La bohème al Festival di Edimburgo

La_Boheme_Act_II_setTrovandomi a Edimburgo verso la fine di agosto, ho avuto occasione di assistere all’ultima replica de La bohème portata al Festival dai complessi del Regio di Torino. Certo Edimburgo è splendida e durante il festival, quando le strade si riempiono di gente e artisti di vario genere, assume un fascino particolare: una vitalità emozionante che si respira anche varcate le porte del Festival Theatre con la sua immensa vetrata che guarda sulla Old Town e sul vecchio vulcano dell’Arthur’s Seat. Ma la bellezza che si vive e si respira non è sufficiente a levare talune perplessità che anche nella capitale scozzese permangono e si rafforzano. Non voglio parlare del cast che, in rapporto allo spettacolo festivaliero, ha svolto il suo compito senza infamie e senza lode: più che convincenti le voci gravi e molto meno il tenore. Preferisco dedicare lo spazio all’elemento visivo e alla direzione (vero problema dello spettacolo). La regia era quella già collaudata di Alex Ollé che, al contrario dei suoi colleghi della Fura, non si trastulla in proiezioni e acrobazie circensi, ma propone una messinscena sostanzialmente tradizionale, solo spostata ai giorni nostri, nella periferia di una qualsiasi metropoli. Nessun mutamento alla drammaturgia, dunque: c’era la soffitta (qui mutata in uno squallido appartamento di un palazzine degradato, il Caffè Momus, la periferia con la neve, il bar e i gendarmi… Di regia vera e propria ce n’era poca: i cantanti erano lasciati alle loro capacità, ma in fondo basta la musica di Puccini che già suggerisce movimenti e atteggiamenti. Scene molto suggestive (di impatto “zeffireliano”) pur con qualche svarione – come il notebook Mac su cui Rodolfo scrive il pezzo per “Il castoro”, che mal si accorda con la miseria del contesto – ma nulla di grave. I problemi venivano dalla buca. Non dall’orchestra che ha suonato con precisione estrema e splendido suono (senza quei pasticci – al secondo atto – che si erano sentiti talvolta a Milano), ma dalla bacchetta. Gianandrea Noseda è un bravo direttore – lo confermano i successi e le tante occasioni d’ascolto – ma Puccini non è decisamente la sua cup of tea. Questa Bohème conferma le sensazioni avute con la sua recente Manon Lescaut. Sembra che non riesca a trovare una sintonia col mondo pucciniano, con quel lirismo che non significa melassa, ma che deve dare spazio ad un certo abbandono. Puccini è anche questo. E invece questa Bohème era priva di sentimento: una direzione fredda, rigida, quasi timorosa di “lasciarsi andare”. L’effetto era raggelante e grigio. Puccini è un grande compositore del ‘900 – ormai è assodato anche presso la critica più “impegnata” che finalmente ha abbandonato i cliché di Adorno – ma non è necessario trasformarlo depauperarlo del calore, del trasporto, del sentimento per una malintesa idea di “nobilitazione”. Nessuno oggi si sognerebbe di ripercorrere le superficiali considerazioni di Hanslick e soci. Questo timore si percepisce in una lettura anonima e trattenuta: i momenti più toccanti scivolano via senza lasciar segno (dal finale primo alla morte di Mimì, passando per la resa più noiosa e meno sensuale del valzer di Musata che abbia mai sentito: se penso a come lo rese Karajan…). Le stesse cose dissi per la Manon Lescaut. Evidentemente Noseda non crede in Puccini, non lo sente (neppure Abbado lo sentiva proprio e pertanto si astenne dal dirigerlo). Forse il vero problema di questo spettacolo è tutto qui: la storia di Bohème commuove ed emoziona, anche col freno a mano tirato, ma molto si perde alla fine. Così uscendo da teatro gli unici brividi rimasti erano quelli della fresca estate scozzese…brividi poi spariti in fretta, con l’amore di Rodolfo e Mimì, insieme ad un boccale di birra scura nel caldo più accogliente di un pub.

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