedere le “nuvole leggere” ripetute una diversa dall’altra). Nel Vissi d’arte (Odeon 1924) la linea di canto è sorvegliatissma,  non ci sono difficoltà alla frase “quante miserie conobbi aiutai”, che sta tutta sul passaggio superiore, come nel centro nelle frasi “agli astri al ciel etc ”  non si sentono suoni aperti di altre cantanti coeve; l’attacco dell’aria rispetta l’indicazione di Puccini “dolcissimo con grande sentimento” e se anche il si bem acuto sembra un poco forzato  la smorzatura seguente è da manuale. Anche la suora Angelica di cui la Lehmann fu la prima interprete a Vienna  è gestita ed interpretata con lo stesso timbro con grande facilità nelle frasi più scomode come “sei qui ti bacio e t’accarezzo”, “dillo alla mamma” con un suono sul piano, che rende l’idea del dolore, amplificata dal la in chiusa  cantato piano e vibrante al tempo stesso  e, sopra tutto  con un legato che conosce pochi esempi superiori. Siamo forse davanti ad una interprete semplice, borghese per dirla con Hofmannsthal. Non credo: siamo davanti ad una cantante che fa sembrare facile tutto quello che canta e per il dominio del suono  e perché tutto risponde ad una idea interpretativa del personaggio.

Spesso la cantante quando sceglie un’idea interpretativa la segue  a partire dal colore della voce ed a seguire con l’accento. Alla discografia della Lehmann appartiene uno dei caposaldi dell’esecuzione wagneriana ossia il primo atto di Walkure inciso nel 1935 sotto la guida di Bruno Walter, che doveva essere il primo dell’integrale, mai registrata per le leggi razziali, che colpirono il direttore ed Emanuel List . Non è questa la sede per discutere se questa registrazione sia o meno in linea con il Wagner roboante e retorico di cui la communis opiniodella critica assurge e celebra Karajan come giustiziere. Né è la sede per dire se Melchior sia solo voce e nullo interprete. Ma è questo il luogo per il melomane, che deve osservare come la voce intesa come timbro, prima ancora che come accento, della protagonista femminile sia   indifferente e distaccata nel primo incontro con il pellegrino Siegmund, scostante quasi con Hunding, poi, alla sezione finale si muta in un suono caldo e dolce, quello della donna innamorata nel finale d’atto quello dove accadono le cose che “una donna per bene fa solo con il  marito in camera da letto” e dove noi che non abbiamo mai visto Frau Lehmann in scena sentiamo solo un timbro caldo, un accento appassionato ed al tempo stesso un canto compostissimo. Il tutto oggi sconosciuto e sotto il profilo vocale e sotto quello interpretativo.

 

Gli ascolti

Lotte Lehmann

 

Beethoven

Fidelio

Atto I – Komm, Hoffnung (1927)

 

Weber

Der Freischütz

Atto II – Leise, leise fromme Weise (1925)

 

Massenet

Manon

Atto II – Adieu notre petite table (1924)

Atto III – Obéissons quand leur voix appelle (1933)

 

Thomas

Mignon

Atto I – Connais-tu le pays (1930)

 

R. Strauss

Der Rosenkavalier

Atto I – Ah, du bist wieder da (con Maria Olszewska – 1933)

 

Godard

Jocelyn

Atto II – Cachés dans cet asile (1927)

 

Puccini

 

Manon Lescaut

Atto II – In quelle trine morbide (1924)

 

Tosca

Atto III – Amaro sol per te m’era il morire (con Jan Kiepura – 1927)

 

Madama Butterfly

Atto I – Ancora un passo, or via (1932)

 

Suor Angelica

Atto unico – Senza mamma (1920)

 

Turandot

Atto II – In questa reggia (1927)

Atto III – Del primo pianto (1927)

 

 

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22 pensieri su “Il soprano prima della Callas, ventiduesima puntata. Lotte Lehmann, parte seconda: la cantante d’opera

  1. L’evocato concerto ambrosiano Lehmann-Mitropoulos mi induce a riflettere che oggi il c.d. massimo teatro italiano proporrebbe, nel medesimo programma, Nina Stemme ovvero Anja Harteros sotto la direzione di Daniel Barenboim. Come dire: dalle stelle alle… ma lasciamo stare…

  2. Ho sempre adorato questa cantante dal primo ascolto su un 33 (1/3…) giri di varie arie che avevo comprato giovanissimo, spinto dalla curiosità del fatto che la Bumbry abbia parlato di lei e che dovevo andare a vedere una Rosenkavalier, all’epoca opera per me sconosciuta. Tutte le ricerche (fatte, poi, in biblioteca!) mi portarono al nome della Lehmann.
    Non che le mie giovani ricerche mi avessero portato a capire la grandezza dei due soggetti, ma mi aprirono la mente verso orizzonti culturali che oggi vedo soffocati da “cervelloni” odierni.
    Grazie di questo bellissimo omaggio.

  3. Mi sono presa un po’ di tempo, necessario e graditissimo, per ascoltare e riascoltare tutti queste bellissime interpretazioni. Proprio come dici Tu, Domenico, la semplicità – che è poi sapientemente coltivata – e la spontaneità sono la cifra interpretativa, davvero soggiogante, della Lehmann. Grazie per aver proposto così vario materiale per poter conoscere questa grandissima cantante e interprete. Se dovessi fare una scelta, direi che l’addio al desco dalla Manon di Massenet è davvero irrinunciabile.
    Poi, Tu giustamente non lo fai, mai io mi prendo la libertà di dire che il Wagner di Walter non è di sicuro quello inquinato da Cosima e ripulito da Karajan. Che Karajan abbia compiuto un’impresa di portata storica (ma, a onor del vero, di esiti alterni per quel che riguarda la scelta delle voci) è fuori discussione; altrettanto vero è che Walter – forse per il lungo sodalizio con Mahler – è come Richard Strauss: uno di quei direttori storici che sono ancora giovanissimi e attualissimi.
    Al prossimo soprano prima della Callas.

  4. ti dettaglio alla prossima cantante attrice ne ho già pronte due. una di levatura storica l’altra difficile perchè forse attrice cantante più che cantante attrice. quanto alla riforma di wagner di karajan io lo stimo molto meno di te sopratutto ocn riferimento alal tetralogia diciamo ufficiale. credo che un wagner non roboante venisse comunque eseguito anche prima vedi walter vedi krauss. poi faccio un’altra notazione se si tratta di dei o semidei devono avere qualche tratto che ne connoti tale natura e allora la brunilde di gertrud grob prandl ha un suo significato indiscutibile
    alla prossima
    dd

    • Naturalmente la tua obiezione è condivisibilissima. In effetti, lo stesso Karajan, quando ne ebbe l’occasione, non si fece mancare l’apporto di una Nilsson o di un Hotter. Ed è anche vero che tanti cantanti – solo per fare alcuni nomi: Slezak, Roswaenge, Voelker, Kipnis, la da Te citata Grob Praldl – Wagner lo cantavano già prima di Karajan. E, per aggiungere un nome a Walter e Krauss (direttore quest’ultimo che soffre di una incomprensibile non dico damnatio memoriae, ché sarebbe eccesivo, ma di sicuro di una certa “distrazione mnemonica”), io metterei anche Knappertsbusch, il quale dirigeva un Wagner molto più inserito nel solco della tradizione ma, come testimonia il suo Parsifal, tutt’altro che chiassoso (pur con tutte le riserve che si possono giustamente avanzare su alcuni membri della compagnia di canto). In effetti, ora che mi porti a rifletterci un po’, l’operazione di Karajan è difficile da valutare con esattezza: in parte, in grande parte, è sicuramente legata alla sua concezione del suono come tratto distintivo dell’interpretazione, della sua interpretazione. Karajan è un interprete anche attraverso la qualità del suono; un po’ come i tagli di luce di Caravaggio: senza, non sarebbe la stessa cosa.
      E’ anche vero che sia Walter sia Krauss, soprattutto Krauss, si sono trovati a orbitare attorno a Richard Strauss, che fu, dal punto di vista direttoriale, un pioniere estetico come lo fu Busoni per il pianoforte.
      E allora, tornado a Karajan, dove sta il suo merito? Domanda difficile. Di certo nella qualità della concertazione – che, per citare un direttore coevo, trovo infinitamente superiore a quella di Solti, anche se quest’ultimo si vale di voci quasi sempre più plausibili, e dico quasi perché come tu sai meglio di me i tenori in grado di cantare un Siegfried degno di essere ascoltato erano già diventati merce rarissima negli anni sessanta.
      Né poi si dovrebbe dimenticare Furtwaengler, che da paladino del Romanticismo dava la sua cifra interpretativa fortissima al buon Richard.
      Sai, mi hai piacevolmente instillato qualche sano dubbio: non che non ami più il Ring di Karajan, ma è vero che la questione è assai complessa e non bisogna farsi trasportare dall’entusiasmo; non se si vuole tentare di ricostruire un percorso interpretativo.
      Potrebbe essere un ottimo argomento per una serie di interventi come quelli che state portando avanti a proposito di Beethoven.
      Beh, grazie, e ora che mi hai incuriosito con le prossime due Signore, specialmente con la seconda, di nuovo al prossimo appuntamento con questa interessantissima rubrica (se mi passi questo termine; non me ne viene uno migliore).

    • Alcune annotazioni (che valgono per Wagner come per Beethoven, di cui mi sto occupando in questi ultimi tempi):
      1) rilevo, purtroppo, come ancora si reiteri su di una pretesa “summa divisio” tra scuola storica e scuola moderna… In realtà la “scuola storica” NON esiste! Soprattutto non esiste quel calderone in cui si pretende di inserire tutto e il contrario di tutto (da Furtwaengler a Klemperer, da Walter a Knappertsbusch, passando per Keilberth, Kempe e Krauss). Il tutto contrapposto ad una fantomatica reazione contraria che vedrebbe in Karajan il capostipite. La realtà, per fortuna, è molto più varia e complessa delle semplificazione ideologiche;
      2) esiste, in verità, una serie di direttori DIVERSISSIMI tra loro che si sono trovati a dirigere Wagner nel medesimo periodo storico: ovviamente c’è una matrice comune (un Wagner più incentrato sul “mito” che sul “dramma”), ma sono tante e tali le differenze che posso ben dire che mettere sullo stesso piano Furtwaengler e Knappertsbusch significa – absit injuria verbis – non averli mai ascoltati con attenzione;
      3) trovo il Wagner di Bruno Walter – spiccatamente “romantico”, ma per nulla “mitico” – assai più simile a quello di Karajan di quanto lo sia Krauss: il Ring di Karajan, però, offre il valore aggiunto dell’estrema chiarezza della materia, risolta generalmente nel perfetto equilibrio del suono, attento alle sfumature e all’intrinseca bellezza estetica. E’ un Wagner – esattamente come quello di Walter – tipicamente “ottocentesco”, un Wagner che ascolta Mendelssohn e Schumann. Sulla stessa linea Moralt;
      4) Furtwaengler sta da un altra parte: più lo ascolto e più mi sembra che il cosiddetto “romanticismo” del direttore tedesco sia una forzatura. Lo trovo, invece, molto più moderno – con le sue inquietudini che si traducono in una ricchezza agogica inusuale – di Walter. Il suo Ring è cupo, tragico…la dimensione “mitica” (che risente, ovviamente, delle letture wagneriane del III Reich, di cui costituì – volente o nolente – la “colonna sonora”) riflette gli orrori del XX secolo. Il Wagner di Furtwaengler pone delle domande, quello di Walter (o di Krauss e Karajan), invece, impone delle risposte;
      5) Knappertsbusch è ancora diverso, nell’esaltare la ricchezza dell’architettura e nell’esaltare la forte valenza mitica e morale dell’epopea wagneriana intesa come epopea nazionale tedesca (nonostante la nota avversione del direttore per l’ideologia nazionalsocialista);
      6) peccato non vi sia un Ring di Klemperer: sarebbe stata una lettura ancora differente, più oggettiva severa, direi “luterana”;
      7) il Wagner massiccio (di Barenboim o di Thielemann, ad esempio) è figlio (più o meno degenere) di Knappertsbusch piuttosto che di Furtwaengler;
      8 ) credo che l’unico Wagner davvero rivoluzionario resti, tuttora, quello di Boulez che ha dato del Ring (e di Parsifal) una lettura veramente nuova e, a mio giudizio, straordinaria. Dopo di lui, francamente, non trovo altri Ring di eguale interesse;
      9) non voglio dimenticare, infine, il più bel Parsifal testimoniato dal disco, diretto da Kegel (direttore straordinario e, ovviamente, poco o nulla conosciuto), e pure il Wagner di Kubelik… Verrebbe voglia, anche, di polemizzare sulla vera e propria dittatura delle “grandi firme” orchestrali che hanno, di fatto, offuscato realtà musicali assai più meritevoli e interessanti: non è un caso che molti direttori (grandi, grandissimi…anche senza contratto con la DGG o la EMI) preferivano lavorare – per davvero – con orchestre meno blasonate, che garantivano maggior tempo, maggior impegno e maggiore disponibilità (parlo di Wand, Kubelik, Kegel, Suitner, Celibidache…). Senza contare il mondo sovietico, rimasto sconosciuto ai più e che, invece, è di una ricchezza musicale impareggiabile.
      Ps: questo per rafforzare quanto già scritto da Domenico

      • caro duprez rispondo sul punto primo per dire che l’idea del brodo pre karajan è uno dei primi prodotti della critica. quella prona alle multinazionali. distinguere uno ad uno questi “mostri” pre karajan sarebbe impresa cui i nostri macrobi sono incapaci e allora giù a cantare nel coro!!!

  5. Sul fatto che non si possa tracciare una linea di demarcazione netta nell’interpretazione di un compositore mi trovi assolutamente d’accordo. Forse l’unica linea di demarcazione che si può veramente tracciare è fra cattiva esecuzione e buona esecuzione (e questo vale per la musica sinfonica come per l’opera o la musica da camera vocale e non, insomma per tutta la musica). Probabilmente l’aspetto rivoluzionario che si tende a conferire al Ring di Karajan è da ricercarsi anche nell’oggettiva capacità di autopromozione del grande austriaco (senza con questo togliere nulla al valore musicale della sua lettura, sul quale mi sembra che più o meno siamo tutti d’accordo). Di certo, la sapiente gestione della sua immagine gli ha permesso di dare una risonanza maggiore alle proprie interpretazioni.
    Per quanto riguarda Furtwaengler, mi permetto di dissentire, nel senso che di sicuro è, come tu sottolinei, un interprete per molti versi apocalittico, problematico e tragico; d’altra parte, avendo letto molti suoi scritti, penso che tale interpretazione sia l’esito proprio del crollo del suo sogno romantico difronte agli orrori della guerra e del Reich millenario. Cerco di spiegarmi meglio: per certi versi Furtwaengler vive e testimonia in musica quella che Thomas Mann definisce, nel “Doktor Faust”, la crisi dello spirito dialettico tedesco. Insomma, per come la vedo io, Furtwaengler è un romantico devastato dal crollo di una nazione che del romanticismo è stata la culla e la massima espressione: da qui le tensioni, la tragicità, la problematicità del suo Wagner.
    Va da sé che un simile atteggiamento lo rende completamente diverso dal Wagner romantico di Walter, che è romantico perché, come di nuovo giustamente sottolinei tu, guarda alla generazione romantica tedesca propriamente detta.
    Non intendevo assimilare il Wagner di Furtwaengler a quello di Knappertsbusch; se ti ho dato questa impressione vuol dire che mi sono spiegata molto male. Condivido la tua visione di “Kna” come cantore di un’epopea germanica; questo, d’altra parte, lo rende incolpevole padre di quello che tu, e nuovamente mi trovi concorde, definisci il Wagner massiccio di Baremboim o Thielemann: credo che, come sempre, esso nasca dalla maggiore facilità di imitare o scimiottare gli aspetti, a torto, creduti esteriori di una lettura che di esteriore non ha nulla, ma se non c’è lo stesso rigore musicale e la stessa qualità di pensiero interpretativo non può che degenerare nella faciloneria. Ma, diciamolo nuovamente, “Kna” incolpevole: non si può certo imputargli una redutio all’esteriorità operata da altri della sua lettura.
    Per quanto riguarda il Parsifal che citi, non lo conosco e naturlmente mi hai incuriosito moltissimo. Cercherò di trovarlo e ascoltarlo attentamente.
    E sì, l’assenza di Klemper la sento anche io, poiché è un direttore che trovo sempre interessantissimo nel suo rigore e nel suo interpretare sempre fortemente “tagliato”: era uno che prendeva posizioni molto nette e questo me lo ha sempre fatto ammirare come uomo e apprezzare come musicista.
    Su Boulez direttore mi trovi nuovamente d’accordissimo; tanto per cambiare compositore, il suo ultimo disco dedicato a Zimanowsky è meraviglioso. Non ho mai amato il Boulez compositore; ma di sicuro il suo maneggiare la musica diciamo così sporcandosi le mani, gli ha conferito uno sguardo sulle composizioni altrui assolutamente individuale e originalissimo.
    Ancora d’accordo sulle orchestre meno blasonate ma con le quali lavorare tanto e a fondo.
    Del Wagner russo, a parte qualche bellissimo ascolto di Lemeshev e altri, so davvero poco e ti ringrazio di avermi aperto questa porta.
    In generale, ti ringrazio per tutto quello che hai scritto.
    Buon lavoro beethoveniano, e magari un giorno riapriamo questa parentesi wagneriana in modo sistematico. In fondo si avvicina un bicentenario. Ora, per mia esperienza, questi festeggiamenti si prestano alla perpetrazione dei peggiori delitti (basta leggere le compagnie previste per i Wagner – ma anche i Verdi – scaligeri); ma da come siete soliti lavorare, se non ho capito male, sicuramente ci regalerete una versione alternativa dei bicentenari (e in fondo con Verdi già lo state facendo) per arginare il dilagare delle cattive interpretazioni.

    • intuitivo, ma il 2013 ha un altro bi centenario oltre a quelli inflazionati di verdi e wagner…..e questo me lo tengo tutto per donna giulia ed il sottoscritto perchè è il bicentenario di quelli della nostra generazione Adesso quelli che ci voglion bene devono aguzzare l’ingegno!!!!!

    • Cara Lontanodalmondo, non mi riferivo affatto a te quando parlavo del malinteso sulla cosiddetta “scuola storica”, anzi, devo ringraziarti per aver dato occasione di affrontare l’argomento. Concordo con te su Karajan – che resta un fenomeno complesso e, col tempo, inflazionato: forse (se mi si passa la provocazione) si può dire che Karajan è il direttore meno amato dagli appassionati di musica classica, mentre è il preferito del più vasto pubblico generalista.

      Un’ulteriore considerazione su Furtwaengler: non credi che proprio quello che giustamente scrivi – azzeccatissimo il rimando al Doktor Faustus di Mann – sulla sua parabola musicale che ha attraversato le macerie del romanticismo tedesco, devastato come la Berlino del ’45, così cupa, tragica e inquieta ne confermino l’estraneità all’estetica romantica (espressa da un Walter, ad esempio)?

      Amo molto Knappertsbusch e trovo molto affascinante il suo legame alla grande epopea germanica – espressa nel suo Wagner – e il coesistente rifiuto della Germania in cui si trova a vivere: nessuna colpa, ovviamente, per le imitazioni che – mi piace ribadirlo – non necessariamente sono sgradevoli, ma certamente non sono mai originali.

      Mi piace moltissimo Boulez – credo, anzi, che sia, oggi, il massimo direttore d’orchestra vivente e, in assoluto, uno dei maggiori del ‘900 – e ne apprezzo, in particolare, la chiarezza e l’intransigenza nelle scelte (il suo repertorio è scelto con cura e con ragioni estetiche ben precise).

      Devo dire che amo particolarmente chi dirige “da compositore” (che è un valore aggiunto) piuttosto di chi si autoproclama “esecutore testamentario” delle volontà dell’autore: Boulez esattamente come Bernstein mostrano indipendenza verso la presunta volontà autoriale, che permette di “fare musica” e non limitarsi ad eseguire note. Al contrario di certo Karajan, per tornare in argomento.

      Ps: Kegel. Se ti è piaciuto il Parsifal di Boulez quello di Kegel ti incanterà! E’ un direttore straordinario, purtroppo da noi poco conosciuto (fa parte dei tanti rimasti oltre la “cortina di ferro” e quindi ignorati dalle majors del disco negli anni d’oro). Oltre a Parsifal eccezionali sono le sue incisioni di Schoenberg, Berg, Webern e di tanti compositori di area DDR.

      • Oh, ma avevo capito che il tuo discorso su una possibile identificazione di una “scuola storica” non era ritferito a me; e quando anche lo fosse stato, non me la sarei presa. Sono molto aperta al dialogo. Credo che la verità l’abbia scritta Tamberlick in un altro post: a volte nella scrittura non passa la condizione psicologica dello scrivente (saremmo tutti splendidi romanzieri altrimenti…) per cui da parte mia non c’è alcuna animosità; è quando c’è, di solito la esprimo chiaramente. Quindi mi fa piacere che tu abbia ulteriormente commentato il mio commento.
        Poi, per quanto riguarda ciò che dice Ninci qui sotto e quanto scrive anche Mozart, mi sento di sostenere che il commento di Duprez su Karajan sia intenzionalmente e sornionamente provocatorio, ma simpaticamente provocatorio. Perché io almeno concordo assolutamente con Mozart che la capacità di amministrarsi di Karajan non infici minimamente la sua grandezza di interprete (io, per ovvi motivi anagrafici non ho mai avuto il privilegio di ascoltarlo dal vivo, ma considero molte, moltissime sue incisioni – specialmente di Richard Strauss, o il suo Don Carlo, o Ciakovskij e mi fermo qui ma altri e tanti sarebbero gli esempi – assolutamente meravigliose), né intendo dire come afferma Ninci che la sua arte direttoriale sia un sapiente misto di marketing e cura del suono. Se ho dato questa impressione, come già ho fatto prima, mi scuso e affermo serenamente che non corrisponde affatto alla mia idea del Karajan direttore: basta vedere i video del suo Requiem di Verdi (altra cosa che ha sempre diretto e interpretato magnificamente, nonostante i quartetti solistici non sempre ben assortiti) da Vienna, o il concerto wagneriano di Salisburgo per rimanere incantati dal suo gesto limpidissimo che sembra suscitare il suono dall’orchestra. D’altra parte credo che, suo malgrado, la visibilità che Karajan ha sapientemente coltivato negli anni, in qualche modo gli si sia rivoltata contro, ma nuovamente non è colpa sua, è uno degli ingranaggi terribili dei media; qualcosa di simile a quanto successo a Pavarotti, che per molte, troppe persone è solo “quello che cantava Vincerò”, e non quel veramente grande tenore che è stato (con tutto che può essere discusso come qualsiasi altro cantante, non essendo la perfezione di questa terra). Insomma, temo, e lo affermo con rammarico, che Karajan sia per molti, anche per molti sedicenti addetti ai lavori, solo “l’uomo del marchio giallo”, come veniva definito per il suo strettissimo sodalizio con DG. Questo è vero? Ovviamente no. Anche perché io ho studiato e continuo a studiare la musica piuttosto a fondo e, partitura alla mano, sono perfettamente in grado di capire quanto Karajan fosse grande.
        Certo, poi Duprez ricorda il giudizio di Celibidache: beh, direi che siamo difronte a due personalità lontanissime e proprio non sovrapponibili. Anche Sviatoslav Richter e David Oistrack non amavano l’approccio musicale di Karajan – e avendo lavorato con lui parlavano con cognizione di causa. Questo sminuisce il valore di Karajan o può indurre a pensare che Richter e Oistrack fossero sordi? No, naturalmente. Tanto per dire una banalità, ma molto vera, la musica è bella perché permette anche questi scontri di personalità.
        Ma tornando a noi, caro Duprez, mi fa molto piacere che tu abbia apprezzato il mio riferimento a Mann (scrittore che amo follemente e che considero una delle coscienze critiche irrinunciabili del ventesimo secolo); d’altra parte continuo a pensare che Furtwaengler sia il sacerdote della fine del Romanticismo e che il suo dolore nasca dal fatto di non riuscire a, come direbbero gli psicologi, elaborare compiutamente il lutto e passare oltre. Questo suo contemplare le ceneri di un’estetica che egli sentiva come sua lo rendono immensamente tragico. Se mi concedi una divagazione storica, è un po’ come Demostene che non riusciva a rassegnarsi al fatto che lo splendore della Polis greca dovesse soccombere al totalitarismo di un pastore di pecore che rispondeva al nome di Filippo il Macedone. Insomma, penso che se Furtwaengler fosse veramente riuscito a estraniarsi completamente dal Romanticismo morente, non avrebbe avuto la grandiosa dimensione tragica che invece ha e che, a mio avviso, può nascere solo da una ferita aperta e bruciante, non da una cicatrice. Però sono disposta a riconoscere che ci muoviamo davvero fra le sfumature.
        Su Boulez e Bernstein sottoscrivo tutto; un altro direttore che aveva questo tipo di approccio, anche se si tende a dimenticare che era anche compositore, era Markevitc, che io, per quanto possa valere il mio giudizio, considero un grandissimo.
        Per concludere e fugare ogni dubbio lo riaffermo allegramente: Karajan è stato un pezzo importantissimo della storia della direzione d’orchestra e lo rimmarrà sempre. Poi come sempre, c’è a chi piace e a chi no; cosa sempre legittima se i giudizi sono ben argomentati.
        Saluti a tutti.

        • La grandezza di Furtwaengler, forse è anche questo: la tensione morale, la difficoltà di inquadrarlo in una casella ben precisa. Riflettendoci trovo sempre più rimandi con il grandissimo Mann (è anche uno dei miei scrittori preferiti).
          Mi fa piacere che su Karajan hai colto – almeno tu – l’ironia dissacratoria: è ovvio che Karajan non è solo marketing né la sapiente gestione dell’immagine potrà sminuirne la statura musicale… Amo molto certe direzioni di Karajan mentre altre non mi convincono (il suo Mahler ad esempio) o non mi convincono più.

  6. Caro Duprez, può darsi che gli appassionati non amino Karajan. Io ho ascoltato dal vivo tutti i più grandi direttori degli ultimi cinquanta anni. E, a mia esperienza, non c’è nessuno che gli si possa neppure accostare. Non diciamo uguagliare. Non fosse altro che per il livello tecnico, qualcosa di davvero irreale. Dagli interventi precedenti fa invece capolino, anche se non espressa direttamente, l’idea che Karajan sia sostanzialmente un miscuglio di abilità commerciale e lucentezza sonora; il che è semplicemente falso.
    Marco Ninci

    • quindi caro ninci tu hai ascoltato bruno walter, hans knapperbush, clemens krauss, fritz reiner, fritz busch, leo blech, mengelberg, furtwanglear, de sabata, toscanini…….. perchè quelli sono I GRANDI DIRETTORI!!!!!!!!!!

        • Mengelberg mi piace, ma non lo metterei mai tra i più grandi direttori del secolo (soprattutto accanto a Krauss o Furtwaengler): ci sono cose bellissime, ma altre francamente poco piacevoli (nell’ambito delle stesse sinfonie di Beethoven ad esempio). Blech, poi…un kappelmeister.
          Beecham, invece, non lo ritengo neppure un direttore d’orchestra, ma un pagliaccio con la bacchetta :)

    • Quella su Karajan era una battuta volutamente provocatoria: certamente un’esagerazione, ma con un fondo di verità. E lo dico come mero osservatore, registrando il fatto con oggettività quasi scientifica: e il fatto è che Karajan è criticato soprattutto dai “cultori” (appassionati e musicisti) e idolatrato dal pubblico più vasto (fatto per la maggior parte da chi ha poca dimestichezza con la musica classica). Del resto Celibidache disse che “Karajan era come la Coca Cola”. :)
      Non voglio certo sminuire la grandezza e l’importanza del direttore austriaco, ovvio, però fu un abilissimo manager di sé stesso e questo è un fatto innegabile. Poi io, personalmente, prediligo altri direttori, pur non negando che la bellezza del suono e la tecnica sopraffina ne fanno un “grandissimo”.
      “Pace e gioia”….e magari un po’ più di ironia…

  7. Su Karajan prendo in assoluto le parti di Marco. Anch’ io l’ ho ascoltato diverse volte dal vivo e affermo che non c’ era uno tra i direttori a lui coevi che fosse in grado di avvicinare il suo livello.Quello che si sente nei suoi dischi è solo la minima parte di quanto era capace di ottenere dal vivo. I discorsi sull’ abilità manageriale lasciano il tempo che trovano, anche perchè qualunque musicista fa commercio della sua arte nel momento in cui si esibisce, dietro compenso, di fronte a un pubblico pagante. Karajan era più bravo degli altri anche sotto questo aspetto? E dove sta il problema? Onore a lui anche per questo.

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