Don Pasquale a Torino

Ci siamo domandati l’opportunità o meno di stendere e proporre una recensione sul Don Pasquale, radiotrasmesso ieri sera. Dall’ascolto abbiamo ricavato solo una dispepsia. Inutile.
Il Don Pasquale torinese potrebbe essere risolto con poche e sbrigative parole: un direttore, che dobbiamo imparare a considerare un grande, un insipido protagonista ad onta del materiale vocale, uno sguaiato e sgraziato dottore Malatesta, una Norina anche’essa insipida e vocalmente periclitante ed un Ernesto, che siamo stanchi di attendere grande tenore, perchè le mende tecniche sono sempre le medesime.

Siccome si dissente dagli applausi (non tanti, man mano che la serata progrediva ed arrivavano le pagine clou) che la radiotrasmissione ci ha offerto è dovere spiegare la nostra delusione.
Tutti sanno o dovrebbero sapere che Don Pasquale vide la luce la sera del 3 gennaio 1843 agli Italiani di Parigi con un cast (Grisi, Mario, Lablache, Tamburini) che esprimeva il massimo o quasi dell’arte canora italiana. Quando pochi mesi dopo la Scala propose il titolo donizettiano non eguagliò minimamente il quartetto di protagonisti parigini. Don Pasquale è una sorta di elegante divertimento (come agli Italiani era considerato il Matrimonio segreto) che consente di schierare il meglio dell’arte vocale ed interpretativa applicata non già al genere serio, ma a quello buffo. Anche se di questo genere Don Pasquale è una ipostasi più nominale che reale. Assunto questo arcinoto, ma che serve per avere le coordinate che l’esecuzione deve avere per dirsi rispettosa dell’autore e della sua poetica. Devono quindi prevalere gli accenti languidi, dolci, raffinati contrapposti, quando la situazione lo richieda, al ritmo frizzante.
Il tutto a Torino molto teorico perchè abbiamo sentito un’ouverture staccata a tempo veloce, con l’enunciazione metronomica e meccanica del tema della serenata di Ernesto e una altrettanto meccanica enunciazione del tema di Norina, per tacere del fragore dei vari crescendo, una introduzione rapida e sbrigativa alla grande aria di Ernesto “Cercherò lontana terra”, una serenata meccanica e frigida nei momenti di concitazione, tipo stretta del duetto Norina-Malatesta “Vado corro”. Il vivace del finale secondo, il coro dei servitori (che contiene una sezione centrale languidissima ed ironica al tempo stesso) e la stretta del duetto Don Pasquale-Malatesta: tutte solo fragorose. Il tempo veloce non obbliga al fragore. Anzi amministrato dal grande direttore evita il fragore. Due chiose l’una circa l’introduzione dell’aria di Ernesto con assolo di tromba: un cantabile di estrema raffinatezza, languore e malinconia, tutto giocato sul legato e sulle tinte del piano, con moltissime indicazioni d’espressione a segnare le frequenti eppur brevissime salite ad un forte appena accennato, e che subito ritorna alla dolcezza del piano iniziale: brano che permette all’esecutore che ne è in grado, di accentuare il lirismo e l’abbandono malinconico con rallentandi e libertà agogica, nulla di tutto ciò si è ascoltato provenire dalla buca del Regio, dove al languore si sostituiva la sbrigatività, alla dolcezza un perenne e monotono mezzo forte, alle legature la genericità e la piattezza, per di più con alcune evidenti defaillances nel tempo e nell’intonazione; l’altra al duetto Don Pasquale – Malatesta dove un direttore che passa per rigoroso e forbito ha tollerato un paio di gigionate dei cantanti. Preciso nulla rispetto a quanto anche nel passato recente è stato offerto in Don Pasquale, spesso trasformato in farsaccia. Farsaccia ove, però, poteva capitare si esibisse il gotha dei tenori cosiddetti di grazia come Sobinoff, Bonci, Anselmi, Schipa, Valletti, Kraus, per restare a quanto inequivocabilmente documentato. Ma erano, appunto, altri tempi. Gli attuali sono differenti. E proprio perchè tali dobbiamo chiederci perche mai un direttore come Mariotti non abbia provveduto ed imposto a tutti gli esecutori (coppia di amorosi e Malatesta in primis) cospicue ed acrobatiche varianti, ossia continue e costanti variazioni di dinamica ed agogica. Come si eseguisse Don Pasquale cinquant’anni dopo la prima è documentatissimo. E le indicazioni di rallentando contenuto alla sortita di Norina non sono certo le sole che venissero proposte all’epoca. Diciamo: strano!
Fa piacere che il title role venga affidato ad una voce di basso autentica: Roberto Scandiuzzi. Autentico basso fu il primo protagonista. Mi rifiuto di credere che Luigi Lablache, benchè in fase calante nel 1843 emetesse opachi e stonati re acuti, avesse la voce “indietro” ed opaca nei pochi tentativi di smorzare (vedi sia duetto con Norina che con Malatesta all’atto terzo). E poi abbiamo il problema del sillabato, mezzo espressivo cui Don Pasquale ricorre di frequente e che Scandiuzzi non esegue mai in maniera decente. Scusate non si capisce una parola.
Il dottore Malatesta fu pensato per Antonio Tamburini, anch’egli a fine carriera. Rimaneva, e si capisce, un esimio virtuoso ed un cantante elegante e raffinato. Quindi Donizetti gli affidò quartine e terzine nella stretta del duetto con Norina “ah quel vecchio” nell’entrata al finale secondo. Il tutto eseguito da Viviani in maniera neppure scolastica. Nè le cose vanno meglio con l’andante “Bella siccome un angiol” elegiaco, dove Tamburini era chiamato a fare la parodia al Tamburini grand seigneur e dove Viviani è piatto e bercia il modesto fa acuto che conclude la cadenza. Semplice, semplice, quest’ultima.
Per essere chiari Malatesta deve esprimersi come Giuseppe de Luca e più ancora Antonio Scotti nel duetto anno 1906 che quest’ultimo incise con la Sembrich.
E veniamo alla coppia amorosa. Norina, gran dama, che più d’ogni prima donna buffa si esprime con le metafore della vocalità rossiniana, quella che Giulia Grisi praticava quotidianamente, ha subito l’accento inerte nei recitativi, le agilità spannometriche, gli acuti sistemanticamente spinti, forzati e calanti di Serena Gamberoni. Preciso che gli acuti vengono sempre raggiunti dopo volate e arpeggi ossia nella maniera più comoda, secondo i dettati belcantistici, per emettere un bel suono. Ricordo che all’epoca della prima rappresentazione scrissero che le volate di Madame Grisi avevano la forza e la penetrazione di quelle eseguite da Liszt al piano. Qui, grazie a Serena Gamberoni, eravamo al “mio primo Liszt”.
Quanto a Francesco Meli è scontato assumere che in natura abbia un timbro bellissimo. Preciso che spesso i cantanti di “bella voce” sono inerti e poco attenti al fraseggio, ma non ammanniscono quanto ammmannito, ier sera, da Francesco Meli. Ossia difficoltà costante nel reggere la tessitura acuta che costringe ad abbassare l’aria del secondo atto, ad eseguire senza da capo la cabaletta seguente, a cantare a squarcia gola “sogno soave e casto” e la serenata (che non evoca la frescura notturna del giardino romano, ma un assolato campo di cocomeri dell’agro pontino di mussoliniana bonifica) ossia ad emettere falsettini smunti e nasali al “tornami a dir che m’ami”. Ed anche accomodato quanto a tonalità il larghetto del secondo atto è piatto, monotono, nessuna dolcezza, nessuna malinconia, nessuna elegia. Tolto questo ad Ernesto rimane nulla del personaggio ideato da Donizetti per esaltare il grande Mario.
I motivi di questo risultato li abbiamo detti, rilevati altrove e sempre in occasione di opere di Donizetti, pure di tessitura centrale e consona al signor Meli. E, poi, giustamente non interessano.
Al massimo perderemo un tenore da primo ottocento e, per qualche anno, avremo un muscolare don José, Mario Cavaradossi e forse anche Canio, Turiddu, Chenier e Loris sino ad un Pollione di sapore mascagnano. Non ce ne sono solo i presupposti, ma le più serie intenzioni, come comprova un concerto londinese del marzo scorso.

Gli ascolti

Donizetti – Don Pasquale

Preludio – Thomas Schippers (1956)

Atto I

Pronta io sonRoberta Peters & Frank Guarrera (1956)

Atto II

Povero ErnestoGianni Raimondi (1957)

Atto III

Signorina, in tanta frettaSesto Bruscantini & Luciana Serra (1985)

Tornami a dir che m’ami Maria Ivogün & Karl Erb (1917)

6 pensieri su “Don Pasquale a Torino

  1. Cari amici, prendo spunto dalla vostra recensione al Don Pasquale torinese per fare una considerazione di ordine generale; del resto, sull’occasione particolare non potrei dire nulla, non avendo ascoltato questo Don Pasquale né dal vivo né per radio. Le vostre analisi sono sempre interessanti; e tuttavia sembrano avere tutte un presupposto che io non condivido. Non si tratta tanto dell’adorazione per il passato, che molto spesso vi viene rimproverata, quanto di un atteggiamento eccessivamente analitico che non tiene conto della totalità dell’esecuzione. Mi spiego. Io credo che, quando si valuta un’esecuzione, ciò che conta è cercare di cogliere l’idea portante di un’interpretazione, il centro attorno a cui tutto si organizza e viene alla luce. Nei casi in cui questa idea c’è ed ha abbastanza forza per arrivare a chi ascolta, i difetti di un cast, le intenzioni non realizzate, perfino la tecnica periclitante di alcuni elementi sono fattori destinati a rimanere in secondo piano. Io, che non sono milanese e frequento soprattutto il teatro Comunale di Firenze, mi ricordo un Macbeth diretto da Muti negli anni Settanta, i cui protaginisti (Mario Petri e Gwyneth Jones) non erano certo ciò che uno poteva aspettarsi di meglio dal punto di vista vocale. Eppure talmente prepotente era l’idea di fondo portata avanti dal direttore che la voce fioca di Petri e quella aspra della Jones servivano egregiamente al progetto globale. Lo stesso potrei dire per la Cenerentola diretta da Abbado al Maggio del ’71. L’unica cantante in regola era la Berganza; eppure, che Rossini fu quello! Tutto il teatro era elettrizzato; sono sicuro che non si trattava di un pubblico deviato dai mezzi di comunicazione di massa. E l’Albanese nella Traviata di Toscanini? Certo, da un punto di vista vocale è pessima. Ma lo stesso Celletti riconosceva che c’erano dei punti in cui, incalzata da un’orchestra priva di pietà, la voce dell’Albanese era commovente e straziante nel senso migliore del termine. Io per mestiere faccio lo storico della filosofia. Che possiamo farci dei libri perfetti, in cui si dice tutto quello che si deve dire, ci si inserisce perfettamente nel dibattito in corso, ma non c’è mai un’idea coraggiosa? Preferisco di gran lunga
    libri pieni di difetti, magari anche di errori, nei quali tuttavia qua e là occhieggia e riluce la perla dell’originalità. Ecco, mi sembra che anche nelle vostre recensioni la nostalgia della perfezione, da ricercarsi in un qualsiasi luogo della memoria del passato o della speranza nel futuro, impedisca di cogliere quell’originalità che sempre si fa strada nella via dell’imperfezione.
    Saluti da Marco Ninci

  2. grazie per il bellissimo post!
    il passato non è affatto perfetto.
    Nel recensire poi entrano in gioco criteri e gusti personali. Per parte mia non riesco a vedere un’esecuzione apprezzabile senza una corretta esecuzione vocale. Per andare a Cenerentola il cattivo canto di Montarsolo (che davanti ai buffi di oggi era Filippo Galli) con la complicità della bacchetta di Abbado snatura Rossini. Poi ti posso anche aggiungere che sopportavo Montarsolo e credo anche Capecchi pur di sentire la Berganza.
    Credo che questo modo di valutare nasca da quarant’anni, ormai, di ascolti sia in disco che dal vivo, che mi hanno convinto che solo il saldo possesso della tecnica consenta certi risultati. Almeno sino al primo Verdi. E quindi posso capire la validità della Violetta di Licia Albanese, ma il Verismo inarrivabile dell’Olivero piuttosto che di Pertile nasce dalla sola tecnica. Tecnica che sia chiaro non è fine a se stessa, ma assolutamente strumentale.
    Vedi quando vent’anni fa gg e dd andavano all’opera non pensavano di sentire la perfezione. Preferivamo magari Martine Dupuy a Lucia Valentini, la Bumbry alla Cossotto, ma non ci siamo mai sognati di dire che quelle ed altri cantanti fossero costantemente impreparate, sostenute da una stampa sorda e cieca e che il pubblico fosse costantemente narcotizzato da pubblicità ingannevoli, damnatio memoriae e tutto quel repertorio che criticando e censurando ben so ci rende “simpatici”.
    Se però la situazione non fosse quella che è oggi grazie a quelle situazioni, che hanno allietato i venerdì trascorsi, mai ci saremmo sognati di rendere pubbliche le nostre opinioni. Ce le saremmo tenute per noi, come piacerebbe molto a molti.
    Quanto alla Traviata di Toscanini, per fare un po’ gli appassionati perchè questo siamo posso dirti che contiene la più bella festa in casa di Flora perchè Toscanini rende perfettamente l’idea della volgarità della situazione.
    Comunque ti preannunci che Verdi e le sue bacchette saranno argomenti di riflessioni prossime, che come nostra “mania” partiranno da più di un secolo fa.
    ciao e veramente grazie molto per il tuo intervento. Mi auguri di leggerne molti e frequenti

    dd

  3. Marco io concordo con tutto quello che dici. Ma c’è una frase chiave del tuo ragionamento e cioè “Nei casi in cui questa idea c’è ed ha abbastanza forza per arrivare a chi ascolta…” che fa da discriminante. Il problema è proprio questo. Spesso non esiste (secondo me) un’idea così forte da far superare i difetti che ci sono in tutte le esecuzioni (del passato e del presente). Di fronte a certe “piattezze” di oggi non si può davvero non notare ed analizzare in maniera pignola i problemi puramente “esecutivi”. Non c’è nulla, per intenderci, che riesce a focalizzare l’attenzione su altro.

  4. Quì è stata nominata la perfezione e devo proprio intervenire : ieri pomeriggio ho ascoltato poco più di quattro ore di canto cioè due CD del baritono Hans Reinmar e due CD del tenore Hans Hopf. C’era di tutto, dall’opera italiana a quella tedesca passando per quella francese, partendo da Mozart passando da Auber per arrivare fino al verismo. Non ho sentito un solo suono che non fosse perfettamente a fuoco e immascheratissimo. Zero gola. Legato sempre impeccabile, agilità granite e scorrevoli, acuti timbratissimi, messe di voce e smorzature da manuale, espressività a fior di pelle ma sempre elegante e risolta nel canto, non ho trovato un difetto che sia uno( magari poi sono io che non li ho sentiti e c’erano, che ne so!). E se non percepisco difetti io la chiamo la perfezione.

  5. Sono stato alla recita di domenica 19. Certo quando leggo certe opinioni (per carità liberissime) mi chiedo se chi le esprime, comunque, ha idea di quello che va ad ascoltare o se il fatto, di per sè, di assistere ad uno spettacolo con alcuni fra gli interpreti più conclamati di oggi fa perdere di vista la realtà. Un Don Pasquale appena mediocre come questo lascia molto perplessi. Un tenore dalla splendida voce ma che non riesce a dare una svolta alla sua vocalità e alla sua idea del personaggio, un soprano dal timbro ingrato, fisso, stonacchiante e corto, un basso che è vera voce da basso ma che si impantana continuamente. Io non ci capisco più nulla.
    Direzione inutile e metronomica e baritono (peccato) ancora da maturare e parecchio.
    Mi spiace molto per Meli che non riesce a superare certi limiti vocali e tecnici. Un tenore che si rifugia continuamente nei falsetti che abbassano la qualità di un timbro baciato da Dio e che corre (per sua foruna) NATURALMENTE. Chissà se riuscirà a stupirci (superando i problemi sul registro acuto) e non buttandosi su un repertorio che lo condurrà a problemi ben più grandi di quelli che ha oggi. Io lo spero di tutto cuore.
    Degli altri (penso soprattutto al soprano) ne posso fare tranquillamente a meno.

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