Handel, Alcina e la finta rinascita del teatro barocco.

Le recenti vicende dell’Alcina milanese, per i complessi di Alan Curtis, mi hanno spinto ad una riflessione sullo stato attuale del teatro barocco in generale e su Handel in particolare. Si vive oggi, una sorta di “illusione collettiva” in merito alla musica barocca: è convinzione diffusa che essa goda di una vera e propria renaissance. Nulla di più falso.
Se, infatti, si guarda alla situazione italiana, non si potrà non notare come le opere barocche siano del tutto assenti dai nostri cartelloni – fatta salva qualche rara eccezione alla Fenice di Venezia e qualche Monteverdi da festival o in occasione di ricorrenze particolari – Handel poi, con le sue opere (molte delle quali assoluti capolavori del teatro musicale) pare sia un illustre sconosciuto per la totalità dei nostri teatri. Se lo sguardo si sposta altrove, penso a Francia, Inghilterra e Germania, si vedrà, invece, una maggior frequentazione di questa musica, maggior attenzione, maggior presenza, ma non si troverà nulla di nuovo o di rivoluzionario, dato che nel resto dell’Europa questa musica barocca, operistica e non, è programmata con assiduità e costanza da almeno 40 anni. Credo dunque che si sia scambiata la diffusione e il “successo commerciale” di molte incisioni barocche per una vera rinascita teatrale, ma è evidente come la situazione reale sia molto diversa.
Fatta la doverosa premessa voglio soffermarmi sui modelli esecutivi odierni e sulle problematiche che essi comportano (e che sono da molti rimosse o ignorate).
Rispetto agli anni 60/70 il rapporto con la musica barocca è molto cambiato: sono aumentati gli strumenti critici, le conoscenze, le ricerche filologiche. Purtroppo questa ricchezza di fonti ha inspiegabilmente comportato un impoverimento generalizzato delle prassi esecutive, in particolare si è perso un certo gusto, una certa tecnica, una vera e propria “grammatica” condivisa, fatta di correttezza, interpretazione, gusto, libertà. Oggi tutto questo è stato sostituito da una serie di regole, o meglio dogmi, spacciate da certi profeti come le uniche e sole norme per eseguire la musica barocca, e che invece, il più delle volte, sono frutto di mere supposizioni e ipotesi (mi riferisco, ad esempio, ai tempi velocissimi e all’abbassamento indiscriminato del diapason).
Un chiaro esempio lo si può ritrovare proprio nel caso di Alcina: nel confronto tra la classica edizione targata Sutherland/Bonynge e una qualsiasi degli odierni specialisti del barocco (tra cui naturalmente Curtis). A fronte di un rapporto col testo decisamente arbitrario (arie tagliate, intere sezioni omesse, accorciate, ridotte, brani spostati o affidati ad altro personaggio, recitativi falciati) vi è, nella prima, un’interpretazione vocale assolutamente di riferimento, che accompagna la perfezione tecnica nelle agilità e nelle cadenze ad una ricchissima tavolozza espressiva, fatta di colore e calore, fraseggio, accento, ma anche astrattezza (che non significa asetticità), malinconia, bellezza e gusto. Oggi invece, mentre il testo presentato è generalmente completo e corretto (anche se persistono tagli e aggiustamente per i quali magari, si inventano giustificazioni filologiche), si assiste ad un vero e proprio sfacelo dal punto di vista interpretativo. Le voci sono piccole, sbiancate, secche. L’emissione è sforzata, difficile. I fiati sono corti. Il fraseggio e il colore è rigorosamente bandito. Le agilità sono farragginose e (soprattutto per le voci maschili) ridotte ad una poltiglia sonora inascoltabile.
Chi soffre maggiormente sono i ruoli maschili: mentre soprani e mezzi seppur nel modo che ho descritto prima, comunque “cantano”, tenori e bassi emettono suoni che nulla hanno a che vedere col canto. Se poi si aggiungono i gravi problemi di pronuncia (tipici delle odierne produzioni e testimonianza evidente del disinteresse nei confronti della voce che caratterizza i sedicenti specialisti) il risultato è sconsolante. Discorso a parte per i falsettisti, vero feticcio della nostra epoca (e vera ed autentica sciagura), e che io non considererei neppure come cantanti, in quanto matematica negazione del canto e della correttezza anche filologica (lo stesso Handel non voleva i controtenori nelle sue opere), la cui presenza in produzioni e incisioni mi porta spesso a soprassedere all’acquisto di cd o biglietti. A fronte di questa povertà vocale, nella nostra epoca di “barocchisti”, vi è poi – come conseguenza o come causa – un ribaltamento dei rapporti tra voce e orchestra, ossia la spettacolarizzazione e la centralità del direttore e della compagine strumentale. E questo in barba ad ogni filologia: i direttori filologi di oggi, infatti, fingono di ignorare che il loro ruolo – all’epoca di Handel e nella prassi del tempo (prassi che loro millantano di seguire fedelmente) – semplicemente non esisteva. All’epoca ruolo centrale l’aveva il cantante, non certo l’accompagnamento. Oggi la situazione è ribaltata. Oggi si va ad ascoltare l’Alcina di Curtis, o di Christie, o di Jacobs, con le loro orchestre di falsi strumenti originali, mentre i cantanti impiegati passano in secondo piano. Questo mutamento di prospettiva ha portato alla degenerazione attuale del canto (di quello barocco, ma anche di altri generi), questo perdere di vista la voce e la sua emissione, a tutto vantaggio di un contorno chiamato a supplire le mancanze del “piatto principale”. Perchè tutto è collegato in una sequenza di cause/effetti che a partire dalle mende tecniche (dovute a studio mancante o scorretto) porta all’appiattimento interpretativo, all’impoverimento vocale, alla conseguente sottolineatura del mero accompagnamento come elemento centrale e protagonista, sino all’accettazione cieca di questo modus da parte del pubblico. Non a caso ci si è prontamente dotati di nuove regole esecutive (discutibilissime, ma di fatto discusse da pochi o nessuno): è stato necessario fare tabula rasa di tutto ciò che è venuto prima, per evitare confronti imbarazzanti e per non lasciare alternative. I risultati sono sui nostri scaffali (o a teatro). Cantanti che avrebbero potuto fare un’onesta carriera di comprimariato vengono proposti in ruoli di primo livello, in ruoli che erano appannaggio di divini e divine. Oggi ascoltiamo, o meglio subiamo, senza batter ciglio o quasi l’Alcina della Di Donato e della Prina in ruoli che furono affrontati dalla Sutherland e dalla Berganza. Ascoltiamo inerti e zitti, dei “capponi” dalla voce artefatta (come in uno spettacolo di Drag Queens a Las Vegas) che cantano Giulio Cesare o Rinaldo. Tra breve i suddetti capponi sbarcheranno in Rossini (alla faccia di ogni filologia, dato che il pesarese non scrisse mai o quasi per castrato), con i risultati terribili che neppure voglio immaginare. Fino a quando andrà avanti? Quando si alzerà qualcuno, dalla massa dei plauditores a gridare che il Re è nudo, che la favoletta è finita?


5 pensieri su “Handel, Alcina e la finta rinascita del teatro barocco.

  1. Lodevole iniziativa quella di creare un blog dedicato agli hobbisti dell’opera: davvero non esiste svago migliore di questo! Ma mi permetto di suggerire una maggiore attenzione ai contenuti di alcuni post. Post che se certo vibrano di entusiasmo da hobbisti, tradiscono in questo caso (ma anche altrove e, segnatamente, nella pagina dedicata ad Alcina) un partigianismo che rischia di sconfinare nell’incolto e nell’insincero.
    Amare la Sutherland anche quando canta Haendel è legittimo (direi persino inevitabile). Amare Haendel e l’opera barocca (mai etichetta fu più generalista..) è altra cosa.
    Affermazioni quali questa (“in effetti il barocco depurato dalle meraviglie, dal virtuosismo, dalla purezza dell’emissione, dalla malinconia, è poca cosa, noioso assai”) sono sinceramente hobbiste; e questo va benissimo! Ma addentrarsi in una polemica che addita fantomatici “dogmi” e “profeti” del barocco per denigrare fondamentali conquiste estetiche e stilistiche (trentennali) esula da un hobbismo appassionato e maturo per sconfinare in un inappropriato “scrivo anche di ciò che non conosco”.
    “Tempi velocissimi”? Piuttosto, si dirà, rispettosi del ritmo armonico e in accordo con l’articolazione delle agilità. “Mere supposizioni” e “ipotesi”? Di centinaia di partiture conosciamo addirittura le arcate originali.

    1) La rivoluzione interpretativa fondata sulle prassi esecutive originarie (sono molte, non una) non si può sovrapporre tout court alla filologia (che è termine esclusivamente pertinente allo studio del testo).
    2) Se c’è una cosa che questi 30 anni ci hanno insegnato è che non esiste lo stile del belcanto, ma gli stili belcantistici; unico comune denominatore l’astrazione. Riferirsi dunque al canto tutto italiano e ottocentesco della Sutherland per criticare uno stile primosettecentesco, erede del tardo ‘600 (quale importanza aveva ancora a quel tempo l’arte seicentesca della sprezzatura!) è decisamente errato.
    3) Si denuncia il “ribaltamento dei rapporti tra voce e orchestra, ossia la spettacolarizzazione e la centralità del direttore e della compagine strumentale”; è un concetto bizzarro. L’integrazione e la dialettica del canto nel/col tessuto strumentale è prerogativa della scrittura musicale di tutto il barocco. Rinunciarvi sarebbe come ascoltare Wagner eseguito da un’orchestra da café chantant. Canto e accompagnamento sono dunque, anche nel barocco, concetti molto flessibili.
    4)Curtis, Christie, Jacobs. Poi aggiungiamo Minkowski, Rousset, Savall, Herrewege, Gardiner, Hogwood, McGegan, Biondi, Antonini. E’ un po’ un minestrone. Ogni direttore, ogni compagine hanno una propria cifra stilistica, interpretativa ed espressiva e fanno scelte diversissime. Mettere tutto assieme, sotto la stessa etichetta, è un po’ come parificare il Verdi di Abbado a quello di Karajan, quello di Solti a quello di Toscanini.

    Il discorso è inevitabilmente molto complesso e merita molti approfondimenti. Rinnovando i complimenti per il blog, mi limito a segnalare che ho trovato semplicemente maiuscola l’interpretazione della DiDonato, e che il verismo è una cosa così diversa che quando ho letto qui questa parola ho avuto un vuoto d’aria.
    Rispettosi saluti

  2. Grazie del puntuale post.
    Noi però crediamo nell’esistenza di una tecnica di canto unica, una soltanto, quella che si definisce ITALIANA, che dai castrati discende direttamente ai grandi belcantisti dell’800 sino ad esempi di perfezione tecnica come la Sutherland. Quella tecnica decantata dai trattati e dalla letteratura vocale dell’ottocento del suono sempre uguale, omogeneo in tutta la gamma, mai fisso, con agilità mai aspirate, nitide, sgranate e di forza laddove occorre.
    Non esiste una molteplicità di stili belcantistici al di fuori di questa tradizione vocale italiana, scuola che il canto della Sutherland alla perfezione ha incarnato, e che resta a tutt’oggi la sola che consenta la perfezione esecutiva, completa di ogni nota e di ogni segno di espressione.
    Gli adepti delle “altre” scuole, per un verso od un altro, mai possono vantare o l’omogeneità della voce ( questa in particolare ), o la corretta esecuzione delle note e della dinamica ( cui è premessa il controllo assoluto della voce ).Le differnze stilistiche non hanno nulla a che fare con le differenze tecniche nel canto: una grande tecnica vocale consente alla voce di essere flessibile e di adattarsi a diverse esigenze stilistiche.
    Del resto, non saprei indicare un solo nome di artista che canti con tecnica diversa da quella suddetta e che sia in grado di ottenere la stessa qualità esecutiva di quella dei cantanti della cosiddetta “scuola italiana”.
    Capisco che alla Gaia Baraonda possa venire un vuoto d’aria a leggere le mie obiezioni sulla Di Donato, mi rendo conto. Ma chi è cresciuto nella belcanto renaissance soffre nell’udire suoni ghermiti nel belcanto, perchè per definizione il belcanto è il luogo del suono mordido, rotondo e mai forzato o sforzato. Se così non fosse ci ritroveremmo ad avvallare le esecuzioni barocche delle Oralia Dominguez ( vi invito al riascolto della sua Bradamante veneziana e a confrontarla con le moderne e filologiche Bradamante…), delle Sinclair…etc e a non poterle in nulla distinguere da quelle di elegantissime vocaliste, dalla perfetta emissione, come la Berganza etc..

    Quanto alla moderna filologia direttoriale, nessuno la tocca. Semplicemente si rileva che da sola non basta, e che questi insigni filologi di canto assai poco capiscono in generale, perchè nulla o poco sanno di tecnica vocale e della sua storia. Una filologia dell’opera barocca astratta dalle cognizioni vocali minimali produce solo ciò che oggi vediamo: la trasformazione del canto più strumentale, e quindi più tecnico per definizione, nel rifugio professionale di cantanti che al di fuori di questo repertorio nulla possono cantare. Il che non dovrebbe essere, essendo provata la filiazione vocale del belcanto italiano di inizio ottocento da quello barocco.

  3. Rispondo volentieri alla contestazione di Gaya Baraonda. Prima di tutto – e mi scuso anticipatamente se ciò può sembrar polemico, ma credimi non è intenzione – chiedendoti di evitare giudizi di merito circa le conoscenze tecniche di chi scrive, attribuendo patenti di “incolto” o accuse di “insincerità”. Questo soprattutto per non svilire i toni di una conversazione che, a nche se da punti di vista opposti, può e deve essere civile e rispettosa. Essere hobbisti non vuol dire essere “idioti”, significa solo che nella vita magari si fa altro, ciò però non esclude avere conoscenza approfondita della materia (magari conseguita ad anni di conservatorio e studi specifici). Detto questo torniamo a noi…

    La mia considerazione sul modo odierno di suonare e cantare il barocco è giocoforza generalizzata, ecco perchè non mi è parso il caso di andare a differenziare le varie anime e scuole della musica cosiddetta barocca.

    Tu contesti certe mie affermazioni, e la cosa non mi stupisce, ma, se leggi bene ciò che ho scritto, capirai che non sono il frutto di frenesie o visioni, ma di studio e riflessione.

    Andiamo con ordine.

    1) contesti la mia affermazione circa la necessità che il canto barocco debba suscitare meraviglia (attraverso l’esibizione esteriorizzata e astratta di un virtuosismo vocale portato all’estremo), ma non ne comprendo il motivo. L’estetica barocca è precipuamente caratterizzata dalla meraviglia, dall’esuberanza, dalla ricchezza. Nell’opera ciò è garantito dal cantante, vero fulcro del genere, ben più del compositore. E questo credo sia indubitabile. Nulla quindi di “hobbista”, ma semplice realtà storica. Del resto vi sono migliaia di prove di tale ricchezza.

    2) contesti la mia affermazione circa i tempi oggi velocissimi. Ebbene, ribadisco, sono teoremi e teorie di una certa generazione di studiosi (in reazione alla precedente scuola di romanticizzazione del barocco, che impose tempi pesanti e organici mahleriani), oggi tale impostazione originale è contestata dai più, tanto che i tempi vanno rilassandosi nelle più recenti incisioni.

    3) ribadisco poi che in tale disciplina dogmi, profezie e rivelazioni hanno imperato per decenni, e vennero imposti come l’unica prassi esecutiva. Anche questa idea appare oggi ridimensionata, dalle tante nuove voci che affrontano il genere.

    4) non nego assolutamente il valore delle ricerche filologiche svolte negli ultimi anni, se avessi la bontà di meglio leggere il mio intervento lo avresti rilevato: dico che accanto a questa grande e maggior attenzione per il testo e la prassi, vi è stato un’inspiegabile impoverimento del modo di eseguirlo, ancorato a stereotipi pratici tutti da dimostrare. E mi spiace per te, ma è spesso così.

    5) la mia frase sul rapporto cantanti/direttori è stata da te volutamente fraintesa, per dar credito maggiore alle tue posizioni. All’epoca dell’opera barocca il direttore d’orchestra era figura inesistente, oggi le superstar delle produzioni sono proprio i direttori. Non lo trovi un ribaltamento? All’epoca al centro vi era il divo/diva, oggi il direttore. E’ innegabile. Non intendo assolutamente negare il valore dello strumentale barocco, tutt’altro. Nè dell’apporto direttoriale, ma da sè non può bastare, e puntare tutto sul direttore super star è FILOLOGICAMENTE scorretto

    6) ho accomunato i direttori per comodità espositiva, ben conscio delle diverse attitudini esecutive.

    7) sulla tecnica di canto, invece, sono convinto, come Giulia Grisi, che ve ne sia solo una, al cui interno vi sono tanti e differenti stili, ma la scuola italiana è nel canto imprescindibile, come la sua tecnica. E’ la stessa filologia ad ammetterlo (Handel scriveva per cantanti italiani, non per declamatori ante litteram).

    Comunque sono d’accordissimo con te sul fatto che sia discorso complesso e che necessiti approfondimenti.

    Un saluto.

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