Cecilia Bartoli: St. Petersburg

  BARTOLOVA3Guardando la copertina, una copertina, bisogna convenire, più sobria, meglio photoshoppata, senza la nostra eroina nelle vesti bizzarre, grottesche, improbabili di Anna Magnani, o Anita Ekberg, o statue castrate in rovina, o padri Amorth/Merrin/zio Fester in vena di esorcismi, dicevo, ho sperato che Cecilia Bartoli stesse dando l’annuncio del suo prossimo esilio in Siberia oppure, ipotesi terrificante, si apprestasse ad interpretare Anna Karerina o il Dottor Zivago: invece la nostra è andata in missione  nella biblioteca e negli archivi del Mariinsky a San Pietroburgo per scovare i tesori nascosti e dimenticati di quei compositori come Francesco Araia, Domenico Cimarosa, Hermann Friedrich Raupach, Vincenzo Manfredini, Domenico dall’Oglio, Luigi Madonis, che resero vivace e illuminata la vita culturale, musicale e operistica russa durante il regno di Anna Ivanovna o  Iovannovna, Elisaveta Petrovna e Caterina II la Grande, ovvero negli anni compresi tra il 1730 ed il 1796.

Plausi da tutto il mondo per la riesumazione di queste perle sconosciute e incise per la prima volta; la Fondazione Timchenko ha messo addirittura a disposizione la Sala degli specchi della reggia di Versailles per la presentazione del CD; emozioni fortissime e grandissime dalla Decca nella rappresentanza del suo amministratore delegato Paul Moseley e Max Hole presidente dell’UMG, mentre tutto il mondo melomane attende con trepidazione il tour promozionale in ben 12 città europee con la nostra ineffabile Cecilia vestita come una novella Regina delle nevi.

Il napoletano Francesco Araia, nato all’inizio del XVIII sec., imparò l’arte della composizione prima in famiglia e poi grazie alle cuarayare di Leonardo Vinci e Leonardo Leo dai quali mutuò l’uso del pizzicato, della melodia italiana, dell’utilizzo del canto popolare. Le sue opere e le prime composizioni riuscirono ad avere un certo giro soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, ma il successo più franco lo ottenne una volta inviato, assieme ad una compagnia, alla corte di San Pietroburgo nel 1736, dove impressionò a tal punto la zarina Anna Ivanovna che venne nominato seduta stante Maestro di Cappella e trattenuto fino al 1759 (non contando i viaggi di ritorno in patria). A lui si deve l’allestimento della prima opera italiana in Russia, “La forza dell’amore e dell’odio” e la diffusione dell’opera seria italiana per mezzo delle numerose composizioni successive che ebbero esito trionfale sia nella corte sia a Mosca, e fu sempre lui che nel 1755 mise in scena un’opera totalmente russa, dal libretto di Alexander Sumarokov, ai cantanti, fino allo stile ormai padroneggiato con destrezza, “Cefalo e Procri”. Successivamente, mentre l’opera seria perdeva interesse a discapito della sempre più richiesta e diffusa opera buffa portata in Russia dall’impresario Locatelli, Araia preferì diventare un compositore di musica d’occasione apprezzatissima dallo Zar Pietro III che lo volle di nuovo a corte fino al 1762 anno in cui si verificò l’attentato commissionato dalla Zarina Caterina. Araia preferì tornare in Italia, a Bologna, dove continuò a comporre oratori e ad insegnare nominando suo successore a San Pietroburgo il Manfredini.
In realtà già incisa dal soprano Lubov Sharomova con l’ensamble “The soloists of Catherine the Great”, l’aria “Vado a morir” tratta, appunto, da “Il potere dell’odio e dell’amore”, privilegia un accompagnamento fondato su un arpeggio ripetuto degli archi, variato solo nel verso successivo e nella ripresa e sostenuto dall’uso del basso continuo: il tono è tipico dell’aria patetica, nella quale la tragedia, il pianto si mutano in un languore nobile, pudico e funereo, mentre la musica dovrebbe assumere una morbidezza setosa e solenne.
Minerva, condannata a morte dal proprio padre, accetta la giustezza della pena con lucida rassegnazione e si rivolge al genitore ricordando il loro leg0 Tame di sangue e incolpando la sorte.
Gli archi del complesso dei “Barocchisti” suonano striduli e calanti di intonazione, con quel raccapricciante effetto lamette sulla lavagna che feriscono le orecchie e profluvio di attacchi fissi e miagolanti, oltre ad un accento di monotonia disarmante che da Diego Fasolis, altrove interessante interprete, non mi sarei aspettata.
Gli anni passano anche per la voce della Bartoli, che già in “Mission” era oltre il problematico: in questo caso dovendo la voce orbitare al centro, con brevi sconfinamenti sul passaggio superiore e nel registro grave, Cecilia nostra raccoglie il suono cercando di controllare l’ingolatura, ma troppa cautela schiaccia il suono su ogni nota, lo rende duro in alto, sbiancato al centro, vuoto e pieno d’aria in basso; pochi i momenti di coloratura se si escludono i trilli, anche essi ruvidi, e qualche vocalizzo nelle riprese. L’accento è quello consueto della Bartoli, ovvero lamentoso, manierato, monotono risaputo come l’accompagnamento. Buone la dizione e la musicalità.
L’aria pastorale “Pastore a notte ombrosa” tratta dal “Seleuco” ha la tipica struttura in cui gli strumenti si rincorrono tra loro imitando i richiami della natura soprattutto grazie agli strumenti a fiato, mentre gli archi dipingono un paesaggio arcadico, almeno nelle intenzioni, perché Fasolis indugia troppo in preziosismi che appesantiscono un’aria già lunghissima e leggermente monotona, e la Bartoli sfodera tutto il campionario di ingolature, colorature aspirate, note pietrose, accento generico, emissione appena accennata per alleggerire ancora quello che in natura è già una piuma semitrasparente.

Il tedesco Hermann Friedrich Raupach nato a Stralsund nel 1728 iniziò anche egli prima in famiglia grazie agli insegnamenti del padre e subito iniziò una brillante carriera di clavicembalista e compositore già a San Pietroburgo prima come assistente di Manfredini, poi come Maestro di Cappella a sua volta.Mozart_1766-Raupach-530x695
Più prolifico come compositore di balletti, sonate per strumenti, Raupach non mancò di sperimentare il genere operistico in poche, ma significative occasioni: “Alceste” o meglio “Altsesta” (1758) su libretto russo di Sumarokov e interpretata dal divo Dmitry Burtniasky gli diede fama e consacrazione presso la corte; la successiva “Siroe, Re di Persia” si rifece al libretto omonimo di Metastasio e venne per questo cantata in italiano. Per il singspiel di straordinario successo ed in russo “I buoni soldati” si dovette aspettare il 1778, non prima che Raupach lasciasse la Russia dal 1762 al 1768 pellegrinando tra Amburgo e Parigi, dove fece rappresentare le sue opere, e riuscì a conoscere e suonare assieme al giovane Mozart che, ammirato, ricopiò alcune sue sonate per riutilizzarle successivamente con un nuovo arrangiamento.
Tornato in Russia, oltre a comporre al fianco di Tommaso Traetta, nuovo Maestro di Cappella, si occupò di insegnamento all’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo fino alla morte (1788).
Dall’ “Altsesta” vengono scelte due arie ed una marcia (di notevole fattura, guastata dai corni privi di intonazione): la prima, cantata da Ercole, “Cane spalanca le fauci”; la seconda cantata da Alceste, “Vado verso la morte e non ho paura”.
Per esprimere cosa si prova ascoltando la prima aria vi lascerei volentieri leggere le parole del libretto dell’illuminante e preveggente Sumarokov:

Cane, spalanca le fauci e abbaiando
immagina la tua sventura:
ringhia, ringhia, feroce inferno in fiamme,
senza terrore vengo verso di te.

Ciò che inorridisce i mortali,
non fa che accrescere la mia gloria.
Andrò verso i luoghi senza sole,
dove irromperò portando lo scompiglio.

Il russo in bocca alla Bartoli ha il potere di trasformarsi in un’orgia onomatopeica che le parole di Sumarokov riassumono nella maniera più efficace umanamente possibile. Capisco il furore filologico, ma forse per un eccesso di immedesimazione di sicura scuola russa (Metodo Stanislavskij?), la Bartoli infonde in quest’aria dal virtuosismo fittissimo e semplicemente folle, delirante, tutto il suo campionario di guaiti, ringhi, decomposizioni vocali e linguistiche, colorature veloci a frullino o a trapano, registri gravi uterini e scomposti, gola pressata fino all’apnea, timbro diviso in tre tronconi insaldabili e tutti pieni d’aria negli innumerevoli, repentini e pericolosi salti nel registro acuto o grave, il tutto accompagnato ad una velocità devastante dallo stesso Fasolis, che con quest’aria forse intendeva candidarsi alla direzione della celeberrima e trionfalistica sigla della UEFA Champions League: peccato che abbia a disposizione archi di infima aridità, ottoni da fare invidia a quelli scaligeri o fiorentini tanto sono anch’essi onomatopeici ed un piglio simpatico certo, ma nell’insieme apocalittico.
7680Ed ha ragione Sumarokov quando scrive che “Ciò che inorridisce i mortali, non fa che accrescere la mia gloria… dove irromperò portando lo scompiglio”, perché è solo grazie a questo crogiuolo trash-kitsch dal dubbio gusto e dal dubbio stile, amatissimo dai fans deliranti, che può brillare l’inspiegabilmente luminosa la stella farlocca della Bartoli.
L’aria di Alceste, è al contrario, un momento estatico ricco di intimismo, oltre ad essere la traccia più lunga dell’album.
Colpisce prima di tutto il cesello musicale di Raupach che, forse ancora più di Araia, utilizza l’eleganza formale di scuola napoletana a fini drammatici, espressivi psicologici, senza perdersi nella monotonia cromatica così che la raffigurazione pietosa della regina che si sacrifica per il proprio consorte, grazie al compositore, si innerva di ambiguità quando la donna chiede rosa dal dubbio e dall’isteria del sacrificio “Guarda quanto ti ho amato; ma tu, mi hai ricambiato degnamente?”. Anche la scrittura quasi spianata che inizialmente esplora le possibilità del registro centrale e del registro, nella seconda parte sposta il baricentro della tessitura verso l’alto, regalandoci dolcezze sia in acuto, da emettere a fior di labbro, sia nella delicatissima coloratura che copre tutta l’estensione.
Peccato che da una parte Fasolis espressivamente onori tale scrittura, dall’altra, purtroppo, si trova a combattere con archi vetrosi che vanificano la lancinante introspezione del canto.
Meglio rispetto all’approccio delle altre due arie anche la Bartoli almeno per quanto riguarda il centro e l’accento, senz’altro più mosso; peccato che in alto ormai la voce sia ridotta ad uno spillo bianco, sottile, spoggiato, da prendere da sotto con suono fisso, che la parca coloratura sia completamente arruffata e che in basso sia solo uno sbuffo di aria bloccata in gola, come già dimostrato altrove.
La terza aria affrontata di questo interessantissimo compositore è “O placido il mare” intonata da Laodice su versi metastasiani e tratta dal “Siroe, re di Persia: brano “meteorologico” nel quale il testo che descrive le sponde del mare ed il turbinio del vento, traduce le tempeste dell’animo e della virtù mentre la musica vorticosa con gli archi ed il continuo messi in primissimo piano si scatenano in ondate sonore nei quali l’alternanza dei piani e dei fortissimi devono sostenere un canto tutto giocato sull’alternanza di trilli, appoggiature, acciaccature, volatine, vocalizzi, colorature di forza: a parte gli ottoni obbrobriosi, Fasolis riesce a dosare con costrutto sia la tempistica indiavolata costringendo gli archi ad un suono ben più morbido e lontano dalle secchezze e dagli sferragliamenti precedenti; la Bartoli si impegna tantissimo soprattutto nel campo della dizione, della musicalità e dei fiati, interessante ad esempio la messa di voce in pianissimo sulle parole “Placido il mare” che introducono la ripresa variata con gusto; ma l’accento è sempre quello un po’ col sorriso sulle labbra, un po’ stizzosetto, le volatine ed i trilli sono legnosi e letteralmente singhiozzanti, la coloratura rapida è prossima al suono di un orologio a cucù, mentre l’emissione, fin troppo ricca di vibrazioni, finisce oltre che nella gola anche nel naso.

Catherine_II_by_I.Argunov_(1762,_Russian_museum)Presunto allievo di Giuseppe Tartini, o di, addirittura, Vivaldi, il padovano Domenico dall’Oglio (1700-1764) fu, oltre che violinista presso la Basilica di Sant’Antonio, esperto e appassionato costruttore di strumenti musicali, soprattutto violini, che utilizzava nei suoi concerti. La sua fama di virtuoso, tuttavia, lo portò alla corte pietroburghese della zarina Anna, dove per ben 29 anni fu di casa, assieme al fratello Giuseppe, all’attrice goldoniana Rosa Pontremoli, futura compagna e sposa del compositore ed al virtuoso, compositore e violinista veneziano, Luigi Madonis.
Fu un eccellente organizzatore di feste di corte e compositore prolifico di balletti, concerti, sonate, sinfonie, ma diede un contributo operistico inserendo un recitativo ed un’aria all’opera di Galuppi “Didone abbandonata”, componendo un’aria accompagnata al pianoforte e aggiungendo alla perduta “Clemenza di Tito” di Hasse un prologo, con arie sostitutive dello stesso Madonis, che per ironia è giunto ai giorni nostri, intitolato “La Russia afflitta e riconsolata”.
Dal prologo de “La clemenza di Tito” ascoltiamo l’aria di Rutenia “De’ miei figli e del mio core”: suggestivo il duetto tra il flauto e la voce, mentre sullo sfondo si sentono gli interventi degli archi ed il liquido pizzicare dell’arpa; aria patetica della più bell’acqua dalla scrittura spianata e tutta centralizzante, decorata da alcuni parchi, ma delicatissimi vocalizzi, e per la prima volta la Bartoli sembra a suo agio in questa scrittura tutta legata che le consente un canto ed un’emissione più rilassata, più morbida, libera e per nulla schiacciata; anche il fraseggio, più serio, rassegnato e più disinvolto risulta meno manierato e impacciato.

ermitageVincenzo Manfredini (1737-1799) deve la sua formazione a Giacomo Antonio Perti e Gian Andrea Fioroni.
Con il fratello e la compagnia del Locatelli arrivò alla corte dello Zar Pietro III che lo nominò Maestro di Cappella e compositore di opere, musiche d’occasione, balletti, musica sacra, cantate e sonate.
La sua fama fu però ebbe un veloce tracollo con la ventata di novità stilistiche introdotte nella corte russa dal Galuppi, così Manfredini fu relegato alla composizione di intermezzi comici e, grazie alla garanzia di una rendita preferì tornare a Bologna (dove ebbe modo di approfondire la conoscenza con Mozart), continuare a comporre, ma soprattutto legare il suo nome ai numerosi e appassionati scritti teorici sulla musica moderna, l’armonia e lo stile.
Tornò in Russia richiamato dallo Zar Paolo I e qui trovò la morte un’anno dopo.
“Fra’ lacci tuoi mi credi” intonata da Desiderio nel “Carlo Magno”, sarebbe anche un’aria molto interessante per la sua particolare struttura che coniuga l’espressione malinconica della prima parte, accompagnatrice di un canto tutto legato, con l’alternanza di momenti di furore, dove emerge il canto fiorito e di forza, in cui sia il colore orchestrale che quello espressivo devono mutare con le esigenze drammatiche: in questo caso, se l’orchestra sferraglia impietosamente, la Bartoli si trova in affanno continuo e le tocca aspirare e schiacciare i suoni e perdere l’intonazione degli acuti.
La seconda aria tratta dalla medesima opera ed affidata all’omonimo protagonista è un brano amoroso che concentra la voce nel registro centrale, e la Bartoli duetta con il flauto, contenendo i danni della prima ottava e degli acuti, raccogliendo meglio il suono e legando con un certo gusto, ma accennando appena le fiorettature e accentuando l’atmosfera leziosa, elegantemente noiosa e zuccherina.

220px-Domenico-cimarosa-1Poche sono i documenti e le notizie del periodo russo (1787-1791) di Domenico Cimarosa, Maestro indiscusso dello stile e della Scuola Napoletana: l’Imperatrice Caterina II fu la sua più augusta sostenitrice dopo essere stata abbagliata dalla musica dell’opera “Giannina e Bernardone” e dallo stesso canto del Cimarosa che produssero un certo esito nella corte e lo condussero alla nomina di Maestro di Cappella.
Per il Teatro de l’Ermitage diede lustro alla sua arte con la composizione di una serie di opere, di cantate, di Messe e cori, ma nel 1791 a causa delle guerre contro la Polonia ed ai tagli al bilancio, Cimarosa fu costretto a far ritorno in Italia.
I gargarismi cronici e rasposi che affliggono l’aria con clarinetto “Agitata in tante pene” tratta da “La vergine del sole” uniti a dizione limacciosa peggio di una palude, a gutturalità compulsive e sfiancanti jodel che sostituiscono  di trilli e colorature, mi impediscono di avventurarmi nella descrizione di questo brano: peggio ancora l’accompagnamento di Fasolis a metà tra una glassarmonica ad alto tasso alcolico ed un organetto sfibrato.
Tralascerò anche di commentare il coro finale, autocelebrazione dal gusto infimo travestito da autoironia.

Non è questione di “nota teatrale” o meno, come si usa dire oggi, ovvero giustificare il “can-to” delle “star” odierne, svuotato sul lato tecnico per sostenere quel minimo sindacale di emissione e di vivo e vero accento, per colmarlo invece di “suoni personali” dalla dubbia componente espressiva, visti gli esisti disastrosi degli ultimi recital e delle recite teatrali. La questione è diversa: un recital come questo, interessantissimo dal punto di vista della riscoperta e della novità, molto più stimolante degli orrori perpetrati in “Mission” o “Sacrificium” ad esempio, si deve accontentare dei vuoti e capziosi ghiribizzi accennati, ingolati, aspirati e supportati da una base fragile e discutibile di una manierata, bambola meccanica che conosce due espressioni totalmente antiteatrali, lontani dalla semplicità autentica e dalla verità artistica che ogni appassionato d’opera cerca nella musica e nel canto.
Ma il pubblico e la critica forse cercano questo per bisogno fisico di idoli da incensare e assolvere, di mode da cavalcare, e per mandare avanti un carrozzone che nel suo percorso acciottolato perde pezzi sempre più pesanti e si carica di vuoto culturale acritico, che fantasiosamente si illude di vedere e ascoltare ciò che non esiste più scambiandolo per evoluzione dei tempi e del gusto moderno. E ci credono solo loro.
Ed intanto il pensiero, in questi casi e dopo tali ascolti, gioca con la fantaopera ed a quali prodigi avrebbero potuto compiere e cosa avrebbero potuto insegnarci i davvero grandi mezzosoprani russi come Valentina Levko, Sophia Preobrazhenskaja, Irina Arkhipova, Maria Maksakova, Vera Davydova, Zara Dolukhanova, Nadezhda Obukhova, affrontando tale repertorio e sfruttandone le infinite possibilità espressive e vocali…

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12 pensieri su “Cecilia Bartoli: St. Petersburg

  1. Qui di Ova-iola c’è solo l’emissione della signora. Pensare che in tempi passati osava cantava Rosina in teatro (forse la sua voce era più udibile di quanto lo sia oggi?). Ho l’impressione che, oltre al naturale invecchiamento, si sia verificato un processo di autodistruzione tecnica progressiva in favore di quell’espressività caricaturale tipica dei gallinacei che i suoi fans adorano così tanto.

    • Billy caro,
      la Bartolova – assieme alla sua omologa Dessay – ha trasmigrato ormai del tutto in un universo galliforme che non contempla l’arte dell’umano canto.
      Nessuna meraviglia, quindi, se – nella stagione degli accoppiamenti discografici – i suoi richiami causino interminabili codazzi di polli di ogni professione, giudici compresi.
      Un saluto affettuoso.

  2. Consiglio, a proposito di coccodè, questo ascolto
    https://www.youtube.com/watch?v=vdQU-N8b3HA
    (Kimchilia Bartoli – “Agitata da due venti” [Cecilia Bartoli parody])
    tutto sommato la parodia è meglio dell’originale e persin più vera dell’originale stesso, almeno nella prima il coccococcoccodèèèè è voluto scientamente….
    Ma quanto a ragazze coccodè alla fine il meglio – ancora dopo tanti anni – è sempre questo
    https://www.youtube.com/watch?v=X9D4tMx3Nn8
    Chissà se un giorno o l’altro qualche regista estroso, ispirato dal suo canto, vestirà la Cecilia in questo modo?

  3. Un dì felice eterea me la trovai d’innante accompagnata da Myung-Whun Chung…era il 25.10.92. La ascoltai e volli fermare il suo canto
    su un nastro. che però mi bastò. Null’altro chiederei oggi che avventurarmi nel riascoltarla.Prosit.

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