Après avoir suivi la transmission sur Arte Live Web, on pourrait dire que l’Elektra mise en scène par le légendaire Patrice Chéreau et dirigée par Esa-Pekka Salonen au festival d’Aix-en-Provence est un exemple magnifique pour comprendre ce qu’est un formidable « travail d’équipe » : une vision d’ensemble à laquelle concourent tous les éléments de la représentation et dont la réussite globale permet également de couvrir des défauts individuels qui auraient été moins tolérables autrement. Malgré le déjà-vu de la scénographie et des costumes (le fameux mûr de Peduzzi, les manteaux grisâtres, etc.), l’approche de Chéreau est profondément originale. Les libertés que le metteur en scène s’est permises par rapport à la trame restent toujours au service du drame et sont employées avec une efficacité et une exactitude que l’on ne rencontre que trop rarement à l’opéra aujourd’hui. Chéreau n’a pas besoin d’imposer un Konzept absolument extérieur à l’action afin de donner une « lecture » personnelle de l’œuvre. Il n’a pas non plus peur de laisser parler la musique et ne se sent jamais contraint de « remplir » la scène à tout prix par des mouvements et des objets superflus. Tout se fait principalement à travers une Personenregie aussi claire que laconique. C’est ainsi que cette Elektra devient l’histoire de la vengeance d’une fille contre sa propre mère, histoire à la fin de laquelle ni la mort de Clytemnestre ni la danse triomphale d’Electre n’apportent la rédemption espérée. Après le massacre, Oreste abandonne les sœurs avec les cadavres. Electre reste en vie. Chéreau nous montre que la tragédie est loin d’être terminée. Tout au contraire, elle vient juste de commencer et cette fois c’est la tragédie, sans but et sans aucune perspective de salut, de la survie auprès des cadavres. En ce sens, la lecture de la partition straussienne proposée par Salonen est absolument congéniale à la vision de Chéreau. Avec l’Orchestre de Paris Salonen distille une énorme quantité de détails et de finesses cachés dans les jongles de la monstrueuse écriture instrumentale d’Elektra et nous fait notamment savourer en toute richesse et lenteur le grand moment lyrique de l’opéra, à savoir la scène de la reconnaissance. Mais le phrasé généreux déployé par des instruments à cordes, par exemple, est loin d’accuser une ardeur typiquement postromantique. Tout en gardant la monumentalité de la rhétorique straussienne, Salonen l’approche néanmoins avec une profonde sécheresse qui est aussi efficace qu’elle est travaillée de façon admirablement conséquente. Cette « base » visuelle et sonore extrêmement solide de la représentation permet aux chanteurs (qui, à leur tour, sont très loin de la perfection et qui manifestent chacun à sa manière des défauts vocaux causés par une respiration et une émission défectueuses) de s’y « baigner », ce qui en fin de compte conditionne leur succès final, un succès qui n’est pas toujours identique à une réussite. Cela regarde notamment la Chrysothemis d’Adrianne Pieczonka, toujours à la limite du cri, ainsi que l’Oreste de Mikhail Petrenko, dont la voix est privée de toute puissance ou autorité. Mais aussi la vétérane Waltraud Meier se trouve mal placée dans le rôle de Clytemnestre, étant donné que Clytemnestre est un rôle de contralto et que le médium et les graves n’ont jamais été le fort de la cantatrice. A fortiori, ils ne le sont pas aujourd’hui, l’instrument de cette singing actress étant définitivement abimé par l’âge et les défauts techniques de base, comme le médium bouché dans le nez ou les graves bloqués. Au niveau purement vocal la vaillante Evelyn Herlitzius, elle aussi, n’est pas exempte des défauts de base : au lieu de flotter sur le souffle, la voix est systématiquement forcée, d’où l’acidité du timbre, le registre aigu criard et le manque de legato. Pourtant, sa grande résistance physique et sa profonde sensibilité théâtrale font d’Herlitzius une artiste qui a toujours quelque chose de très sensé à partager avec son public, qu’il s’agisse d’un geste ou d’une phrase, alors que de nos jours les autres « brailleuses » wagnériennes et straussiennes n’ont même pas cette volonté artistique charismatique pour compenser au moins en partie leur incompétence en matière vocale.
Giuditta Pasta
L’interno di un cortile dai colori sabbiosi e su cui domina una luce estiva ocra: all’interno di esso un gruppo di serve inizia, o meglio, continua il consueto lavorio, ciangottando acidamente sui turpissimi segreti familiari di cui sono state testimoni.
La scena non è ambientata in Grecia, non rappresenta un tempo mitico o mitologico, non è trasportata furbescamente e banalmente ai nostri giorni, non vuole essere visionaria; tutto questo a Chéreau non interessa punto. Chéreau ambienta “Elektra” in qualcosa in cui facilmente possiamo meglio riconoscerci, qualcosa di semplice eppure familiare, che ci appartiene: la nostra quotidianità, la nostra “apparente” normalità.
Allora Elektra sarà una ragazza apparentemente qualsiasi, vestita in maniera casalinga, pantaloni di cotone, una canotta, che animata da ribellione dorme in un sacco a pelo in un anfratto di questo cortile. Al suo fianco il simulacro della tomba paterna, una specie di colonna bianca spezzata in due, un punto di luce che attira la nostra attenzione nell’anonimia delle pareti, e che, come Elektra, nella sua essenzialità, cattura la nostra attenzione e diviene in alcuni momenti il non-luogo verso cui i personaggi saranno risucchiati.
E’ sicuramente instabile e disturbata, Elektra, traumatizzata, corrosa dall’odio verso sua madre: eppure ci appare un monolito di apparente sicurezza, una torcia umana di energia devastante, dai gesti istintivi, felini, scatti di protervia distruttiva e orgogliosa: più tardi saprà, questa Elektra, cercare con eguale disperazione contatto, affetto, abbracci; abbraccerà, inginocchiata, la madre, un gesto che appare amorevole e insieme sinistro e rapace; abbraccerà, seducente e selvaggia, la propria sorella, alla ricerca di una complicità che le unisca finalmente in quel sanguinoso fine comune, caricandosi di ambiguità sensuale; abbraccerà il fratello ritrovato, anche stavolta inginocchiata, ma vivificata da amore sincero e commosso, dalla consapevolezza della fragilità scioltasi di fronte all’amore ritrovato.
La stessa commozione che la porterà alla notizia della falsa morte di Oreste a piangere accoccolata in posizione fetale sulla tomba del padre, un pianto doppio se pensiamo che al dramma del genitore si aggiunge la perdita della speranza di riscatto rappresentata da Oreste e la paralisi della propria solitudine.
Contrapposta ad essa la scena del dialogo tra Clitennestra e Elektra su quella stessa colonna bianca sedute in maniera speculare, immobili nella loro isteria, le due donne si studiano e si confessano in un crescendo drammatico che porterà la madre a rifiutare la figlia e quest’ultima ad attaccare fisicamente la madre senza alcun controllo razionale, scatenando l’energia accumulata fino ad allora nell’invettiva, nel tentativo di schiacciare la rivale.
Saranno le serve, coro contemporaneo, necessario e attivissimo, assistenti mute di tutta la sequenza, a separare le due donne ed a partecipare sgomente al riconoscimento di Oreste e del suo Aio come persone appartenenti alla casa, alla famiglia: una agnizione comune e universale, composta, naturale, delicatissima compiuta con piccoli gesti, così teneri e normali.
Stupefacente la scena della morte di Egisto: il cadavere di Clitennestra appena scannato giace in scena nel buio, solo Elektra, Oreste e l’Aio sanno che è stato trascinato davanti all’ingresso.
Elektra illuminerà il cammino del viscido Egisto, mai guardandolo negli occhi, china su una tenue luce di candela che illumina debolmente la scena, quasi danzando intorno all’uomo.
Lentamente Elektra si inginocchia, la scena si muove ponendo in primo piano, su un ripiano, il cadavere della donna al cui fianco, Elektra farà discendere la candela fino ad illuminarne l’orrore; Egisto non fa in tempo ad urlare e sarà finito, braccato, dai suoi assassini. Grande teatro.
Clitennestra, ritratto di una casalinga comune, nei suoi abiti comuni, apparentemente padrona sicura del palazzo e della propria “normalità”, in realtà devastata dal senso di colpa, dall’aspra solitudine auto inflitta, dai peccati immondi di cui continua a macchiarsi nonostante il suo orrore psicologico.
Questo è Teatro di Regia, autenticamente intenso, scavato nei gesti, capace di potenziare il dramma e le capacità dei singoli, esaltandone la forza espressiva caricandola di tensione inaudita e scoprendo le nervature più intime dei personaggi. Pazienza per alcune cadute facilmente evitabili come Oreste e l’Aio che assistono al confronto delle sorelle, così che la scena dell’agnizione perde il proprio impatto teatrale, poichè il fratello deve “fingere” di non riconoscere la sorella; il finale un po’ irrisolto con Oreste che nell’indifferenza generale e forse tormentato dal rimorso del massacro abbandona il cortile seguito da Crisotemide; il personaggio di Crisotemide anonimo, insipido, poco approfondito; i servi svuotati a terra lasciati a loro stessi; le scene alla Peduzzi, già viste migliaia di volte; lo spettacolo appassiona per la sua intelligenza e l’innegabile spessore registico.
Una regia del genere, non può reggere da sola se non ci fossero artisti disporsi a mettersi in gioco onde portarla con forza inaudita fino in fondo.
Salonen è complice ideale di Chéreau.
La sua direzione d’orchestra si configura come esemplare, tutta proiettata verso un sinfonismo che riesce a bilanciare la bellezza del suono orchestrale con l’asciuttezza del fraseggio, scevro di ogni retorica o ogni simbolismo cerebrale, ma arricchito da richiami mutuati da autori dei primo novecento come Debussy o, azzardo, Puccini, ad esempio.
La prima scena non teme nella bacchetta di Salonen di essere brusca, esacerbata, quasi sbrigativa, perché in partitura questo effetto è assolutamente voluto da Strauss con continui richiamo al Moderato Assai o Accelerando che devono rendere frenetico l’accavallarsi dei dialoghi tra le donne in preparazione al cromatismo esasperato del monologo di Elektra, senza mai cedere al caos musicale, ma impreziosendo le voci delle numerose comprimarie, mai soverchiate dal suono dell’orchestra.
Il monologo stupisce poiché viene privato di tutta la componente più soffocante, sostituita da un lirismo intimo, così da permettere ai fiati, agli ottoni e soprattutto agli archi di protendersi verso un crescendo continuo.
Salonen, come ambiva Hofmannstahl, si sforza di trovare quell’interpretazione in cui le luci e le ombre, la notte ed il giorno siano parte essenziale del colorito orchestrale e dei fraseggi della voce.
L’accompagnamento degli archi poi riesce a sciogliere il canto della protagonista in suggestioni di rara dolcezza che esplodono piano e morbide all’unisono con la voce e che ritroveremo macchiate di sensualità e brama come sottofondo al canto di Crisotemide.
Il confronto tra madre e figlia si risolve in sonorità insinuanti, pericolose come spire, esattamente come nel trasalimento improvviso che risolve l’arrivo di Clitennestra così che già in musica osserviamo i contorcimenti delle due figure verso cui Salonen prova una palpabile pietà.
Il muro sonoro che si staglia durissimo nel monologo di Elektra contro la madre, si tramuta in un seducente ambigua nenia prima nella scena tra le due sorelle e poi in una rassegnazione sinistra nella scena seguente.
Nell’agnizione gli ottoni prima e gli archi ed i legni poi suggellano un momento di autentica intima catarsi: Elektra ritrova la sua umanità, la sua femminilità respinta, l’orchestra raccoglie la rilassatezza del gesto di Salonen introducendo piani e pianissimi: una catarsi sonora poetica e sommessa, che rilassa l’attenzione dopo la tensione accumulata. Commovente.
La scena di Egisto volutamente sostenuta da un suono sarcastico, a tratti parodistico con i fiati in primissimo piano, lascia spazio all’ondata orgiastica del finale in cui l’orchestra “canta” la liberazione con un abbandono nei fraseggi di travolgente dionisiaca intensità, interrotta solo dalle battute finali degli ottoni che ci catapultano nella loro secchezza, nelle loro abissali pause in qualcosa di oscuro e terrificante che la tensione non ha scalfito.
Magnifica protagonista Evelyn Herlitzius.
Prima di tutto grande artista, grande personalità scenica, capace di seguire perfettamente l’angolazione musicale di Salonen e di assecondare la recitazione essenziale ed espressiva di Chéreau con una forza inaudita e attenzione suprema.
La fraseggiatrice, grazie ad una dizione esattissima, riesce ad essere sempre ovunque varia e ricchissima di colori come dimostrano certe frasi nel monologo iniziale, certi scatti nel confronto con la madre, tutta la seconda scena con Crisotemide. Vertice davvero entusiasmante la scena del riconoscimento tra i fratelli ed il finale, nei quali la spontaneità del canto unita alla fantasia dell’interprete riescono a suonare con l’orchestra all’unisono librandosi con maggiore sicurezza.
Meno levigata la vocalità: il timbro è da soprano lirico, e questo andrebbe anche bene per un personaggio che Strauss amava affidare ad Annie Krull e Lucille Marcel, anche se una voce più drammatica troverebbe già la tinta del ruolo; eppure l’emissione, nonostante una certa ampiezza, è sempre tendenzialmente aspra, acidula, in certi momenti sfocata soprattutto nel registro grave (ed Elektra deve immergersi fino al Sol sotto il rigo), il legato sufficiente a mantenere una linea di canto comunque robusta, che però non la esime da prendere le note oltre il passaggio tutte da sotto, fissandole, strillandole o abbandonandole subito; molto meglio i passi più lirici, spianati, soprattutto nei momenti in cui è il cantabile a prevalere e la Herlitzius può permettersi un’emissione più controllata, rilassata, sfumata nelle ombreggiature.
Waltraud Meier, Clitennestra, ha diviso i giudizi di noi grisini: chi l’ha trovata ancora più provata, chi più rauca, chi fuori parte, chi più vuota e in difficoltà, chi l’ha trovata convincente.
Non ho mai fatto mistero dell’ammirazione che provo verso la Meier, soprattutto quando canta Wagner, Berg, Saint-Saens, forse Beethoven, in cui non è proprio ideale, ma mai ciò mi ha impedito di bacchettarla: ad esempio mai le perdonerò il “suo” Verdi e Bizet, oppure le ultime stremate Waltraute.
Questa Clitennestra a me ha convinto, soprattutto se confrontata con se stessa.
L’attrice e la fraseggiatrice, secondo me, hanno ritratto la donna voluta da Chéreau e disegnata musicalmente da Salonen; la voce soprattutto al centro ha suonato più piena e timbrata, evitando l’effetto di “parlato”, in basso deve usare come sempre ha fatto, sonorità gutturali, mentre in alto (i Sol) sono ghermiti e vibrati. Eppure la forza dell’accento, la precisione della dizione non sono stati inferiori a quello della Herlitzius, risolvendo il duello attraverso un crescendo nevrotico che con Gatti, nel 2010, non era riuscita ad ottenere.
Magari sbaglio io ed hanno ragione i miei colleghi, ma mi rimetto al vostro ed al loro giudizio.
Dovrebbe, a parer mio, iniziare a pensare a Fricka, Brangaene, alla Nutrice della “Frosch”, a ruoli da seconda donna e abbandonare Isolde, Sieglinde, Kundry, Leonore, Marie, etc.
Mediocrissima la Pieczonka: la voce esiste solo al centro ed è supportata solo da una generica pallida gradevolezza timbrica, il resto è stridulo, vuoto, l’interprete raggelante o pigolante e senza accento alcuno. Inspiegabile il successo ottenuto al termine.
Pessimi Mikhail Petrenko (Oreste) e Tom Randle (Egisto): il primo è semplicemente l’imitazione mal riuscita di un dilettantesco baritono spoggiato, chiaro e corto; il secondo, proveniente dalle fila dei baroccari, si limita a disturbare stonando tutto ciò che c’è da stonare, bitumando una voce di rara bruttezza.
La lunga onestissima schiera delle parti di fianco rende un doveroso e sincero omaggio ad artisti del calibro di Roberta Alexander, Renate Behle Donald McIntyre, Franz Mazura, i quali con professionalità ed entusiasmo si mettono a disposizione di direttore e regista senza sfigurare, donando insolito spicco ai rispettivi ruoli. Fa un certo effetto ritrovare Chéreau, McIntyre e Mazura per mano su uno stesso palcoscenico, segno che il leggendario Ring del centenario, di cui erano protagonisti, non ha mai smesso in questi anni di incantare imprimendosi nella mente degli spettatori.
Trionfo autentico e delirante per tutte le componenti dello spettacolo a cui personalmente mi associo (eccetto i tre di cui sopra). Questa volta meritato!
Marianne Brandt
“Meno levigata la vocalità” è una perifrasi eufemistica che meriterebbe un’analisi alla Leo Spitzer. La sua ricercata eleganza formale cerca vanamente di smorzare, o celare, la contraddizione tra il giudizio positivo sulla prestazione dell Herlitzius e quanto predicate sull’insussistenza di una conflitto tra perfezione formale ‘callimachea’ e limacciosa intensità ‘omerica’.
Comunque, una simile lettura orchestrale mette tutti d’accordo. Io ho sentito anche tanto Mahler ( e anche un po’ di Sagra della primavera): un’Elektra sintomo documentario di tutto ciò che andava manifestandosi nella musica di quegli anni.
Ulisse
Caro Ulisse, nonostante la voce abbia i difetti che ben si conoscono, la Herlitzius ha la robustezza necessaria per arrivare fino alla fine e l’intelligenza e sensibilità per venire a capo del ruolo come era già capitato nella sua Ortrud scaligera. E poi è una simpatica strillona che arriva fino in fondo. Certo, ruoli come Brunnhilde e Isolde non glieli affiderei mai visti gli esiti calamitosi raggiunti in questi personaggi; basta ascoltare la difficoltà, le stonature, i cali devastanti manifestati nei concerti di Torino.
La stessa cosa era capitata alla Johansson a Roma.
Salonen fornisce una prova gigantesca.
“insussistenza di una conflitto tra perfezione formale ‘callimachea’ e limacciosa intensità ‘omerica’”
comunque, questo si poteva formulare anche in modo un po più semplice… 😀
tu cosa proponi allora?
non esiste la possibilità di cogliere una differenza fra lato vocale-tecnico ed interpretativo? se non c’è differenza fra forma ed intensità, allora quali sarebbero +i criteri per giudicare una prestazione? come si articola quali sono i pregi ed i difetti dell’elektra di Herlitzius?
mi sa che tu parti da un risultato, da quel “insieme” (di cui avevo parlato altrove) molto ambiguo che non consente più nessuna analisi concreta (nessuna “critica”) della prestazione.
Cara GIuditta, temo proprio che anche tu, alla fine dei conti, ricorri al concetto di totalità: “une vision d’ensemble à laquelle concourent tous les éléments de la représentation et dont la réussite globale permet également de couvrir des défauts individuels qui auraient été moins tolérables autrement”.
Est-ce que je me trompe là-dessus?
U
Si legga “ricorra”, non “ricorri”.
U
Certo, hai ragione. Però, contrariamente a tante, tantissime recensioni nelle quali i difetti vengono mascherati e trasformati in pregi e “scelte inteprretative”, io descrivo una totalità differenziata. Ho letto tante volte che il timbro acido ed aspro della Herlitzius sia perfettamente adatto al carattere di Elektra (un altro esempio sarebbe Ortrud). E’ il tipico ragionamento odierno per confusione di criteri che ignora voluttamente il lato tecnico della prestazione.
Vedi, caro Ulisse, la differenza sostanzialmente è questa: io e Giuditta non parliamo di “stecche espressive… note spoggiate a fini drammaturgici… voci stimbrate per meglio risaltare il carattere del personaggio… acuti trasformati in urla per sottolineata l’anima lacerata del protagonista…” ed altre disonesti onanismi intellettuali cari a certa critica o a certi melomani dall’emozzzzione facile; io e Giuditta ci limitiamo ad ascoltare, ragionare in base ai nostri parametri, riportare quanto sentito in base a quello che è scritto sul pentagramma, e analizzare il tutto scindendo le sue parti.
Per una mente elaborata come la tua tutto questo dovrebbe essere facilmente comprensibile… o no?
Diciamo che io preferirei sentire Elektra cantata dalla Stemme, se si decide a debuttare nel ruolo prima che si rovini la voce, o dalla Goerke…
Perché definisci asciutta una direzione certamente priva di turgore, ma molto morbida (talora languida), prevalentemente melodica, profondamente lirica nella volontà di dare empaticamente risalto a ogni singola voce strumentale all’interno della totalità del corpo orchestrale? E rispetto alla direzione fiorentina di Ozawa (che io peraltro non conosco)?
U
magari parla rispetto alla direzione di dmitri mitr…..la piu straordinaria elekra che conosca, peraltro assai ricalcata da abbado con i berliner che vidi a fi. Quanto alla nina…..le mancano gli acuti per elektra secondo me….e la punta….e lo slancio……la ragione del non debutto è precisa secondo me.
Come ti sbagli sulle qualità di interprete della Stemme…
U
Alla Stemme manca anche la pronuncia, visto che è tutta ingolata e appesantita nella sua vocalità.
le qualità di interprete sono imprescindibili dalla capacità tecnica e dall’adeguatezza al ruolo. La signora Stemme è, per dirla chiaramente, un soprano lirico malriuscito, ossia senza tecnica, incapace di legare come pure di abbordare anche solo i primi acuti di un ‘opera come la Forza. Poichè oggi se non sai cantare vai a latrare Wagner , si è riciclata lì. Diversamente non ci sarebbe mai stata alcuna carriera da top. solo oggi poi si accettano brunhildi senza acuti, oltre che con la voce ingolfata ed indietro come la sua. il fatto che non leghi, in Wagner è orami trascurabile, tanto si fa arf arf arf mangiando e sbranando la linea di canto. Elektra per lei è impraticabile anche solo fisicamente, perché tra i tanti limiti che è ha, nemmeno grida come la Erlizius, che, come ha ben detto la Pastina, ha una resistenza davvero ragguardevole. quale interprete vuoi mai che sia la stemme???? spaccia per eleganza una inerzia, una mancanza di accento rare…
Ti sbagli sia sull’accento sia sul legato della Stemme in Wagner…MADIBBBRUTTO,a mio modesto avviso!
Verificheremo da domani nel Ring dei Proms.
U
Ci sono dei momenti, delle frasi, delle scene in questa edizione in cui Salonen preferisce abbandonare il languore, il romanticismo, la morbidezza, per dare maggior rilievo alla stringatezza ed ad un suono più secco, come, ad esempio, nella scena delle serve in cui il continuo Accelerando è davvero asciutto e sbrigativo, oppure nella scena tra Clitennestra ed Elektra, con effetti teatrali davvero interessantissimi.
Ozawa a Firenze (io c’ero) diresse un’Elektra ottocentesca, romanticissima che creava un bellissimo effetto con la regia cerebrale di Carsen. La Goerke fu una Crisotemide cantata con grande decoro, la Bullock fu una protagonista abbastanza terribile, la Baltsa “cantò” e risolse la parte senza bava alla bocca.
caro U vedo in te il perfetto ELEKTRICISTA per cui se hai un po’ d pazienza e un indirizzo d posta capiente 250 mb potrei farti avere quella performance fiorentina
La Goerke Elektra la sta cantando già in giro ed in rete l’audio delle sue perfomance dal vivo lo trovi certamente per fartene un’idea.
La Stemme, bé, dopo Turandot, Minnie, Brunnhilde, Salome (opaca e sforzata nelle prime due, interessante nelle altre), arriverà sicuramente ad Elektra, dopo Kundry ovvio e magari anche Tintora già che c’è…
Caro Ulisse, potresti spiegarmi meglio il tuo intervento? L’eleganza formale di Marianne cerca di smorzare o celare una contraddizione. I termini della contraddizione sono: 1) il giudizio positivo sulla prestazione della Herlitzius; 2) l’insussistenza di un conflitto fra l’aspetto tecnico (perfezione callimachea) e quello espressivo (intensità omerica). Ma se il conflitto è insussistente, non vi è conflitto fra perfezione callimachea e intensità omerica. Quindi vi sono armonia e compatibilità. Tutto ciò porta al giudizio positivo sulla Herlitzius. Vi è consequenzialità, non contraddizione, che quindi non ha bisogno di essere celata o smorzata dall’eleganza della prosa. Sicuramente non ho capito io e per questo ho bisogno di una spiegazione.
Ciao
Marco Ninci
Ti prego, Giulia, ora ho capito; cestina il commento.
Marco Ninci
No, dai, lasciamo il commento. Tanto, per me non è ancora chiaro 😀
Cara Marianne, più che ottocentesca e romantica la direzione di Ozawa mi sembrava floreale, un fregio liberty, tutta eleganza e leggerezza com’era.
Marco Ninci
Una serata straordinaria che purtroppo il MMF non ha ritenuto opportuno replicare quando Ozawa era disponibile e, magari, con una protagonista migliore.
Ho ascoltato questa Elektra e ho trovato la direzione di Salonen decisamente tardo romantica, a dispetto di quanto si poteva prevedere (mi immaginavo, infatti, un’Elektra più analitica, asciutta, nervosa). Salonen stupisce e sorprende. Non vedo l’ora di ascoltarlo in Scala.
per me è stato bravissimo….e mi ha stpito, per quello che vale ascoltare in streaming, la qualità del suono dell’orchestra…..
anche a me è piaciuto moltissimo: mi aspettavo solo una lettura più novecentesca (conoscendo Salonen).