Una sposa per lo Zar alla Scala: finezza culturale o provincialismo ambrosiano

Grande-Fratello1La proposta della Sposa per lo zar di Rimsky Korsakov alla Scala, coprodotta con l’altro teatro di Daniel Baremboim la Staatsoper unter der Linden di Berlino, è terminata domenica sera con applausi per la compagnia di canto ed il direttore d’orchestra, sonori fischi per il responsabile dell’allestimento signor Tcherniakov, già regista dell’egualmente riprovata Traviata inaugurale. Errare humanun est perseverare demoniacum si potrebbe dire perché gli ultimi due spettacoli di Tcherniakov proposti alla Scala, oltre ad essere egualmente brutti da vedere, erano inutili ed irrispettose supefetazioni del testo.

Naturalmente ci siamo presi da coloro che ragionano secondo l’eguaglianza Scala è bello la taccia di ignoranti, retrogradi, facinorosi e mestatori dagli affezionati della Scala. Su questa congerie di insulti gratuiti ed irrispettosi, torneremo in chiusa, precisando sin d’ora come altre volte che se a contestare sono i due grisini presenti in sala sono due, ma se dalla diretta radiofonica si sentono solo fischi è evidente che il dissenso è radicato e condiviso. Aggiungo che alla parte musicale e direttoriale è proprio andata bene al di là di ogni più rosea aspettativa, tenuto conto del prodotto offerto.

Cominciamo dalle vecchie glorie. All’ aggettivo vecchie è più conveniente ed idoneo sostituire vergognose, perché altro per la voce claudicante, piccola, sfibrata, stonata di Anna Tomowa-Sintow, che pure vanta, al di là dei meriti artistici, prestigiosa carriera non si deve trovare. In queste condizioni si sta dell’altra parte del palcoscenico e per rispetto del pubblico, che ti ha applaudito e per rispetto di sé stessi. A meno che l’ ex artista non versi in condizioni di applicabilità della cosiddetta legge Bacchelli.

Preciso, per chi non conoscesse il titolo, che la parte di Domma Saburova non è quella dell’Annina della Traviata dove, pure un’altra “vecchia gloria” (Mara Zampieri) ha esibito rovine  vocali perché la domestica di Violetta non canta numeri solisti, non da l’incipit ad ensemble come, invece, accade rispettivamente alla scena terzo del terzo atto con l’arioso “Dunja stava da una parte” ed il sestetto alla scena quarta sempre del terzo atto. Vergogna! Nessuna altra parola per la cantante e per chi  blatera di una grande interpretazione.

Eguale vergogna per Anatoly Kotscherga che, pochi anni or sono lucrò sempre in Scala nel ruolo di inquisitore, una serie di sonori fischi e che ieri sera ha emesso suoni assai più prossimi ai latrati che non al canto umano. Si badi umano non professionale. Sarebbe pretendere troppo. Tralascio di osservare che nel ruolo di padre si richiede dolcezza, morbidezza tono e voce affettuoso come accade non solo per i padri nobili dell’opera italiana, ma per ciascun padre di ciascuna opera a maggior ragione se questi è chiamato ad espandere il proprio amore paterno (scena prima del quarto atto). Cosa fosse il sestetto all’atto terzo con la presenza di due elementi come Kotscherga e la Tomowa non è facile descriverlo.

E, poi, arriviamo ai cantanti che, per età, non sono vecchie glorie, ma le cui prestazioni vocali sono, comunque, insufficienti. Mi è toccato leggere che taluni generi musicali non si cantano con la voce e la tecnica dell’opera, idiozia strumentale proposta con il solo fine di avallare esecuzioni vocali di scadente qualità come da tempo vediamo nell’opera barocca, in Wagner e nella liederistica. Debbo ritenere che lo stesso principio valga per l’opera russa, pur per titoli che, pur provenienti da uno dei riconosciuti fondatori della scuola nazionale russa, richiamano forme e vocalità genericamente italiana come accade per questo Rimsky Korsakov che qui si allontana dal declamato drammatico dei titoli precedenti per recuperare – anche attraverso il ripristino dei pezzi chiusi – una vocalità più incline al lirismo e alla cantabilità, su modelli romantici che richiamano proprio l’opera italiana del periodo e soprattutto quella francese: Massenet in particolare) altrimenti non si potrebbero giustificare i suoni duri, ingolati, fissi e fischianti del sig.Kranzle nel ruolo di Grjaznoj, amoroso e tiranno al tempo medesimo, che si strozza e si stimbra quando al finale dell’opera dovrebbe, uccisa la crudele Liubashova, invocare l’ultimo momento d’amore per Marfa. Mai sentito un suono peggiore e non il solo della serata, ma la punta dell’iceberg di una prestazione indecorosa. Ricordo a precedere la critica che i grisini ascoltino solo il passato che i cantanti di scuola russa hanno, almeno sino agli anni ’60, alternato con ottimi risultati titoli russi con italiani o francesi (ed alcuni di loro anche con wagneriani). Il sig. Kranzle non sarebbe in grado di sopravvivere ad un elementare compare Alfio. Mi domando se ascoltando il canto di un elemento come Kranzle il pubblico abbia compreso che ad un certo punto del duetto con Ljubasha si duole del proprio innamoramento per Marfa

Di alcuni membri della compagine canora, Marina Prudenskaja quale Ljubasha, abbiamo già avuto innumerevoli saggi dell’insufficienza anche in Scala. Limitatamente a parti di soubrette potrebbe raggiungere la sufficienza la signora o signorina Peretyatko. Ma qui la cantante ad onta del topos della scena di delirio (molto simile a quella di Ofelia di Thomas) non ha per nulla la vocalità del soprano lirico leggero, tanto meno della soubrette. Allora prendiamo i due tratti salienti della parte la sortita, una aria in stile grazioso dove Marfa parla del proprio amore per Lykov, ed il finale. Ascoltiamo una voce bianca e puntuta, quella della soubrette appunto, priva di qualunque colore e di qualsivoglia gioco di nuance. Ricordo che la parte di Marfa proprio perché non chiama in causa la zona sopracuta ed è priva di melismi (uno dei segni che siamo alle soglie del’900 e non si tiri in ballo la regina di Skemada personaggio da favola nel senso più ampio del termine) si addice assai meglio ad un soprano lirico o addirittura lirico spinto quale Olga Peretiatko non è. Il delirio d’amore finale non si concilia con la piattezza espressiva e il timbro bianchiccio a meno di non rendere Marfa non l’ingenua innamorata, vittima e contrapposta alla donna vissuta e pronta a tutto come Ljubasha, ma una sorta di minorata, che sgambetta, gioca con i palloncini colorati, vestita come un’orfanella. Ricordo: il padre di Marfa Sobakin viene definito ricco mercante e non “assistito dalla san Vicenzo, domiciliato alle case minime di Largo Primaticcio” ed il promesso marito è un boiaro.

Nonostante il fisico prestante ben fasciato in giacca e pantaloni altro non ha esibito la Prudenskaja, dalla voce spinta in alto (vedi la scena del secondo atto quando si reca presso il medico-alchimista Bomelij o Bomelius) velata ed opaca in basso nell’aria del primo atto dove priva di accompagnamento orchestrale la cantante, nella miglior tradizione del mezzosoprano russo, deve spiegare l’opulenza e la sensualità del registro medio-grave. Confesso che nelle orecchie non avevo, come il solito scaligero ha strillato al mio indirizzo mentre scendevo le scale del loggione Giulia Grisi, ma Irina Archipova e sentendo questa stabile di teatro tedesco qui proposta in prime parti mi sono chiesto (risposta in parte già avuta da precedenti prove) che combinerebbe nel ruolo di altre “gelose, respinte, disposte a tutto” del melodramma italiano come Eboli, Santuzza e Bouillon.Del resto quale Ulrica l’abbiamo apprezzata nell’Ultimo Ballo. Perché questo dovrebbe chiedersi il pubblico che, acriticamente, ha applaudito l’altra sera, supportato dalla certezza della differenza della vocalità italiana da quelle russa propagandata dalla stampa amica. Differenza la cui dimostrazione, confesso, di attendere curioso.

Mediocri i due tenori (Stephan Rugamer come Bomelius e Pavel Cernoch come Likov) oltre tutto non differenziati timbricamente perché la parte del medico alchimista è, come altre dell’opera russa (l’Astrologo del Gallo d’oro), di caratterista o almeno di tenore chiarissimo per rendere la subdola lascivia mentre l’amoroso deluso (Likov) esige voce morbida, legato e dolcezza soprattutto nell’arioso. Anche qui a motivare la critica l’ascolto comparato con un vero tenore lirico ovvero il solito Lemeshev, che fa capire che cosa deve esprimere l’amoroso, che non è il lascivio ed intrigante alchimista (munito di cognome di derivazione italiana, un altro piccolo Rangoni?). Mi domando anche per questo aspetto se il pubblico, che ha applaudito, comprenda le differenze.

E poi veniamo alle note più autenticamente dolenti ovvero direzione d’orchestra e allestimento.

11iht-Tcherniakov11-span-articleLargeSiccome più volte lo abbiamo detto quelli della Grisi non cianciano e non praticano la nostalgia del passato per il gusto di farlo e per il piacere di un sterile passatismo abbiamo, il mese di ottobre scorso in occasione delle rappresentazioni berlinesi, letto -sinistro auspicio- le critiche alla direzione di Daniel Baremboim. Per la nostra poca scienza ci risulta che il maestro argentino scarsi rapporti abbia avuto con la musica russa e nessuno con quel melodramma. Premesso che il  Rimsky-Korsakov, (quest’ultimo famoso soprattutto per la scienza di strumentatore) guarda anche formalmente agli europei, l’ostacolo del debutto in un certo repertorio poteva anche essere superato. Potenzialmente perché per amor di completezza di cronaca le recensioni lucrate da Daniel Baremboim all’epoca delle rappresentazioni berlinesi sono state solo genericamente positive, ma alcune, più acute, hanno parlato di sapore teutonico e scarso esotismo come a dire non ha colto la cifra dell’opera. La capacità direttoriale è messa alla frusta in questo titolo: comune a molte opere russe, abbondano l’elemento folcloristico fiabesco, talora anche onirico, che si estrinseca nei cori, talvolta in assoli d’occasione (quello di Lubiasha, chiamata ad intrattenere gli ospiti dell’amante con una canzone) nelle scene di colore come l’interrotto matrimonio di Marfa e Lykov; dove a scena marcatamente drammatiche (duetto Ljubasha-Grjaznoj) fanno da contraltare altre di inconsistente o appena abbozzata drammaturgia ( l’interrotto matrimonio e la negata felicità coniugale, che chiude il terzo atto); in pochi secondi si passa da tinte fosche e tinte chiare e situazioni elegiache, passando per il folklore. Bastava sentire il suono pesante e lugubre della sinfonia ( sopravvivenza dell’opera italiana, che, però, da trent’anni aveva omesso la sinfonia avanti l’opera), la meccanicità delle scene di colore, il generico rumore e clangore delle situazione più drammatiche, l’assoluta incapacità di concertare, la pesantezza ed il grigiore congiunti quanto al villaggio arriva la gelosa Liubasha per concludere che gli applausi alle singole sono stati un gratuito ed immeritato dono. Insomma, una generica monotonia, (coniugata all’usata sciattezza del concertatore) che può anche passare inosservata a chi non pratichi con frequenza l’opera di Rimsky. Quanto offriamo a confronto è la prova del nostro onesto ascolto di esecuzioni che colgono e differenziano le componenti del titolo.

Sottolineo il grossolano ed offensivo gesto di Baremboim nei confronti del pubblico che contestava di sostare al proscenio con il già riprovato regista come a dimostrare la propria auctoritas e sfidare il pubblico.

Ma andare a sentire la Sposa per lo zar fa “ fino culturale” -mica come vedere quella robaccia di Cavalleria (diretta alla perfezione da Harding e con proposte musicali, che fanno pensare) o una proposta di Francesca da Rimini- alimenta la foja culturaloide di una parte del pubblico milanese. Qui i miei concittadini peccano di provincialismo e del peggiore. Il loro provincialismo è accodarsi a qualche cosa che esterna ed ultronea imposizione definiscono colta, fine, alla moda evento cui non si deve mancare, di cui si deve sapere e parlare e cui plaudire. Il tutto naturalmente senza conoscerlo veramente, senza interrogarsi, senza cercare di porre il prodotto artistico nelle sue giuste coordinate di tempo e di luogo. Insomma fare quelle minimali operazione per essere in grado autonomamente di valutare se l’esecuzione abbia ed in che misura fatto centro. Tutto questo non equivale ad applaudire uno spettacolo, che pedissequamente segua le indicazioni del libretto, scenografie uguali a quelle della prima, ma saper dire se quello che si vede non venga meno al messaggio poetico dell’autore. Bene con l’immagine di una Russia da favola (mica quella delle masse di Boris, ad esempio, che aprono ad altro e che da altro sono inspirate) di inconsistente drammaturgia (il minimo, che consenta al musicista di proporre la propria arte) non possono avere alcun rapporto con uno studio televisivo già visto più volte a partire dal Viaggio di Ronconi trent’anni or sono, un interno squallido e di cattivo gusto per il secondo e terzo atto, e di nuovo lo studio televisivo. Tanto per intenderci la casa era la versione della provincia russa di quella di Violetta ed Alfredo, lo studio televisivo con la serie di pc e sedie da ufficio, ripresa di quello che Michieletto ha servito per il Ballo. Come un tempo le scene di Marchioro furono copiate da Benois oggi la koiné figurativa è la stessa di un’inutile accademia del brutto e dello squallido ambiente scambiato per realismo, oltretutto in un titolo che con il realismo non ha rapporti. Si vuole celebrare la potenza dei media e per farlo capire si usa anche una pagina di posta elettronica o messanger che sia, ciò non solo è brutto, è inutile ed è al di fuori dello spirito dell’opera, che a differenza di un Boris o di una Kovantchina non fa né critica storica né rappresenta la società, racconta una favola con il suo favolistico contorno. Con buona pace del signor Tcherniakov la metafora e l’insegnamento delle favole a partire da Esopo ( o dalla Bibbia come qualcuno, per certo, pensa) è molto più fine e sottile della pagliacciata servita ieri sera. Siamo retrogradi. No caro omonimo, che come alla Tosca cercavi lite, irrispettoso della mia opinione tanto quanto io sono stato rispettoso della tua tacendo, non siamo retrogradi. Pensiamo, ascoltiamo solo con le nostre orecchie. Magari con il diritto di sbagliare, ma certo fuori dal gregge, onesti e informati.

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Recitativo e aria di Lykov, S. Lemeshev, Mosca, 1958

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Aria di Marfa, Natalya Chpiller, dir. Liev Steinberg, Mosca, 1943

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Tzar’s bride, ouverture, Orchestre du Bolchoï de Moscau, dir Liev Steinberg ( 1943 )

51 pensieri su “Una sposa per lo Zar alla Scala: finezza culturale o provincialismo ambrosiano

  1. Azz… critiche più che severe, ma, viste le ultime rappresentazioni scaligere da Aida di novembre 2013 (che ho avuto la sventura di vedere a 12 euro) in poi, mi fido ciecamente.
    Se poi i fischi erano generalizzati un motivo ci deve essere…
    Sto ascoltando gli inserti sonori e sono bellissimi. Come sempre, del resto. Grazie monellacci, meritereste l’ Oscar per ” Una grande bruttezza”. Ah ah…

  2. Ho ascoltato per la prima volta quest’opera che non conoscevo,
    mi è piaciuta sia l esecuzione orchestrale ed in generale le voci
    ..da semplice appassionato ho apprezzato e goduto musicalmente MA non si può che concordare con la Grisi circa le vecchie glorie kotscherga e la Tomowa S. (casa verdi MM Buonarotti ) inascoltabili…imbarazzante;
    Dopo gli sfraceli musicali Trovatore, Lucia forse meno Aida
    almeno l’orchestra ha dato una bella prova…
    Che la regia non prometesse nulla di buono lo si sapeva ed infatti
    l’uscita (forzata?) del regista Tcherniakov è stata accolta da un palese e plateale dissenso , assurdo il comportamento di Barenboim che è rimasto lui solo col regista scatenando il putiferio e precludendo uno scontato plauso per tutti gli altri interpreti.. un comportamento che in 25anni di frequentazione di teatri ho visto per la prima volta…. a Milano si direbbe un gesto da bauscia mr Baremboin .. il sig Tcherniakov non è certo Ronconi!

    • A me la Ceciliona non piace per nulla come cantante, è un po’ lo specchio del nulla spacciato per intellettualità tipica dei nostri giorni, insomma, non troppo dissimile dal pluripremiato film di Sorrentino. Nonostante tutto, non si può non ammirare il suo spirito, il sangue freddo e la calma divertita di cui fa sfoggio. Deve essere una signora amabile con la quale conversare.
      Un abbisso intercorre tra la Diva (nel modo di fare e nel seguito, ma del canto no di certo!) e il maestro che, preda dell’isteria più becera, si pasce soddisfatto della propria meschina irrispettosità verso il pubblico.

      • ciao ninia,
        sarà anche amabile nel conversare come tutti i dulcamara del mondo, ma per quanto riguarda i cantanti ( e qualcuno l’ho conosciuto) vale l’adagio di Ebe Stignani: ” un cantante vale per quello che fa sulla scena , il resto non conta”

        • Sono d’accordo Domenico:) Era una considerazione estemporanea nata dal video sul tubo. Il contrasto tra i 2 è netto.

          Perché non aprite una rubrica sugli ipse dixit dei grandi cantanti e compositori del passato? Credo sia un patrimonio da preservare per le generazioni future quello aneddotico :)

          Noto che neppure a te è piaciuto la Grande Bellezza, o sbaglio? Io lo paragono alle produzioni operistiche odierne: tutta pubblicità, aria snob e intellettualistica (non intellettuale), pretese di originalità e qualità completamente disattese perché dietro in realtà non c’è che un vuoto che provocherebbe un coccolone immediato non solo ad un aristotelico!

          • sul film si può essere genericamente anche d’accordo (anche se le belle immagini non mancano) ma non potete dimenticare l’ottima prova di Servillo , vi immaginate in un ruolo del genere un De Niro, un Al Pacino ? ci avrebbero seppellito di gigionante fino alla nausea!!! Avercene di allestimenti operistici con anche un SOLO cantante in grado di cantare come Servillo recita…..

  3. Mille grazie per aver caricato il film, aiuto indispensabile per avere un’idea, almeno, dell’originale drammaturgia oltre che prezioso per l’ascolto.
    Mi auguro di non doverlo rimpiangere troppo questa sera, in Scala :-(

  4. Posso dire che mi è capitata la stessa cosa di cui si parla alla fine dell’articolo quando incautamente osai dire che trovavo molto più interessante cavalleria con Harding piuttosto che quest’opera mal diretta e mal cantata. Non capisco proprio perchè Harding non piaccia al pubblico italiano mentre qualunque altro direttore straniero venga considerato un genio a prescindere da come dirige. Perchè?

  5. Per RICHARD997
    Riguardo alla’ultima affermazione che hai scritto riguardo all’accoglienza dei direttori d’orchestra stranieri rispetto a quelli italiani, hai perfettamente ragione. Secondo me è solo provincialismo o magari perfino complesso d’inferiorità. Ma questo per esempio avviene anche per i registi, soprattutto nel teatro di prosa, e da molto tempo. Prova a fare l’abbonamento al Piccolo. Si sono viste tante di quelle s****ate in questi anni: spettacoli celebrati come assolutamente innovativi, portati in giro per mezza Europa, straordinari ecc. ecc. che invece, secondo me erano delle c***ate sublimi, stupide.con soluzioni di una banalità che facevano ridere e che invece venivano considerate geniali. Per citarne solo qualcuno un certo NeKrossius che per un po’ di anni ha spopolato, considerato il nuovo profeta.Purtroppo gli affidarono la regia anche di qualche spettacolo italiano (Cechov naturalmente…) i cui esiti furono ancora peggiori. Eppure tutti a sbracciarsi…anche gli addetti al lavoro italiani (provincialismo appunto).Una pena! Ora per fortuna è scomparso dalle patrie scene ed è tornato in Lituania. Il guaio però è che il danno nel frattempo era stato fatto e ormai anche gli italiani si sono messi a “famolo strano”…e la critica giù a scappellarsi. Tutto questo si è riverberato anche sul teatro d’opera coi risultati che tutti possiamo vedere come, ad esempio, l’orrenda Traviata della Scala.
    Tempi brutti ma questo è quello che ci tocca…e “La grande bellezza” è uno di quei frutti presuntuosi e noiosamente insopportabili, secondo me, di questi tempi. Anche se a dire il vero q
    Saluti cari a tutti.

    • Si, ma Harding è straniero…e poi che c’entra la nazionalità? Peggio del provincialismo esterofilo c’è lo sciovinismo nazionalista. Per quel che riguarda i direttori d’orchestra se devo guardare in patria e ritrovarmi i vari Rustioni, Luisotti, Morandi, Pidò, Mariotti, Luisi, Veronesi e pure Santi Ceccato (che qualcuno celebra come un Celibidache redivivo)…etc., mi prendo pure l’accusa di provinciale, ma all’estero guardo volentieri. Non per fare i soliti nomi dei grandi, ma in linea generale trovo maggior preparazione e serietà in direttori d’orchestra non italiani. Intendiamoci: grande colpa è delle nostre orchestre, imparagonabili con quelle straniere (francamente tolta Santa Cecilia e la Verdi non trovo vi sia nessuna compagine di livello europeo). Lo stesso Harding ottiene risultati differenti quando dirige la sua orchestra svedese o il carrozzone scaligero.

    • Non concordo affatto con quanto scrivi sul Piccolo – teatro che frequento molto spesso – dove ho sempre visto ottimi spettacoli. Certo qualche schifezza capita pure li: ricordo un Giardino dei ciliegi demenziale (il regista era italianissimo). Al contrario devo allo “straniero” Stein una delle migliori esperienze teatrali della mia vita (I Demoni in uno spettacolo di 12 ore)… Se però stiamo tornando ad auspicare l’autarchia artistica e la difesa della razza (e della presunta superiorità italica) allora siamo davvero messi male.. Ben oltre il terzo mondo culturale che – piaccia o meno – è la nostra esatta descrizione. Il fondo l’abbiamo già scavato in termini di bassa qualità…resta da attendere che qualcuno copra la fossa.

  6. ..non so cosa sia capitato al PC ma il messaggio è partito senza che io lo volessi e mentre stavo terminando una frase…Scrivevo, a proposito di “la grande bellezza” che, a mio parere, questo Sorrentino il cinema si vede che lo sa fare molto bene e forse è per questo che è stato premiato. E’ la sceneggiatura secondo me che latita…parlatemi un po’ del personaggio della Ferilli!!!Chi è? Cosa mi rapprersenta?…Ma credo che si travalichi il senso di questo blog che non è dedicato al Cinema, quindi mi taccio.
    Cordiali saluti a tutti, anche alla “divina”Grisi che tanto mi “odia” e mi tratta male. Antonio

    • No, non ti odio. Io non odio nessuno e poi….e’ cosi impegnativo odiare..uffff…..ci vuol troppa energia! Vedo dai tuoi ‘poemetti sulla lirica’ che sei gia un altro grisidipendente. In effetti, un altro sito come questo dove lo trovi? Uno come albertoemme, ad esempio, dove lo incontri?…solo qui! A presto

  7. Lo spettacolo a definirlo irritante gli si fa un complimento.
    Cernobyl ci azzecca ancor meno che con la TRAVIATA, dove pur senza aver capito una mazza dell’opera, una logica -seppur perversa- riusciva a seguirla.
    Un Michieletto in insalata russa? No grazie, ci basta il primo.

  8. Di questo antiestetico spettacolo non voglio
    e neppure sono in grado di parlare, ma l’assoluta
    vergogna vocale ascoltata non si puo’ tacere.
    Io ho visto sia la generale che la prima, posso
    tranquillamente testimoniare che chi asserisce
    che le persone dissenzienti fossero un paio,
    dice delle bugie. Chi ha visto iersera la seconda recita,
    mi riferisce in ogni caso di discreto successo
    per tutti alla fine dell’opera, fine dell’opera raggiunto
    senza che il pubblico abbia mai applaudito
    un singolo brano. Qualche piccolo dissenso
    per il Direttore. Grande applauso per Kotcherga!

    • Ero alla seconda: alla fine della prima parte qualche timido fischio piovuto dalla gallerie io l’ho interpretato come una blanda contestazione generale, non specificamente a Barenboim, ma forse mi sbaglio.

  9. Per Duprez
    Forse sono stato frainteso. Io non penso proprio allo “sciovinismo nazionalista”, ne “all’autarchia artistica”. Però rimango convinto che nei confronti di certi registi stranieri ci sia un po’ di mitologia. Per esempio Peter Stein (che tu citi) e che sicuramente è un ottimo artista (io purtroppo non ho visto i Demoni perchè quando mi sono mosso ormai era tutto esaurito), ma alcune volte non è che abbia fatto quei grandi spettacoli. Ad esempio anni fa al Piccolo ha messo in scena un “Pentesilea” che non era niente di speciale, uno spettacolo comunissimo, eppure tutti a gridare al miracolo. Il Simone Boccanegra che ha presentato a Firenze (diretto da Abbado) secondo me era anche brutto. Potrei citare tanti altri esempi di tanti altri registi stranieri (il caso di Nekrossius che citavo nel mio post precedente, magari invece a te è piaciuto, non so…) che a volte vengono sovradimensionati. Insomma quello che voglio dire è che, secondo me, c’è una certa mitologia su alcuni registi stranieri e questo è provincialismo. Certo, per noi i tempi degli Strelher sono finiti da un pezzo. Però, ripeto, non penso proprio ad uno sciovinismo nazionalistico.
    Saluti, soprattutto alla mia “divina” Grisi che mi è tanto simpatica

    • non sono molto d accordo sulle cose che dici sul canto, ma questo post sulla mitologia dei registi stranieri lo sottoscrivo. Veroooooooooo. E poi non è forse ora di smettere di confondere regia d èpera e regia di prosa? Mica tutti sanno fare entrambe le cose, anzi…

      • Ecco, questo è da sottolineare mille volte: il cinema, l’opera e il teatro di prosa sono arti ben diverse che necessitano di conoscenze specifiche. Non è detto che un eccellente regista teatrale (come ritengo essere Nekrosius) sia anche un eccellente regista d’opera. E vale anche il contrario. Non parliamo poi del cinema! Gli esempi si sprecano. Non tutti sono come Strehler!
        Ps: a riprova di ciò segnalo che Michieletto – che pure non apprezzo come regista d’opera – ha firmato uno straordinario Ispettore generale di Gogol in scena al Piccolo di Milano

    • Io credo che certe mitizzazioni vengano da ignoranza e da esaltazioni a mezzo stampa (sempre disposta a creare eventi a tutti i costi). Peccato non hai visto quei Demoni che per coinvolgimento emotivo ed intellettuale posso paragonare solo al Faust di Strehler al Piccolo Studio.

  10. Buongiorno a tutti,
    seguo da qualche tempo il Corriere, traendone con piacere spunti critici e momenti di riflessione rispetto agli spettacoli che (non sempre con sollievo) vedo proposti sui palcoscenici dei Teatri d’Opera (in particolare, per competenza territoriale, la “Scala”).
    Premetto che sono d’accordo con la disamina di Donzelli sulla compagnia di canto e – soprattutto – sulla (in)opportunità della regia di Tcherniakov.
    Ciò che mi lascia un po’ perplesso, invece, è l’ascrivere il successo di quest’opera alla pretesa “spocchia” del pubblico milanese, allettato da un “avvenimento culturale” cui non si può mancare. Sull’accusa di “spocchia”, che in linea generale non contesto affatto, vorrei tentare di spendere qualche parola.
    Da anni ci si lamenta del fatto che i teatri d’opera d’Italia propongono cartelloni sempre più prevedibili e scontati. Non vedo perché non si possa, una volta tanto, salutare con favore – tra un Verdi e l’altro – un titolo come “Una sposa per lo Zar” (lo stesso valga per i “Troiani”).
    Sulla qualità musicale e scenica delle rappresentazioni proposte, poi, si può e si deve senz’altro discutere.
    Quel che non mi pare giusto è accusare di “foja culturaloide” tutto un pubblico – magari annoiato dai “soliti titoli” – per il solo fatto di essere affluito in massa a uno spettacolo che, riuscito o meno che sia, è comunque meritorio perché spezza una routine (questa sì, provinciale) di (pochi) titoli scontati e spesso mal proposti (con tutto il rispetto per la bellissima resa della “Cavalleria” di Harding).

    Grazie e buona giornata

  11. cerco di spiegarmi dopo averti detto benvenuto. Ben vengano titoli poco noti perché tale è questo nel repertorio russo. E li vorrei anche per il repertorio francese ( mignon lakmé navarraise therese etoile du nord ) ed italiano. Però il pubblico che non sente una pessima compagnia di canto, una direzione superficiale e ” tirata via” una concertazione inesistente ed infine un allestimento che non dice nulla che coltiva ed espone il brutto fine a sè stesso senza criticare. Perché non capisce allora è a mio avviso quello descritto nel titolo. Perché chi applaudiva lo faceva senza sapere senza conoscere. Ancora benvenuto dd

    • Francamente neppure io concordo con l’accusa di “eccesso culturaloide” nel proporre un autore popolare (magari non nel nostro terzo mondo musicale) come Rimskij-Korsakov: se si scorre la cronologia della Scala, peraltro, si vede che vanta una buona frequenza, senza contare che “La sposa dello zar” è uno dei titoli più “facili” del compositore russo. Ma comunque si tratta di un lavoro importante nell’ambito del catalogo rimskijano. Lo stesso si deve dire dei Troyens (che è uno dei capolavori dell’800 musicale e che la Scala fa benissimo a riproporre affidandolo finalmente a un grande direttore e ad un bellissimo allestimento). Anche qui si tratta di un’opera tra le maggiori del compositore e non può essere definito “titolo poco noto” (neppure in Italia o alla Scala, che non brilla certo per lungimiranza, ma che – sempre scorrendone la cronologia – l’ha già proposto diverse volte). Quanto ai titoli cui fa cenno Domenico, mi sembra siano imparagonabili ai due suddetti: a parte che le scelte corrispondono sempre a gusti generali e se oggi opere come Lakmé, Mignon, Therese o Navarraise (che personalmente ritengo orribili, ma è un gusto personale) non vengono più frequentate, forse, non interessano più di tanto. Tolti i primi due, gli altri titoli sono men che minori (anche nei rispettivi cataloghi dei compositori). In particolare L’etoile du nord, che è opera sparita dopo l’800 e assai poco riuscita (rimase nei programmi per un paio di pezzi di bolsa e svolazzante coloratura ad uso delle dive del tempo). E’ tutt’al più un’opera da festival. Sarebbe come lamentarsi perché non viene mai rappresentata l’Oresteia di Taneyev o I Goti di Gobatti. Che poi il pubblico milanese sia particolarmente ignorante questo è un dato di fatto incontestabile: si tratta dello stesso pubblico che ha preso a fischi Mitropoulos col Wozzeck (probabilmente era convinto di ascoltare do di petto e trilli) o Kleiber e Karajan che “osavano” fare Verdi in Italia (pensa te…). Lo stesso pubblico che rumoreggiava infastidito durante l’ultimo Wozzeck (prendendosela con Berg, come se fosse lì presente) o che riteneva uno sfizio culturaloide il Rosenkavalier. E non ti dico i commenti durante Alcina (eppure non è difficile capire la struttura dell’aria tripartita) o la pronuncia alla francese di Turandot (che diviene immancabilmente “Turandò”) o LA soprano. Senza contare la maleducazione diffusa, il costante parlottare, il raccontare al vicino la trama dell’opera o l’annuncio dei “pezzi” più notevoli (immancabilmente definiti “romanze”) etc.. etc.. Impagabili, poi, sono i racconti da foyer dove aggirandosi tra i saloni si riescono a captare i discorsi più esilaranti. Non mi stupisco dunque che il pubblico non conosca Rimskij-Korsakov, perché è lo stesso che chiede al proprio interlocutore se l’ultimo Andrea Chenier ascoltato era in lingua originale o in versione italiana (dialogo da me ascoltato qualche tempo fa)…

      • Sì, guarda… io non sono musicalmente colto, ma è meglio che taccia sul pubblico milanese. Che è meglio, come dice il puffo Quattrocchi.
        Quanto agli svarioni, ogni tanto quando ho gli incubi sogno quello stolto che in occasione della Tranvata, intervistato la sera della prima, alla domanda: “ma scondo lei, Verdi può avere ispirato Shakespeare con la Traviata?” Risposta: “eh, non ci avevo mai pensato… effettivamente, sì, potrebbe essere una intepretazione interessante!”. Concedendosi pure il piglio dell’intellettuale… Io gli avrei controrisposto perché quella sera non è andato al cinema a vedre l’ultimo dei fratelli Vanzina. Pare che facesse pure ridere…

  12. Vorrei precisare che non sono Scaligero, perché abito molto lontano da Milano e alla Scala sarò stato non più di tre o quattro volte. Sono un grande amante della musica di Ravel e di quella sinfonica in generale. Meno del teatro d’opera; perciò leggo con attenzione le vostre critiche, da cui imparo molto. Siccome m’interesso anche di cinema, non mi è piaciuto che nelle vostre recensioni sia stato trattato con la stessa severità il film “La grande bellezza”. Non è un capolavoro, ma è certo il frutto di uno dei registi italiani più interessanti di oggi. Prima di criticare il film di Sorrentino, consiglierei di vedere “Gravity”, premio Oscar 2014 alla regia. Concludo con un consiglio: se si fa un dibattito pubblico, si accettano anche innocenti battute di lettori “inesperti”. Grazie per il banchiere: vorrei esserlo anch’io come Inigo!!

    • Adoro “Gravity”, visto due volte, tra i migliori e più intensi e stupefacenti film dell’anno e, magari tagliuzzato qui e la, anche “La grande bellezza”.
      Certo che si accettano le battutine, ma si accettano anche le risposte ad esse 😉 Funziona così il dibattito pubblico

    • Caro Gomez, mica si capiva. Vedi di essere meno criptico in futuro. Benvenuto in ogni modo, anche se ti è piaciuta la grande…. paraculata del furbo sorrentino. Non brutto ma troppo…..da altri.

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