Genere, stile e gusto: l’oratorio al Trani

ColegioClementino Comincio questa breve riflessione spiegando ai più che a Milano il Trani era un’osteria dove veniva venduto il vino pugliese, denominato Trani, che non godeva di molta considerazione se non come vino da taglio per implementare con il suo forte tasso alcoolico quello debole dei vini del Nord, precipuamente piemontesi. Il resto veniva venduto al Trani per avventori non certo di palato fine e magari avvezzi ad alzare un po’ il gomito e finire in gaina (uno dei modi milanese per indicare lo stato di ebbrezza). Or bene in un elegante trani qualcuno ha pensato di ambientare un oratorio di Handel, Il trionfo del tempo e del disinganno. Precisiamo anche che ci è giunta voce che quell’allestimento avrebbe dovuto essere utilizzato per un abortito progetto di Armida, prontamente riciclato quale “contenitore visivo” per un oratorio. Come se la moraleggiante pagina di un giovane Handel avesse argomenti in comune con la storia della seduttrice per antonomasia e, per altro, come se Armida, che di vizi ne praticava, avesse avuto anche quello di alzare il gomito. Oratorio che, sia detto subito, non ha bisogno di contorno visivo perchè la sua peculiarità anche se su testo in lingua italiana (e lo erano sempre perché il latino era riservato alle sole “messe in musica” di pagine liturgiche) era quella di non avere parte visiva e perché da rappresentare in Quaresima, quale sostituto dell’opera interdetta dalla penitenza ed anche perché, si diceva, tralascio se convinti o meno, che l’alto contenuto morale, adatto per i cosiddetti tempi liturgici forti non necessitasse di nulla che non fosse: forza della vicenda, delle parole, qualità di musica ed esecutori.
Richiamare l’imprescindibile necessità di eseguire un oratorio in forma non scenica può sembrare una battaglia di retroguardia, dettata dal solo desiderio di contrastare chi, invece, lo abbia pensato e realizzato. Ed, invece, proprio no. Quando si affrontano ed allestiscono prodotti musicali precedenti Rossini il rispetto del genere è irrinunciabile sia nell’opera con le categorie del serio e del comico sia -a monte di questo- con il rispetto dell’oratorio e del pezzo liturgico musicato. Se l’attenzione del tempo era sul testo e sulle cospicue metafore che lo stesso offriva (basto pensare ai personaggi assolutamente metaforici che vi agiscono) è pacifico che il moderno “allestitore” non ha il titolo ed il diritto di alterare l’ottica del tempo. Siamo esattamente -come fuor d’opera- a quel famoso e defunto direttore d’orchestra, che riteneva il Rossini tragico autentica opera seria, dimentico, per certo, che il termine opera seria non indicasse dal Giasone di Cavalli alla Parisina di Mascagni identico prodotto ed ancor più dimentico, perché direttore del solo Rossini comico, che per primo Rossini avesse mescolato i generi.
E questa è una questione di genere. Il genere va rispettato: per la cronaca il genere ed il rispetto del genere fu una delle grandi battaglie, combattute fra Sette ed Ottocento in musica fra l’ultima grande stagione dell’opera napoletana e Rossini ed in letteratura fra Foscolo e Manzoni, il primo dei quali dedicò alla tragedia del secondo una autentica stroncatura in nome di genere e stile.
Stile: non la abbiamo sentita dal vivo questa realizzazione, forse lo faremo. Al tradimento del genere eseguire un oratorio del Settecento in forma scenica si aggiunge quello dello stile perché gli strumenti originali e cantanti di ispirazione baroccara ad onta delle etichette appioppate con tanta faciloneria tradiscono autore e sua precipua poetica. La polemica è lunga ed annosa e già altre volte il corriere vi si è avventurato. Primo aspetto la sede. Questo genere di lavori erano per sale principesche le cui dimensioni non erano quelle di un teatro. Preciso che siccome non si trattava di liturgici musicati non venivano neppure seguiti nelle chiese, come con suprema ignoranza ho più volte letto e sentito. E qui siamo alla Scala uno dei più ampi teatri d’Italia (credo secondo fra quelli del secolo XVIII, seconda parte oltre tutto al solo San Carlo napoletano). Secondo aspetto le orchestre con strumenti originari, suprema velleità perché è stato più volte detto per limitarci agli strumenti ad arco, che i budelli di oggi non sono quelli del Settecento perché i trattamenti a cominciare dagli animali e, i cui visceri vengono impiegati, non conoscevano mangimi, ma ben altro, e post mortem trattamenti differenti da quelli “industriali” di oggi. Pare che l’intonazione sia quanto di più ballerino ed aleatorio si sia mai sentito e tralascio della tecnica delle compagini scaligere che si sono trovate a suonare strumenti differenti dall’oggi al domani. Come pretendere che i giudici di master chef cucinino utilizzando gli strumenti di cui disponeva il cuoco del marchese di Bechamel. Spero in un esempio calzante! E se a questi spunti di riflessione aggiungiamo che non risulta in alcun trattato di canto del ‘700 che lo sforzo ed il fine del canto fosse quello di emettere suoni fissi e fischianti e di non usare il sostegno del fiato, che sarebbe stato invento da Garcia (allievo e raccoglitore della scuola dei grandi musici delle seconda metà del secolo XVIII) è ben facile capire che lo stile di queste rappresentazioni è solo un malinteso e preteso stile e gusto. Quel preteso stile e gusto che tanto piace a docenti e studenti di beni culturali e musicologia i cui titoli accademici sono tirati da tempo nella schiena. O forse un po’ più in basso?

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19 pensieri su “Genere, stile e gusto: l’oratorio al Trani

  1. Io c’ero, come ho notato in un altro post fuori tema, e posso quasi accodarmi al Donzelli sul giudizio, a cominciare dal risultato – pessimo – della proposta scaligera.
    Una premessa: il Trani (magari a gogó come avrebbe cantato il sommo Giorgio) era cosa molto più nobile dell’inutile e ampollosa scena scaligera.
    Detto questo, pur essendo d’accordo sulla assoluta non necessità di una messa in scena posso dire che se avessimo avuto una regia come quella che Peter Sellars fece della Theodora avrei fatto a piedi la strada che da Novara, dove ormai abito, mi separa dalla natia e amata Milano. La messa in scena e la regia di Flimm è invece inutile, banale e contro la musica. In una parola: noiosa. E contro la noia cade qualunque altro discorso.
    Punto numero due: l’orchestra.
    Confesso di apprezzare le esecuzioni “in stile” con poco vibrato e magari anche con le corde di budello, ma a un patto: che si sappia suonare. A orecchio non mi pare che alla scala abbiano usato corde di budello, certamente hanno usato archetti moderni modernamente impugnati e anche il modo di imbracciare gli strumenti era per lo più moderno. Solo mancava il vibrato. Ma questa sola vera concessione allo stile ha provocato il disastro. La signora violino di spalla – proveniente dai “Barocchisti” e non dalla scala, si è prodotta in miagolii che neanche il mio gatto… E sì che una quindicina di anni fa a Lugano Fasolis e i suoi (ma il primo violino era Galfetti) avevano eseguito un apprezzabile Vespro monteverdiano. Il resto era un trionfo di stonature e “fuori tempo”.
    Punto tre: Fasolis
    Non ho capito che cosa volesse fare. Generalmente non mi dispiace (non linciatemi, vi prego!) ma stavolta sembrava spaesato e incapace di dare coerenza drammaturgo alla lettura di un testo che sta in piedi da sè (che bel libretto, Card. Pamphili!)
    Punto quattro: le voci… Le voci? Quali? L’unica degna di menzione è stata la Mingardo. Non sono un vociomane ma almeno da parte sua ho sentito attenzione alla parola cantata, stile e soprattutto… L’ho sentita! Le altre due voci femminili venivano coperte anche dal “continuo”. Il tenore si è prodotto in più di un fuori tempo (ed era proprio il tempo!). Se l’avessi sentito la Coccia l’avrei anche potuto perdonare, ma non alla scala!
    Un’ultima considerazione: mi è parso di vedere nel palco di proscenio il Sig. A.P. che dormiva…

  2. Pezzo splendido Donzelli!
    Giustamente si mette alla berlina un certo modo di far opera oggi che vede i suoi due pilastri nella regia (persino quando non ce n’è bisogno! Poi però le opere vere in forma di concerto causa budget o altro… Mah!) e, per il repertorio pre-Verdi, una pretesa filologia fondata troppo spesso su assunti indimostrabili e più che dubbi.
    La nobilissima scienza in questione viene ormai tirata in ballo ogni due per tre quale preventiva giustificazione di operazioni la cui liceità sarebbe quantomeno discussa. Sono il primo ad apprezzare le operazioni filologiche, quelle ben fatte ovviamente (tipo la bella Lucia di Mackerras), ma vedere l’uso che si fa della filologia nel repertorio pre 800entesco (ma anche su Rossini e Donizetti vorrebbero estendere le mire) mi lascia non solo perplesso, ma completamente deluso. Ringrazio il cielo di avere una personale predilezione per l’800 e il primissimo 900, con uno speciale amore per il primo 800, così da poter godere di bellissime operazioni filologiche (tipo quelle di Opera Rara per intenderci, ma non solo)!

  3. Devo dire che stavolta non concordo affatto con l’amico Domenico. E non per il giudizio sullo spettacolo che né io né lui abbiam visto o sentito dal vivo, ma sui presupposti delle sue riflessioni. Già conosce le mie opinioni in merito e non penso me ne vorrà se le propongo qui:
    1) il genere: al contrario della più stereotipata opera ottocentesca, che non lasciava scampo nella codificazione del genere attraverso canoni e forme rigide (Rossini compreso) e che dunque distingueva con precisione il buffo dal serio e dal semiserio, riflettendo gli effetti di tale rigidità nelle formule musicali, l’opera barocca e prebarocca non conosce questa netta divisione. Proprio la ricchezza e la possibilità di molteplici letture dei testi (infinitamente più complessi dei libretti melodrammatici) favorisce una estrema fluidità di genere che si traduce in libertà espressiva. La seriosità, il dramma coturnato, la retorica classica non appartengono al mondo di Händel: così nell’opera come negli oratori. L’idea di un barocco immobilizzato in figure marmoree e statiche è frutto del fraintendimento romantico o peggio vittoriano che ha tradotto Händel in un autore di nenie per soprani svolazzanti, ghirigori liberty e infiniti recitativi secchi. Non è così: non è opera seriosa Agrippina, Giulio Cesare, Serse…a maggior ragione questo Trionfo che, invece, rappresenta un felice divertissement illuminista di arguzia e ambiguità.
    2) la separazione dei generi è, appunto, roba che appartiene al secolo successivo, a Rossini (il cui fantasma pare sia un’ossessione così come la figura di Abbado: tirati in ballo anche quando nulla c’entrano). Non certo a Händel.
    3) lo stile. Premesso che non si può pretendere di eseguire Händel come Bruckner o come Donizetti (in stile Bonynge per dire), con tempi letargici sulla scorta di lacerti sonori dei primi ‘900 che nulla hanno a che fare con l’epoca barocca, preciso che alla Scala hanno suonato strumenti MODERNI con tecniche MODERNE. Nessun barocchista…purtroppo, che meglio avrebbe saputo gestire le necessarie esigenze espressive. Se hanno suonato male non è colpa delle corde, ma di come sono suonate. Peraltro inutile girarci intorno: nel 700 non c’erano corde in metallo e il diapason era abbassato notevolmente. Non è un’opinione. Se poi cavilliamo sulla modalità di costruzione delle corde allora stiamo a cercare il pelo nell’uovo…e pur di dimostrare una tesi si nega la realtà. Idem per il vibrato che non era regola di emissione del suono. I termini baroccari et similia sono generici e ingiusti.
    4) la dimensione dei teatri è un falso problema: la Scala non è stata costruita all’epoca di Mascagni…
    5) l’allestimento non è nuovo: nasce a Zurigo appositamente per l’opera di Händel: Armida (ancora l’ossessione Rossini) c’entra nulla.
    6) pesi e misure: sempre doppi a seconda delle convenienze… Perché tirarsi scemi per una quartina o una legatura non eseguite e poi fregarsene di diapason, vibrato, strumenti, rapporti archi/fiati etc?
    7) non mi piace il continuo attacco alla musicologia: in nome di che? Di robe come l’ascolto allegato? Sarà piacevole come romanza da salotto, ma non è Händel.

    Dimenticavo l’onnipresente Garcia che scrive in epoca posteriore, in diverso contesto storico e di altro genere: esempio dunque che c’entra come i cavoli a merenda. Ma l’ossessione Garcia si accompagna a quella Rossini

    • Solo alcuni spunti di riflessione da parte di un contadini bergamasco divenuto tenore all’inventore del do di petto (dimenticando Garcia, che pure ne disponeva) e famoso trattatista di canto.
      a) Garcia trattatista di canto è un terminale (non malato, per fortuna) di una lunghissima tradizione, che affonda per quanto ne sappiamo le radici circa cento anni prima a partire da Mancini o da Tosi quindi la sua posterità significa niente. E poi, caro Duprez, gli esempi per formare la voce del tuo trattato sono di autori pre rossininiani
      b) la Scala è del 1778 un poco precedente 1737 il san Carlo (dove per altro molti tenori come David si sentivano pochino). Le dimensioni di tutti gli altri teatri sono piuttosto ridotte rispetto a questi due. Teatri di certe dimensioni in Italia arrivano intorno al 1830. Vedi al riguardo il comunale di Reggio Emilia che è il più ampio di tutta la regione essendo -toh che strano – il più tardo ! E poi che questo componimento nato per edificare lo spirito e sostituire l’opera venne rappresentato in casa. correva l’anno 1705, se non sbaglio. Ovvero trent’anni prima del san Carlo ben settanta prima della Scala!
      c) quanto ai generi ripeto e mi ripeto il genere imponeva il linguaggio. Cecchina, personaggio umile fors’anche realistico parla un limguaggio vocale diverso dalla marchesa Lucinda o dal Cavalier Armidoro, che sono personaggi per psicologia e censo dell’opera seria. Idem accade in Mozart se paragoni donna Anna a Zerlina, don Ottavio a Masetto. La commistione, cui si fa riferimento come estinzione del genere è quella di Rossini, che fa parlare a Cenerentola o Rosina il linguaggio di Medea o di Semiramide. Era e non lo dico io, ma lo dice una folta schiera di coevi d Rossini la fine del genere. In letteratura prendi Alfieri e Goldoni ed il risultato non cambia. Che poi possano esserci, discendendo dall’opera del ‘600, presenti in un lavoro il comico ed il tragico non lo contesto (ci sarà anche nell’oratorio di Pergolesi dedicato a San Bernardo con un personaggio che parla napoletano capitan Quosemo), ma ciascun personaggio si porta appresso il linguaggio musicale del genere cui appartiene.
      d) quanto alla musicologia la mia disaffezione è dovuta non alla scienza in astratto, ma a chi oggi la incarna ed alle idee antistoriche che governano le loro opere. Solo nel momento in cui il musicologo, che si occupa di melodramma, libererà la propria mente da idee tipo il feticcio della prima rappresentazione (pensa alla prima di Semiramide e quello che Rossini aveva musicato), l’orrore che il cantante fosse, anche per la propria preparazione musicale, specie se musico, un coautore, che lo spartito veniva rimaneggiato dall’autore per primo (vedi Crociato in egitto) e poi da altri e che spesso il rimaneggiato prevaleva sull’originale (il Tancredi di Giuditta Pasta, che di Rossini ne ha poco) o che l’autore stesso ammettesse e risistemasse musica altrui (sempre il Tancredi della Pasta con il finale di Nicolini) sarà al servizio della musica e della corretta prassi esecutiva. In difetto resta un mal venuto parto dell’idealismo e sforna soggetti ai quali la laurea può servire per altri e men nobili usi. E sai bene di chi parliamo!!!!!!!

  4. Rispondo a Domenico, precisando che qui stiamo parlando di un lavoro di Haendel datato 1707, che nulla ha a che fare con Rossini, con il melodramma, con l’industria operistica italiana e con il commercio di cantanti, pertanto non voglio parlare di Rossini, della Pasta, dei rimaneggiamenti perpetrati da mani estranee in corso di circolazione dell’opera, di manoscritto o prima rappresentazione: preciso solo che nessuno nega tutti quegli “accidenti” (e men che meno lo fa la musicologia), poiché fan parte della storia di ogni titolo, ma attengono – appunto – alla circolazione dello stesso e alla sua ricezione. Ci possono dire molto sull’evoluzione dei rapporti tra un determinato genere o autore ed il pubblico, ma non ci parlano dell’opera in sé. Testimoniano il tempo che passa e, come il tempo, passano anche loro: allora le opere si stravolgevano, oggi non più…può piacere o meno, ma la storia dei diversi approcci rispetto ad un genere è un mero dato di fatto. A meno di sostenere l’insostenibile, ossia che si dovrebbe vivere la musica come un ente fuori dal tempo e dalla storia, negarne l’evoluzione e riportarci a prassi superate solo per l’amore di tradizione, negando valore a prassi differenti (ossia quello che chiami, impropriamente, “feticcio della prima rappresentazione”). Peraltro non capisco come il “feticcio” vada bene per i cantanti quando sono i primi interpreti (per cui si inchioda al pentagramma un qualsiasi soprano che non corrisponde alla propria personale idea di Colbran) negando l’evoluzione e poi riscoprirsi evoluzionisti nel caso di interventi apocrifi… Ma questa è un’altra storia. Torniamo a Haendel.
    1) I trattati sono materiale delicato: dicono tutto e il contrario di tutto a seconda di quel che vogliono trovarci gli interpreti. Senza contare, poi, che non abbiamo certezze circa il significato preciso di concetti e parole attribuite a entità sensoriali come canto e voce. Ma poi, ancora, si accoglie solo ciò che piace, perché in tutti i trattati settecenteschi si parla di vibrato solo come modalità espressiva alla stessa stregua di un gruppetto o di un’acciaccatura….come la mettiamo? Il metodo poi di rifarsi alla tradizione precedente è molto discutibile: presuppone che il trattatista sia rimasto inscatolato nel vetro e non abbia recepito nulla dai cambiamenti seguiti in un secolo abbondante di storia musicale (secolo in cui è accaduto di tutto): perché se Garcia scrive nell’800 come si può pretendere che ci dica qualcosa di affidabile del canto di un secolo prima? Ma alla fine quello dei trattati è l’aspetto meno interessante della questione.
    2) la dimensione del teatro resta un finto problema: certo sarebbe più indicato uno spazio ristretto, ma non credo vi siano compromissioni acustiche. Alla Scala ho sentito senza problemi Monteverdi e Purcell, basta rialzare l’orchestra e non affossarla in buca. Il lavoro di Handel, tuttavia, non doveva edificare nessuno spirito, era un divertissement composto per il Cardinale Benedetto Pamphilj (autore anche dell’arguto libretto) nel periodo romano del compositore. Probabilmente le prime esecuzioni erano svolte in ambienti diversi, ma che fare? Non rappresentare più Haendel e la musica barocca? In nome di cosa? Anche molti melodrammi vennero composti per ambienti più piccoli: mi risulta, però, che Lucia di Lammermoor venga eseguita con profitto anche al Metropolitan di NY, che credo sia il doppio del San Carlo…
    3) Ancora sui generi: il tuo discorso è troppo condizionato dal melodramma e da certa opera italiana. Il mondo barocco è molto meno rigido e codificato: i linguaggi sfumano, come i confini tra personaggi… In Agrippina Claudio assume caratteri ambigui (ora cialtrone, ora impenitente donnaiolo, ora nobile romano), lo stesso vale per Alcina o Giulio Cesare: e se vale per l’opera figuriamoci per un testo come il Trionfo che per sua natura gioca con l’ambiguità. Vedi che i tuoi esempi girano sempre intorno a Rossini? Perché prima il problema non si poneva: il linguaggio corrispondente alla psicologia del personaggio è un’invenzione successiva e frutto di una codificazione di caratteri assente nell’opera seria. Attenzione sempre alle date: 1707. E poi che carattere e censo ha la Bellezza, o il Tempo, o il Disinganno?

    Una piccola chiosa sul problema del mettere in scena l’oratorio: se è lecito eseguire l’opera in forma di concerto, a fortiori è legittimo eseguire l’oratorio in forma scenica. Soprattutto se si tratta di un oratorio drammatico (con personaggi identificati e dialoghi tra di essi), certo è più azzardato farlo per oratori descrittivi (Messiah, Israel in Egypt, Occasional Oratorio…) per cui sarebbe necessario inventarsi una trama, ma che problema c’è con Hercules o Samson o Semele? Qui l’idea di una dotta conversazione a tarda ora in un locale alla moda è anche intrigante e, se ben realizzata, piacevolissima…e persino coerente: il lavoro haendeliano nasce in ambiente conviviale e ricalca le dotte disquisizioni di certi ambienti.

      • Non è così: quale sarebbe il genere di Agrippina o del Ritorno di Ulisse? La rigidità di genere per la musica barocca è un’invenzione romantica che non concepiva la sua ambiguità (come non capì mai Din Giovanni o Così fan tutte per via della loro ambiguità)

    • Eci andrei piano anche a dire che i trattati sono contraddittori. È il modo induttivo e manipolatorio in cui vengono letti dagli ideologi del barocco…..francesi sopratutto…ad essere il problema. Definizioni come quella di voce ferma non significano voce fissa, ma voce salda, non tremolante, giusta nell intonazione ad esempio. Ma vengono letti facendogli dire che si cantava come oggi cantano i controtenori, coi registri disomogenei e le fissità per dimostrare teorie che non hanno un fondamento storico. Basta andare da un qlnque storico dell arte o della letteratura barocca e leggerli insieme a chi legge normalmente testi barocchi per accorgersi che, anche senza una cultura sul canto, i testi parlano la lingua del canto.di tradizione. Ma si è voluto far dire loro quello che non dicevano…e i più forzati nelle letture sono stati proprio i francesi, i più convinti portatori di ideologie baroccare, a manipolare i significati dei testi. Il canto barocco è una questione di stile esecutivo ma non di tecnica vocale , che è una sola. Ma oggi adeguarsi alla cagneria corrente di quelli che fanno questo repertorio è il costume di chi ne scrive e d’inchiostro deve fare carriera in ambito accademico dunque…tutti rincorrono la gola baroccare e addio barocco e cultura barocca.

  5. Mi scuso per l’ingesso “a gamba tesa” certamente fuori tema, ma è una segnalazione (da verificare ) a cui tengo. E che non saprei dove postare (il blog non mi pare abbia un canale mail)
    Pare che il ns caro Michieletto abbia lasciato l’incarico della regia della Butterfly di inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala 2017. Questo perchè il Maestr Chailly avrebbe chiesto al nostro di illustrare il suo progetto, cosa ritenuta inaccettabile dal celebrato regista. Se così fosse … ho pronta una bottiglia da stappare.
    Per quanto riguarda Il trionfo del Tempo e del Disinganno, che ho molto gradito soprattutto amando molto la partitura e sopportando alcune limitazioni vocali degli interpreti, mi è sembrato dall’alto che ci fosse una qualche amplificazione di sezioni strumentali (il maestro Fasolis spostava qualche volta un microfono, non so se per una registrazione o di una amplificazione). Se fosse per una amplificazione cosa dire del rigore filologico così fortemente dichiarato?

    • Grande Chailly!
      Questa sì che è serietà! Ciò è solo fare quello che un maestro concertatore e direttore d’orchestra deve fare: garantire il risultato comlpessivo dello spettacolo salvaguardando la volontà dell’autore.
      Tarpiamo finalmente in modo deciso le ali (anzi, “i vanni” per dirlo con linguaggio melodrammatico) a questi ………….. registri di ……..!
      E che Micheletto se ne vada dove deve andare cioè a ………………………….!

    • Qualche piccola considerazione: anch’io amo molto questo oratorio, ma il massacro vocale e anche strumentale cui è stato sottoposto è stato veramente troppo. Guardando la buca dall’alto ho potuto constatare che i fiati e gli strumenti del continuo erano “in stile” (originali o copie non so) mentre gli archi – che sul programma di sala erano definiti “strumenti storici” mi sembravano normali strumenti, imbracciati normalmente e suonati con arco moderno. I Barocchisti (intesi come componenti dell’orchestra fondata da Fasolis) c’erano: Il violino di spalla, i fiati e il continuo. Della Spalla ho già detto, gli altri hanno suonato bene, tutti gli archi hanno dimostrato di non saper tenere l’intonazione se non usano il vibrato. Ricordo che anche la nostra migliore orchestra sinfonica (l’Accademia di Santa Cecilia) suona comunemente mozart o haydn e altri, beethoven compreso, se lo chiede il direttore, senza o con poco vibrato e talvolta con trombe naturali e timpani piccoli, ma il risultato è ben diverso.
      Torno un momento sull’opportunità o meno di mettere in scena gli oratori. A mio parere, ferme restando le diatribe sui generi, penso che sia soprattutto un problema di “come”. Se il risultato è emozionante e “sul pezzo” abbiamo un pezzo di teatro, magari di grande teatro. Se per capire che cosa ha fatto il regista o, peggio, per capire la vicenda, abbiamo bisogno di leggere prima tutte le note di regia, beh… il regista cambi mestiere!
      Credo che l’essenza della notizia su Chailly – Michieletto sia proprio qui: il direttore ha diritto di chiedere se un regista ha o non ha un’idea.
      Tornando a Flimm: l’idea c’era ma era noiosa, poco emozionante, prevedibile, schematica. Se poi piace agli svizzeri e ai tedeschi…
      Da ultimo faccio una considerazione sul tempo che passa: per questioni di età ho cominciato a frequentare la Scala (allora maiuscola) ai tempi di Abbado e in quegli anni ho vissuto emozioni irripetibili (Rossini in testa, ma poi il Simone, Macbeth, Otello, Nono e Stockhausen ecc. ecc.) poi… il progressivo declino con Muti che ha cacciato i giovani con una programmazione sempre meno interessante, con la sua uscita ho sperato nel rinascimento ma è stata una corsa all’abisso.

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