Tosca al Carlo Felice di Genova. Ride Francesco Meli

Recensione intempestiva di questa Tosca genovese che avrebbe ben potuto non essere recensita se non fosse per la prova di Francesco Meli che debuttava Cavaradossi, che non  posso e non voglio tralasciare di scrivere essendo data la prova positiva fornita dal tenore genovese.

Lo spettacolo di Livermore era e continua a rimanere un omaggio al brutto, liberamente ( e modestamente, nei mezzi come nella resa e nell’impianto registico ) ispirato alla Tosca scaligera di Ronconi, che nelle sue prospettive sghembe, nel telaio architettonico in frantumi, alla Giulio Romano, si era ben guardato dal cassare Roma, la sua opulenza barocca, la sua ricchezza cromatica, il lusso degli ambienti e dei costumi, che sono tutti contenuti nell’orchestra di Puccini, oltre che nelle didascalie. Ristrettezza di mezzi economici, ma anche un tirare alla maniera spoglia e semplificata tedesca hanno portato Livermore a confezionare un prodotto che è solo manierismo e niente Roma, assenti la sensualità, le atmosfere, lo sfarzo, insomma, tutto ciò che serve. Il palco ruota a vanvera al secondo atto soprattutto, i cantanti fanno una grande inutile fatica e ne traggono disagi per il canto, mentre al pubblico viene il mal di mare e l’occhio è inquinato dal brutto, dai grigi, dalle luci abbaglianti e fisse in cui si stagliano i brutti costumi che sarebbe meglio occultare. Insomma, dopo lo Chénier di Puggelli, fatto più che di idee di tanto sano mestiere aderente al libretto ( salvo forse l’idea del finale, con i due che cantano al proscenio, il palcoscenico vuoto e la carretta sullo sfondo cui i protagonisti ascendono, assecondando perfettamente la trasfigurazione del finale di Giordano ) una bel visual che non si vede, deludente e disturbante la vista, in cui c’è tutta il percorso compiuto dal nostro teatro lirico degli ultimi trent’anni.

La direzione d’orchestra è stata abbastanza convincente, anche se la prova non è stata continua. L’orchestra del Carlo Felice non brilla per corposità ed bellezza di suono, e questo rende il percorso di chi sale sul podio alle prese con un ‘opera verista molto in salita. Il maestro Dmitri Jurowsky ha dimostrato di saper bene cosa occorre e dove si deve andare a parare alle prese con questa partitura così ricca sul piano non solo drammaturgico, ma anche descrittivo e mi è parso anche un buon accompagnatore di cantanti. Dalla buca è arrivato qualcosa di ben diverso da quel torsolo rinsecchito che è stata l’orchestra di Cheniér, di fatto senza corpo e tremendamente meccanica, tanto che pareva un minuetto.

Due dei tre cantanti solisti sono stati le note dolenti della produzione. Già lo Cheniér è stato un naufragio sotto il profilo del terzetto protagonista, qui si è salvato solo Francesco Meli. Il tenore genovese, che avevo udito alla sua penultima recita di Foscari alla Scala esausto, per non dire in chiara difficoltà già sui primi acuti oltre che eccessivamente falsettante, ha qui fornito una prova elegante, ben curata dal punto di vista del fraseggio, ricca di intenzioni e pertinente a quello che Cavaradossi richiede. O meglio, diciamo che la sua natura lirica e le sue risorse timbriche, quando non abusa del suo mezzo e lo (s)forza, gli cosentono di rendere il ruolo di amoroso di Mario. Passi per le impennate, come “La vita mi costasse” o il “Vittoria” del secondo atto dove il problema del girare gli acuti non poteva non venir fuori, ma che restano come peccati veniali di fronte alle belle intenzioni espresse anche nei recitativi, da “Dammi i colori” all’attacco di “Qual occhio al mondo”. Tra l’altro quando non deve simulare una voce più ampia di quella che in realtà possiede, come in Verdi, anche il cantare aperto e basso sulla “A”, già tante volte rimarcato, risulta meno udibile ed il canto assai più gradevole. Degli altri due protagonisti non vorrei parlare, come non ho  scritto di quelli uditi dal vivo in Cheniér, perché francamente lo sciroppo della perifrasi non basta e non sarebbe adeguato a quello che abbiamo udito.

Diciamo che le velleità di rimettere in circolazione il verismo o di continuare a praticare i titoli che dai cartelloni non sono mai scomparsi come questi di cui vi ho parlato si scontra contro l’estinzione delle voci, delle voci “belle” soprattutto. Non ci è più dato né il cantare con timbro né il cantare con fraseggio, anzi, non ci è più dato l’ascoltare!

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