Fratello streaming. Verdi Festival 2013.Simon Boccanegra a Parma. Il canto di Bignamini.

Prima opera del Verdi Festival 2013, la produzione di Simon Boccanegra ha riscosso il consenso del pubblico locale. Non ha entusiasmato, non c’era da esultare, ma i motivi di soddisfazione per i parmigiani non mancano in assoluto e soprattutto in relazione dopo le disastrose gestioni delle ultime stagioni.
Nelle interviste si è colta una certa diffidenza verso questa produzione, che offriva una formulazione del cast cui i parmigiani non sono abituati, forse perché la direzione artistica è andata ad attingere fuori dai percorsi usuali, cui il pubblico locale è abituato. Finita l’era Nucci, niente Francesco Meli, a livello locale ritenuto il prototipo di tenore verdiano, un direttore sconosciuto, un allestimento già visto. A parte la protagonista femminile da riprovare e, magari, protestare ritengo condivisibili tutte le scelte vocali effettuate,  non perché perfette, ma funzionali a tal punto che nel  lugubre panorama delle produzioni di quest’anno verdiano questo Simone è stato dignitosissimo. Un siffatto giudizio è il risultato di anni di mediocri produzioni verdiane, che funestano i nostri palcoscenici. Basta richiamare con riferimento al titolo dedicato al primo doge genovese la spaventosa produzione scaligera diretta da Barenboim,  per arrivare al recente Ballo scaligero dove lo scandalo  non era l’allestimento, ma un direttore incapace di “tenere” buca e palcoscenico.
Dalla produzione del Festival di Parma, che deve  proprio all’efficiente ed efficace buca il proprio risultato, è emerso chiaro che  la logica non può più essere quella del grande nome da star system ( magari anche diroccato ) che si “concede” a Parma, ma quella del professionismo e della preparazione e che ormai non esiste più il sistema di un tempo per cui fra la star, che cantava nei dieci maggiori teatri del mondo e gli altri cantanti ci siano rilevanti differenze, che giustificano differenza di fama, di trattamento e di cachet.
E’ questa la strada che i Festivals, per poter giustificare la propria esistenza e sopravvivere, debbono scegliere e seguire. I divi offerti dalla gestione Meli, accompagnate da trionfalistiche quanto provinciali celebrazioni non sono la ricetta per una onesta gestione, ma anzi il metodo per fuorviare le capacità uditive del pubblico.
E’paradossale, ma  l’evento seguito dal corriere in teatro alla generale ed in streaming alla prima è stato un rilevante passo verso la deprovincializzazione prima mentale che reale di  questo Festival.La ripresa del vecchio allestimento di De Ana, bello, cromaticamente appagante, con quel tocco di fantastica reinvenzione di un medioevo in abiti quattrocenteschi ( regia pochetta a dire il vero), ha fornito una cornice sicura alla realizzazione musicale. Meglio il vecchio che funziona di qualunque nuovo velleitario e afflitto da certa falsa creatività in uso nei teatri alla moda. Almeno il pubblico non viene urtato o provocato gratuitamente e l’autore frainteso e tradito.
Jader Bignamini, che in questi ultimi mesi pare al centro dell’attenzione generale, non ha deluso le attese. Sicurissimo di sé e della sua Toscanini, ha diretto un Boccanegra provvisto di tutto quello che occorre ad una valida direzione verdiana, mai eccessiva nel volume ma nemmeno servile ( finalmente un direttore, che non ha bisogno di fare fracasso per segnalare la propria presenza ), capace di differenziare i climi delle varie scene, di staccare tempi adeguati al canto pur nel rispetto della situazione drammatica (penso alle opportune velocità del duetto finale Simone-Fiesco ) e di gestire perfettamente il palco, solisti e coro. Ho trovato bellissimo il “canto” orchestrale al duetto tra Simone ed Amelia, ad esempio, come la scena di Fiesco al prologo, con tutta la coda, che accompagna l’uscita di scena dell’afflitto patrizio il cui sentimento è stato misuratamente amplificato dalla buca, come pure l’impegnativo Palazzo degli Abati e la scena finale della morte. Bignamini ha un talento di accompagnatore che ignoro se venga dalla passione per il canto o semplicemente dall’istinto, ma che gli consente di fraseggiare con le voci, lasciandole cantare senza mai entrarvi in conflitto. Finalmente accompagnamenti privi di meccanicità, la più grande tara delle giovani bacchette di oggi. Sicurezza e precisione negli attacchi, come nella gestione degli ensemble, dove tutto è sotto la sua egida sicura, sono caratteristiche di questa bacchetta e lo spettatore può rilassarsi, lasciandosi guidare dal maestro. Una fluidità cui non siamo più abituati, e che era la condicio sine qua dei direttori sino a trent’anni or sono, perchè tutto scorre con la cifra stupefacente e semplice dell’adeguatezza, del fare sempre giusto. E tutto sa di Verdi, non di altro, o di storpiato. Lui mi pare un vero talento pragmatico, l’unico italiano su cui mi azzarderei a puntare se avessi un teatro mio, perché la limpidezza della sue idee musicali ha il sapore delle idee chiare, del pensiero intelligente. Non ci sono sofismi, idee astruse o velleitarie, tempi inauditi spacciati per geniali interpretazioni o roba simile. Bignamini fa il giusto e lo sa fare molto bene. Ed in questo c’è il tenere insieme il cast, sapendo che lavorare con il cantante e non contro giova a tutti, soprattutto al bilancio finale dello spettacolo.
E spesso serve anche a limitare i difetti dei cantanti, che, al contrario, da tempo le bacchette si industriano a  esaltare anziché ad occultare. Il cast –inutile nasconderlo- ha dei limiti vocali e tecnici, ma le mancanze, che sono ormai generali e croniche, sono state amministrate in modo da arrivare in fondo esibendo il meglio e contenendo le perdite.
Protagonista, Roberto Frontali, che non ha un mezzo naturale di grande qualità né timbrica né di tonnellaggio. Ha cercato di fraseggiare con i limiti del suo imposto, primo fra tutti la mancanza di morbidezza nei passi nobili e la difficoltà a smorzare ed addolcire in zona medio alta. Male comune a tutti i baritoni oggi in carriera. L’emissione è aggressiva, e quindi inelegante, come mette in evidenza il duetto con Amelia, più adatta agli scontri aperti come le frasi con Albiani nel Palazzo degli Abati. Ha cercato di essere nobile, adeguato al carattere del personaggio, senza gridare apertamente come altri colleghi, ma in debito di ampiezza al “Plebe patrizi popolo” mentre il tentativo di cantare piano, soprattutto in zona di passaggio superiore, è afflitto da suoni strascicati, ma i tentativi sono stati ben superiori alla media dei colleghi in carriera. Ma almeno ci ha provato.
Debuttava il tenore Diego Torre quale Adorno, nel ruolo che nella produzione scorsa è stato dell’idolo di casa. Una voce che alla generale è parsa più salda negli acuti, alcuni anche abbastanza squillanti, alla prima qualche acuto è, invece, apparso incerto. Trovo che canti con una voce che non ha la qualità naturale di Francesco Meli, ma con maggiore sicurezza in alto. Sbaglia per cantare  ruoli drammatici  ad ingrossare il centro ledendo la propensione a salire qualità che nel ruolo di Gabriele è indispensabile visto che il recitativo dell’aria del secondo atto, il terzetto con Amelia e Simone ed il duettino con Fiesco al primo atto sul passaggio superiore insistono impietosamente. La realtà è un canto basato più sulla dote che sulla perizia tecnica donde non gestisce il fiato nel canto spianato in zona medio alta con scarso legato e negli acuti “attacchi da sotto” del suono. Le intenzioni di fraseggio sono generiche, come quelle di tutti i tenori di oggi dotati di siffatto “bagaglio tecnico”.
Fiesco ossia Giacomo Prestia, voce di vero basso e di carriera avanzata. Finchè è alle prese con l’aria del prologo non incontra problemi, ma quando appena la tessitura tende a salire il canto si fa più problematico. Si sono sentite oscillazioni alla scena con Gabriele, mentre al duetto finale con Boccanegra al celeberrimo “Piango. Per me ti parla.” fatica a legare e a dare la giusta ampiezza alle frasi commoventi di Fiesco. Bella la sua presenza in scena, solenne e ieratica.
Punto debole nonché scelta non condivisibile la protagonista femminile, Carmela Remigio. Una prova con molte mende sul piano vocale, ma soprattutto inadeguata su quello drammaturgico. La sua Amelia pareva una soubrette sospirosa, fatta di mosse, pose costruite ed accento o inadeguato o caricaturale. La sua inadeguatezza alla parte è cosa scontata, perché per quanto Amelia abbia un carattere lirico, vocalmente richiede una voce di tonnellaggio ben superiore, con ben altra pienezza nel centro e saldezza negli acuti, che la signora Remigio emette di fatto sistematicamente flautati o berciati, concertato degli Abati incluso. Le fanno difetto anche le prime note gravi, assenti e risolte col parlato, come nella sortita e nel racconto del ratto ad opera di Paolo. Una voce sonora, ma di soprano leggero, non può accentare con credibilità questa parte, che implica anche frasi perentorie, un accento sempre e, comunque, da dama di rango. Ha tentato di allargare il suono, come al quadro del Palazzo degli Abati, col risultato di emettere note fibrose e arrochite, inutili nel bilancio generale. Nella foga di interpretare ha ornato la parte di sospiri, come al duetto col padre, qualche singhiozzino ridicolo al finale, che hanno dato anche un che di stucchevole alla sua prova sulla quale Bignamini avrebbe, forse, dovuto intervenire. Anche se un conto è dirigere e concertare e l’altro tentar miracoli.

 

 

2 pensieri su “Fratello streaming. Verdi Festival 2013.Simon Boccanegra a Parma. Il canto di Bignamini.

  1. Divina Giulia, concordo -quasi- su tutto e, in specie, sull’aria nuova e la de-provincializzazione del Festival.
    Che Bignamini -e con lui il per me stupefacente Sebastiano Rolli messosi in luce nella RUDENZ di bergamo- sia direttore da seguire con attenzione, nonostante i panegirici di Isotta lo rendano non ben visto da certa “intellighenzia” in gran parte milanese, lo sostengo in piena concordia con i giudizi qui espressi da tempo.
    Personalmente, buonista qual sono, mi ha impressionato la natura vocale del 33enne messicano Diego Torre, Adorno. Certo da rifinire anche tecnicamente, ma al suo debutto in Italia, a Parma e nel ruolo, ammirevole. E comunque con una voce che si impone per squillo ed armonici al di sopra della media di ciò che ora passa il convento.
    Da rilevare positivamente il “riciclaggio” di un allestimento prezioso, in sintonia con i tempi di crisi. Cosa che fa anche Torino, dove molto lodevolmente quest’anno non si produce nulla di nuovo, ma si propone il vecchio e buono che c’è in casa. Un safari in frigorifero, direbbero i grandi cuochi, da cui spesso si ricavano gustosissimi piatti.
    Sperem…

    • caro vecchio, che le devo dire? In effetti ho letto la recensione puntuta di foletto ed ho pensato anche io a ciò cui fa riferimento. Non mi allargherei come isotta e peraltro mi fa piacere rimarcare la castroneria folettiana sulla prima versione. Cara grazia che cantamo questa, immeginiamoci l’altra. Occorre anche smettere di essere veiitaru, a comiciare da certa critica. Prima emendino le recensione elargite sulla scala e lascino gli artisti fuori dalle loro beghe. Mi scuso per i vari errori che ho lasciato nel testo dell’articolo. A presto

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