Giovanna d’Arco di Verdi alla Scala. L’anteprima per giovani

Il 4 dicembre, dopo aver superato la prova del fuoco della polizia milanese all’ingresso del Teatro alla Scala, i Tamini e le Pamine under 30 sono passati dal mondo troppo reale della minaccia terrorista ad un altro in cui i 2800 giovani sembrano rappresentare un futuro in cui pare ci sia ancora un posto per l’opera. Prima che si alzasse il sipario, al posto dell’inno di Mameli oppure della Marsigliese di cui spero si avrà il buon gusto di non abusarne anche il 7 dicembre, è apparso sull’avanscena il signor Pereira per dichiarare che Carlos Alvarez, il padre-baritono previsto per questa Giovanna d’Arco, era malato e che sarebbe stato sostituito da Devid Cecconi.

Quando poi Riccardo Chailly ha attaccato l’ouverture, ci siamo già ritrovati davanti alla più grande ed unica vera delusione della serata: un direttore abile che, essendo la persona che ha espressamente desiderato mettere in scena quest’opera verdiana minore, ma veramente minore, per l’apertura della nuova stagione, non ha fatto nulla o quasi per enfatizzare ed affinare almeno quell’ aspetto rozzo e demagogico delle galoppate ed altre zum-pam-pam, che attraversano questo spartito davvero poco ispirato ed ancora meno soddisfacente per un direttore cosi giustamente acclamato per il suo lavoro sinfonico. L’orchestra, anche se sempre coordinato (non che lo spartito traboccasse con una polifonia indomabile…), risultava sistematicamente fiacca di suono. Se si sia trattato di una scelta consapevole per non “coprire” i cantanti e risparmiarli per la prima, andrà confermato il 7. La verità è che è stato tutt’altro che perfetto anche il lavoro del coro che a parte la scena del cattedrale si è permesso fin troppe imprecisioni e si è poco curato di un suono compatto degno di un coro-popolo verdiano, privo nella Giovanna d’Arco di pezzi corali leggendari come nel Nabucco od i Lombardi.

Una cosa, però, era chiara sin dall’ouverture e dal coro introduttivo, prima ancora che i solisti aprissero la bocca: ovvero il carattere decisamente riuscito del lato visivo dello spettacolo. La regia del duetto di Moshe Leiser e Patrice Caurier realizzata con la sostanziale collaborazione di Christian Fenouillat (scene), Agostino Cavalca (costumi), Christophe Forey (luci) e Etienne Guiol (video), è un ottimo esempio di Regietheater che ad un’opera povera di idee e che non approda a nulla impone un Konzept il cui significato viene esposto in modo chiaro all’inizio, sviluppato durante lo spettacolo e risolto altrettanto chiaramente alla fine. Ne risulta un allestimento che è non solo divertente da vedere, ma riesce anche ad arricchire l’opera riempiendo con successo i tanti buchi di un lavoro quasi fatto esclusivamente di buchi, di idee drammaturgiche e musicali accennate e mai compiute. L’idea semplice consiste nel inquadrare la vicenda medioevale-eroica con la storia di una ragazza schizofrenica dell’Ottocento, che si crede di essere Giovanna d’Arco. Il grigio interieur borghese ottocentesco della camera da letto della ragazza malata viene lentamente inondato da una bella proiezione di taglienti raggi vermigli, che si trasformano man mano in un affresco semi-astratto di battaglie e sofferenze umane. E’ da questo affresco che si distacca anche il coro del popolo francese. Dal lato destro entra il Delfino Carlo sul suo cavallo – una figura dorata del tardo Medioevo. E’ ascoltando il lamento di questo spettro che la ragazza ottocentesca risolve di tagliarsi i capelli, trasformare il suo pigiama in un rozzo abito corto da amazzone e di buttarsi nella battaglia che dopo il prologo invade completamente l’interieur con lo scontro fra i soldati dalle ferree armature. Il padre, che con la sua ombra colossale proiettata sul muro – da vero Padre nel senso psicoanalitico della minacciosa suprema istanza d’autorità – rimane all’inizio ancora fuori da questo mondo allucinato della sua figlia, finisce persino lui a ritrovarsi in mezzo ad esso. Senza sgranare l’interpretazione registica di ogni scena, va semplicemente detto che il raddoppiamento della prospettiva fra realtà ottocentesca ed allucinazione medievale consente al team di visualizzare con figure o proiezioni a tratti anche eclettiche (spesso al limite del kitsch), ma sempre suggestive, tutto quello che nel disastroso libretto di Solera (per cui alla fine il dramma di Schiller è stato solo un pretesto e nient’altro) rimane solo accennato – ed anche mal musicato da Verdi – nelle varie visioni e nei deliri di Giovanna o nei banali cori lontani. Cosi prende corpo non solo la lotta fra il lato diabolico-carnale ed angelico-patriotico, ma anche la visione del rogo bruciante o l’apoteosi celeste nel terzo atto. Quando alla fine la ragazza schizofrenica cade esanime, spariscono sia il re dorato che la luce celeste e gli angeli e viene ancora una volta reso evidente che tutto ciò che è accaduto è stato solo un fantasma ed una battaglia interiore di un’anima malata. Forse è il mezzo migliore per dare un po’ di senso e credibilità alle assurdità di cui consiste Giovanna d’Arco: solo un’allucinazione di una persona schizofrenica potrebbe contenere tali assurdità ed inconseguenze. Insomma, per una volta ci troviamo davanti ad una regia, che si mette davvero al servizio di un’opera per giustificarla e nobilitarla proprio nei punti in cui essa sembrava insalvabile.

Per quanto riguarda “il triumvirato” dei protagonisti, abbiamo già menzionato la sostituzione del baritono Carlo Alvarez dal suo cover Devid Cecconi, voce grezza, incolore e senza punta, che fa fatica ad espandersi nella grande sala della Scala pur essendo piazzato al angolo sinistro dell’avanscena per “doppiare” il muto Alvarez, che mimava il ruolo di Giacomo.

Meglio Francesco Meli il cui volume e pasto vocale, però, pare abbastanza ridotto rispetto agli ultimi anni. Canta in maniera stabile con la sua emissione un po’ dura ed acuti piccoli un ruolo che non pone particolari difficoltà in specie nell’ultima parte dell’opera. Prova di variare il fraseggio (risultando talvolta in falsetti piuttosto bianchi) e di dipingere un re spodestato lacerato fra umiliazione politica ed ammirazione/amore per la pulzella.

Anna Netrebko quale Giovanna si impone con lo strumento più potente del cast, dominando i pezzi d’assieme li dove tenore e baritono sparivano. Si butta nel ruolo sin dall’inizio con tutta l’energia ed attira l’attenzione proprio per la voce, perché scenicamente rimane davvero banale e poco rifinita. Per fare il soprano verdiano ricorre ad un gonfiamento del centro e si compiace in suoni cavernosi in basso, che appesantiscono ancora di più una voce giàabbastanza gutturale e che la mette in difficoltà nelle frasi drammatiche e rende del tutto sgangherate le sue cabalette. Il fatto che il suo strumento, sempre molto bello e dotato, si espanda con la più grande facilità e pienezza nei piani più fini, mentre la voce si sbianca, gratta e stona li dove il vigore della scrittura verdiana richiede il sostegno di un mezzo opulente e generoso già di natura, si capisce ancora una volta che il volere essere un soprano drammatico da Verdi e cantare persino Lady Macbeth è solo l’assurda pretesa di un soprano con un bagaglio appena sufficiente per un repertorio da lirico pieno. Fallisce nei passaggi di forza un soprano che pretende cantare Lady Macbeth, mentre una Tebaldi la cui voce vi fiorisce per accento e generosità non affrontò mai i ruoli del primo Verdi da autentico soprano drammatico. Questo vociare disordinato, però, viene abbastanza compensato da un canto lirico che, essendo anch’esso sempre al limite della stabilità e coerenza tecniche, fornisce soddisfazione per una serie di frasi piani e morbide con cui la Netrebko si distingue nelle sue cantilene e nei due ultimi finali. Anche dopo quasi vent’anni, si lascia solo immaginare il livello che questa voce davvero “baciata” da Dio (ovvero la natura) avrebbe attinto, se si fosse ritrovato nella gola, nelle mani e nel nesso di un sistema un pochino più competenti del nostro.

Il giovane pubblico seguì l’opera, che ha l’unico grande pregio di essere breve, con sostenuta attenzione, ha regalato qualche applauso di cortesia al termine delle arie inoltre ad un applauso finale abbastanza corto. Peccato che il team registico si sia astenuto da partecipare alla uscita finale, perché sono proprio loro ad aver provato a fornire un elemento educativo ed un perché a questa problematica operazione, alla fine sostenuta dal suo iniziatore stesso con palese svogliatezza, di riesumare un’opera poco godibile dopo centocinquant’anni di assenza dal palcoscenico scaligero. Ma è solo l’umile opinione da under 30 ingenuo e facilmente impressionabile. Aspettiamo il giudizio dell’illustre ed esigente pubblico della prima.

 

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18 pensieri su “Giovanna d’Arco di Verdi alla Scala. L’anteprima per giovani

  1. Molto interessante la recensione! Guarderò su Rai 5 appena potrò per la regia e perché curioso sullo stato della Netrebko. Meli mi è insopportabile, del baritono ignoro le generalità. Temo che non scatterà un colpo di fulmine per quest’opera che, a mio avviso, neanche i cast stellari delle due storiche edizioni riescono a farmi piacere. Purtroppo Verdi ha sempre un trattamento privilegiato, anche quando si tratta della produzione meno ispirata…

  2. scusate, ma ho capito bene? Cecconi “piazzato al angolo sinistro dell’avanscena per “doppiare” il muto Alvarez, che mimava il ruolo di Giacomo” ?
    ma che scemenza è questa? Se Alvarez è malato lo si sostituisce non gli si presta una voce! ma che roba, siamo tornati ai film-opera degli anni 50 con la Loren che “mimava”Aida? anche questo ci tocca vedere nell’era di Pereira!

    • Niente di nuovo sotto il sole. Niente di strano.
      La cosa è capitata più volte in molti teatri di nome, soprattutto se c’erano messe in scena con recitazione complessa.
      Capitò ad esempio a Bayreuth quando Kollo si ruppe una gamba e cantò Sigfrido doppiato sulla scena da Chereau.

  3. Sono stato a vedere la Giovanna D’Arco. Al di là dei limiti della partitura, personalmente mi trovo in completo disaccordo con l’allestimento. A mio parere si è voluto addomesticare un’opera che parla di temi poco comprensibili alla mentalità odierna, quali “bene” e “male” assoluti, coscienza, ecc. Trovo ci sia una forma di vergogna e imbarazzo a prendere sul serio un personaggio così smaccatamente cristiano, e di un genrere di cristianesimo così lontano da quello odierno, per cui il solo modo per trattare un’opera simile è smitizzarla, ridicolizzarla, stravolgerla.
    Trasformare un’opera in cui si è voluto dire “qualcosa” in un’opera in cui si vuole dire “qualcos’altro” è uno stuprare il testo e la drammaturgia: inutile stracciarsi le vesti per i direttori di cent’anni fa che modificavano le partiture per poi non batter ciglio, e anzi lodare, i registi che se ne strafregano del dato teatrale e testuale!
    La resa generale, poi, era a dir poco naif, con “diavoli” che parevano i pupazzi di gomma in vendita alle bancarelle, il conflitto tra bene e male risolto in un trito e ritrito sensualità vs. Gesù&Maria (perché, è chiaro, una donna nel medioevo arretrato, retrogrado, clericale, ecc. ecc. ecc., non può che avere una sensualità repressa), il re trasformato in una “figurina” ridicola dai capelli tinti degna di Lord Farquaad di Shrek, il coro una giustapposizione di colori di pessimo gusto. In definitiva, al di là della pseudo-trovata del sogno di una demente, non c’era nessun disegno unitario né drammaturgico né estetico, dove il delirio visivo e la bruttezza dell’insieme mi ha ricordato il pessimo Tannheuser scaligero del 2010 della Fura Dels Baus (in Tannheuser ambientato sul Gange….).
    Il fatto che un’opera non sia un capolavoro non autorizza a non prenderla sul serio e/o, peggio, a stravolgerla totalmente!

    • Che esagerati! !! Lo spettacolo è divertente e gradevole, che non rispetti alla lettera l’orrendo libretto di Solera è un vero sollievo. Chailly dirige benissimo (la sera della Prima con molta più autorità che alle primine) e Meli (in questo ruolo) mi è perso il miglior tenore oggi in attività. (I diavoli stile Disney ,poi, a me sono piaciuti moltissimo….) andate a vederla!

  4. Carissima Judy,
    mi trovo in completa sintonia con l’acuto Viotti.
    Penso che cercar di “migliorare” o “nobilitare” un lavoro che – a differenza di, che so, Sonnambula o Trovatore – è totalmente privo di doppi fondi sia operazione cafona e presuntuosa.

    Il konzept appiccicato dall’esterno non fa altro che enfatizzare la rozzezza e la schematicità drammaturgica (lasciamo perdere Schiller) dell’opera in questione, piuttosto che illuminarne la vera natura (forse di feuilleton-veicolo per interpreti dotati?).

    Insomma non un buon servizio; simile – nei risultati e forse anche nei pelosi intenti – all’esportazione della democrazia verso chi non ne fa richiesta alcuna.

    Per la parte musicale concordo.

    Un abbraccio affettuoso.

  5. Condivido il giudizio di Giovanbattista Viotti sulla regia della Giovanna d’Arco . Anche se questo libretto è particolarmente brutto, occorre però ricordare che , pur con poche lodevoli eccezioni,le vicende narrate dall’opera lirica non peccano certo di eccessivo rispetto per la realtà storica, di credibilità e logica ( basti come esempio il Trovatore). Ciò però non autorizza nessuno a stravolgere completamente un melodramma con idee ( si fa per dire..) cervellotiche e schizofreniche, che necessitano anche, come in questo caso, di previa spiegazione di cosa i registi ( io comincio a rimpiangere i vecchi direttori di scena) volessero dire. Abituata quindi da tempo ad ascoltare l’opera ad occhi chiusi, per non essere disturbata da follie varie, ieri sera ho dovuto constatare che sarebbe stato necessario chiudere anche e soprattutto le orecchie. La scelta di una voce sgangherata e, per usare un eufemismo, lacunosa nella tecnica, per sostenere una parte modellata sulle doti ecczionali della Frezzolini, ora non è neppure più giustificabile dalla prestanza fisica del soprano, a parte il fatto che non mi risulta che la Scala sia diventata una succursale di un concorso di bellezza. Affidare poi ad un tenore leggero un ruolo che richiede almeno un lirico spinto è stata una scelta a dir poco azzardata. Sulla prestazione vocale del baritono
    ” il tacere è bello “

  6. Giovanbattista Viotti l’ha detto benissimo. Aggiungo che non credo sia il caso di prendersela con tutto il teatro di regia in ambito lirico (per altro, è vero, spesso musicalmente ignorante e casuale quando non addirittura stupidamente nocivo); ma in questo caso ho trovato le scelte d’allestimento trite e pacchiane, pavide e volgarotte. Se l’opera non è un capolavoro (e non lo è), non si può sempre far ricorso ad un’ironia sommaria post-postmoderna per prenderne le distanze e levarsi dalle pesti. Oltretutto, qui, gli esiti si sono rivelati francamente brutti, drammaturgicamente superficiali, stilizzati e minimizzanti: insomma, a me non pare che la parabola della schizofrenica abbia offerto un doppiofondo sapiente ad una vicenda teatrale elementare e fragile, quanto piuttosto una cornice noiosamente onirica (e stra-vista) ad inverosimiglianze che sono invero strutturali alla fantasmagoria religiosa medievale che il melodramma si fa carico (per quanto modestamente) di restituire, attraverso strappi muscolari e rudimentali colpi di scena. Diavoletti ed angoletti a parte (comunque orrendi, a mio gusto, pur considerandone il trattamento ironico e citazionale), il limite maggiore della messinscena lo ravviso proprio nel voler appiccicare un romanzetto ottocentesco ad un lavoro che se non è compiuto e felice si sarebbe quanto meno giovato, forse, di un’enfasi posta sul suo disinibito e frettoloso (ma a tratti caleidoscopico) frammentismo, nutrito (sebbene scompostamente) di certa intrinseca visionarietà. Per portarla a galla, era necessaria davvero la solita storia del personaggio che sogna e rivive, o non bastava assecondare il coraggio (l’ardire rutilante…) della fantasia? Rudimentale? Superato? Bastava allora scegliere un’altra opera. Ho trovato più rudimentale e più superato ancora e di gran lunga il lavoro della regia di quello della ditta Verdi-Solera. Proiezioni didascaliche, costumi carnevaleschi, esubero di segni, nessuna cura della recitazione che vada oltre alla predisposizione naturale di interpreti con molte lacune (parlo ora del solo dato teatrale), in uno spettacolo più che breve affrettato, privato di pathos (almeno quello, lasciamoglielo, al primo Verdi!), macchinoso nei cambi e banale quando non ridicolo nelle soluzioni (vogliamo parlare di Cristo in persona che rincula in una luce di taglio dopo aver fisicamente consegnato alla ben solida pulzella una croce in cartongesso?) . Per quel che riguarda la musica, mi unisco al coro: direzione non memorabile ma forzuta (e qui forse è un pregio), Giovanna fuori repertorio, Re manierato ma sufficiente (migliore di altre volte), baritono non infieriamo, ma la voce non suona proprio. Evviva Casoni, con coro costretto in posizioni inutilmente anomale.

  7. Insomma, propongo una veloce risposta collettiva:

    Non credo che ci troviamo per la prima volta davanti ad una regia che – come ho anche scritto nella recensione – IMPONE un suo “concetto” all’opera. La Regietheater è fatto di concetti imposti. Quello che è piaciuto a me che mi sono sorbito sta Giovanna d’Arco dal vivo alla primina è che c’era semplicemente un’idea coerente, comunque “imposto” all'”originale”, che permetteva in primo luogo di sviluppare un repertorio di immagini e figure senza di cui, francamente, farei fatica di seguire quest’operaccia anche se ci cantasse la Tebaldi.

    Perché, poi, scusate, ma se stiamo ammettendo che i temi che vengono trattati da Verdi e Solera nella Giovanna d’Arco ci stanno lontanti, qual’è la soluzione? Io non sono nemmeno sicuro che quei temi della lotta fra bene e male ed il rapporto al cristianesimo che viene evocato da Viotti siano stati cosi vividi al tempo della prima rappresentazione dell’opera. E’ proprio su questa strada che vogliamo cercare ed invocare una certa “autenticità” che i registi della Giovanna scaligera avrebbero “tradita”? E’ vogliamo vermanete fare addirittura di quest’opera il luogo da cui evocare i valori di un’epoca passata quando nella Giovanna d’Arco non si rispecchiano in modo coerente nemmeno quei valori tramite i quali il pubblico di allora l’avrà ricepito?

    Se non altro per ragioni pragmatiche un teatro come la Scala (che poi ha un direttore regietheatrofilo) non avrebbe fatto oggi come oggi una Giovanna d’Arco come quella di Lavia, già per il fatto che con un allestimento ultra-realista, pur bellissimo, non reggi un’apertura della stagione scaligera quando poi il massimo della resa vocale che puoi (o vuoi) offrire è una Netrebko.

    Rimango dell’idea che in teatro la produzione fa un effetto molto migliore che non in tv. Non so se è perché la tv non rende bene la dinamica visiva o perché in teatro è troppo grande la disperazione uditiva di fronte a cotanta mediocrità da parte di compositore, direttore e cantanti.

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