Omaggio a Handel: 14 aprile 1759 – 14 aprile 2009

Il 14 aprile del 1759, all’età di 74 anni e dopo una vita di trionfi, si spegneva nella sua residenza londinese di Brook Street, George Frideric Handel (secondo la grafia anglosassone). Nato tedesco della Sassonia, coetaneo di Bach, affinò la sua formazione musicale in Italia, ma trovò la propria terra d’elezione in Inghilterra, di cui divenne ufficialmente cittadino nel 1727 per diretto interessamento del sovrano, Giorgio II. Il Caro Sassone (come venne ribattezato nei suoi soggiorni italiani) fu per quasi mezzo secolo l’astro assoluto, il riferimento fondamentale della musica e del teatro barocco.
Oggi sono passati 250 anni dalla sua morte e il bel mondo della musica si accinge a celebrare con sobria e moderata pompa l’evento: sobrietà e moderazione che stridono un poco con l’essenza della meraviglia barocca di cui Handel fu campione, ma tant’è…il Nostro non gode certo dell’appeal mediatico di un Mozart o di un Beethoven. Certo non mancheranno iniziative editoriali e discografiche (stampe e ristampe del meglio o del peggio – più spesso – che la discografia dell’autore rende disponibile) o una maggiore attenzione nel programmare lavori handeliani nelle stagioni d’opera e di concerti, non mancheranno neppure i soliti festival (almeno 4 i principali e più blasonati: Gottingen, Halle, Londra e Karlsruhe), ma rimarrà pur sempre una celebrazione di nicchia: priva di clamori e furori e fuori dalla portata del pubblico più vasto che – a causa di scelte sconsiderate e miopi di politica culturale – ignora bellamente Handel e la sua fondamentale importanza, o al massimo ne associa il nome a qualche brano, segnatamente a uno solo: l’Hallelujah, senza peraltro conoscerne contesto e valore (con esiti talvolta grotteschi: ricordo un Messiah milanese di circa un anno fa, quando il pubblicò iniziò ad applaudire il brano durante la pausa prima degli accordi finali…). E pensare che Beethoven lo definì “il più grande compositore che sia mai vissuto”. L’Italia, naturalmente, resta ai margini della doverosa celebrazione (e certo da un paese e da una pretesa élite culturale che non riesce a omaggiare decentemente neppure Puccini, non ci si poteva certo aspettare uno sforzo e una riuscita maggiori): pochi titoli – alcuni dei quali prudentemente cancellati – inseriti in cartelloni incerti o con cast sulla carta insufficienti, oppure incastrati malamente in eventi che poco avrebbero a che fare col Nostro (l’assurdità di un Festival Monteverdi che quest’anno, salvo qualche madrigale di passaggio, NON presenta alcun lavoro dell’autore cremonese, ma che in compenso propone due oratori di Handel – La Resurrezione e Israel in Egypt – e i concerti per organo: splendida iniziativa per carità, ma bisognerebbe decidersi, una buona volta, a fare una seria politica culturale, fatta di scelte, di identità e di certo repertorio, piuttosto che prendere la palla al balzo e trasformare eventi che DOVREBBERO avere una certa e determinata connotazione territoriale e musicale, in spazi aperti e buoni per tutte le stagioni a riempire buchi che i nostri teatri non riescono o non vogliono curare. E la stessa cosa, tra l’altro, accadde l’anno scorso, sempre a Cremona, con le celebrazioni vivaldiane). Insomma l’Italia resta ai margini. Ma ai margini di cosa? C’è una vulgata per cui oggi, soprattutto oltralpe e oltre Manica, il barocco in generale e Handel in particolare, starebbero vivendo una nuova età dell’oro. Certo scorrendo i titoli proposti in tanti teatri e sale da concerto in Francia, Inghilterra, Germania, Austria e fin nei freddi paesi scandinavi, non si può che notare un effettivo trionfo del genere e dell’autore. Ma purtroppo di trionfo non si tratta, poichè manca di un elemento fondamentale: il trionfo del canto barocco. Oggi tutti insistono, spiegano, insegnano la nuova filologia, le conquiste della prassi d’epoca, l’utilizzo dei period instruments, il diapason a 415 Hz, la ritrovata teatralità dell’Opera Seria, etc…; oggi tutti ci mettono in guardia dal ridurre Handel al mero canto o alla mera esibizione vocale, anzi, addirittura per taluni questi sono elementi superflui, inutili, persino dannosi. C’è pure chi mette in guardia da chi ricerca la meraviglia nella musica barocca o che pone al centro della stessa il cantante e il suo ruolo di creatore dell’opera (quasi alla pari del compositore: e basterebbe leggere le fonti coeve, le cronache, le biografie per avvedersi dell’esattezza dell’assunto). Eppure questa meraviglia è l’essenza stessa di quella musica (come lo è dell’architettura e della pittura dell’epoca). Ovviamente essa non si riduce al “teatro delle piume in testa e dei guardinfanti” (cito una nota rivista del settore che diffida i suoi lettori dal considerare attendibile “l’inutile starnazzare” di chi pone sempre “l’eterno esempio delle Sutherland e delle Horne – quando addirittura non sono le Stignani e le Barbieri – contro l’impiego dei controtenori o in genere delle prassi esecutive odierne” – per chi voglia verificare le fonti: Elvio Giudici sull’ultimo numero di Classic Voice – è curioso, peraltro, che alla stessa penna, siano attribuibili altre e diametralmente opposte considerazioni, in merito al barocco, ora tanto disprezzato, della Sutherland e della Horne: forse sarà l’ansia di seguire mode e convenienze, ovvero un continuo autorevisionismo delle proprie opinioni per inseguire certe correnti che oggi van per la maggiore, tuttavia mal si conciliano con questi ultimi citati certi suoi giudizi, ormai risalenti a qualche anno fa a dir il vero, e contenuti nel volume dedicato all’opera in cd e video, in particolare si guardi l’introduzione all’autore, la Rodelinda e il Rinaldo…ma per le polemiche è opportuno rinviare ad altro luogo e ad altro momento), nè significa negare valenza drammatica alle opere di Handel, nè vuol dire abbarbicarsi su posizioni di vuoto conservatorismo per partito preso! Tutt’altro! Ovvio però che se manca il canto e il cantante, se manca la bellezza e l’appagamento estetico di musica e voce, se manca il bel suono, si potrà avere la regia più interessante e stimolante (e di ciò mi permetto di diffidare), la prestanza fisica di soprani, contralti e sopranisti da copertina, il protagonismo di direttori e musicisti, vestali di nuove ideologie e fedi esecutive (mistici o eretici che siano, ma comunque sempre privi del senso del dubbio), si potrà avere di tutto e di più, ma non funziona punto. Handel (come Rossini, Verdi, Bach, Mozart, Strauss) senza uno strumento che ne interpreti i messaggi, rimane un’ombra – splendida e gloriosa, certo – ma un’ombra pallida. E oggi si prende quest’ombra come simulacro autentico di ciò che era e dovrebbe essere, e si relega all’ignominia della falsificazione tutto il resto (le Sutherland e le Horne ad esempio). In Europa piace così, ai nostri critici più chic pure, nei salotti più impegnati anche, noi, forse, preferiamo un Handel meno per intellettuali à la page e che parli con la musica e con la sublime bellezza delle sue costruzioni vocali. Certo è più difficile, impegnativo, scomodo, ma ritengo e riteniamo che solo nell’universo della musica (che è tanto vasto quello esplorato dal Caro Sassone) si debba rendere omaggio al più grande astro del barocco musicale. Bernard Shaw scrisse: “Ogni Inglese crede che Handel ora occupi un’importante posizione in paradiso: se è così, le bon Dieu dovrebbe sentirsi davanti a lui come Luigi XIII dinanzi Richelieu”, viene da dire che oggi più che mai, nonostante gli ipocriti omaggi, Handel (così come Richelieu) è oggetto di congiure e trame: ma così come allora non scalfirono il potere del cardinale (che morì tranquillamente nel suo letto), anche oggi non potranno oscurare la somma grandezza di George Frideric Handel.

Gli ascolti

G. F. Händel

Serse
Atto I – Ombra mai fu Kirsten Flagstad (1948), Ebe Stignani (1948)

Alessandro
Atto I – Lusinghe più careMarcella Sembrich (1907)

Flavio, Re de’ Longobardi
Atto II – Chi può mirare Zara Dolukhanova (1958)

Rinaldo
Atto II – Lascia ch’io pianga Ernestine Schumann-Heink (1906)

Joshua
Atto III – O had I Jubal’s lyre Lilli Lehmann (1907)

Rodelinda
Atto I – Dove sei Marilyn Horne (1971)

16 pensieri su “Omaggio a Handel: 14 aprile 1759 – 14 aprile 2009

  1. Va bene mettere al primo posto la suprema bellezza della voce… Ma non a discapito dello strumentale, che in Haendel è ugualmente fondamentale… L’accompagnamento alla Sembrich è semplicemente ridicolo, e riduce la meravigliosa musica haendeliana a un carillon di viennese memoria… Siamo ugualmente di fronte a un pallido simulacro… Tra il pallido simulacro antico e quello attuale, a questo punto, “sceglier non saprei”. E poi, se vogliamo parlare di fatto meramente vocale, la voce della Sembrich è in più di un punto fissa (quasi quanto quelle ‘baroccare!), in altri pigolante.
    Io tutta questa meraviglia di voce e di suono, francamente, nella Sembrich non la vedo (sento!). Il vostro mi sembra un atteggiamento in tutto assimilabile a quello da voi tanto stigmatizzato, ovvero l’atteggiamento del critico che – per affossare il presente completamente inadeguato – issa un modello che, però, non credo sia elevabile a paradigma assoluto (almeno ad un ascolto realmente oggettivo… Più volte avete sostenuto che la voce della Sembrich è un modello assoluto di perfezione canora; io tutta questa perfezione, francamente, non la vedo, o meglio non la sento!), dato che il gusto muta con il tempo (e questo è un fatto… Potrà non piacere ma è così! Il tempo scorre inesorabile e trascina tutto con sè… Non ostante ci sia chi eleva il suo “gracidar di ranocchio” contro questa inesorabile realtà), per cui nulla è definitivo.
    Non dico che ciò sia bene. Mi limito semplicemente a non mettere il prosciutto sugli occhi di fronte a un dato incontrovertibile.
    Niente da dire sulla Flagstad, la cui voce è una meraviglia. Ma di Serse non c’è nulla. C’è SOLO una splendida voce che canta, in un deserto assoluto, con un accompagnamento da parrocchia, che non rende giustizia alla finezza della musica haendeliana, e che del personaggio non dice NULLA. C’è un canto quasi liturgico nella sua indifferenza espressiva… Peccato, però, che “Ombra mai fu” non sia musica liturgica (non ostante le orride trasposizioni chiesistiche, con parole improponibili come “Oh! Mio Signor!”… Vomitevole!), e quindi un minimo di consapevolezza drammatica il cantante che esegue l’aria deve averla (credo che la Flagstad ignorasse anche il contesto drammatico in cui l’aria si trova ad essere inserita). Vogliamo parlare della Dolukhanova? Ma cosa c’è del Flavio di Haendel? Un’orchestra parrocchiale, tempi improponibili, e poi la lingua (velo pietoso! Davvero pietoso! Mi viene da sorridere nel leggere i vostri strali punitori sul tradimento attuale della musica di Haendel e, ciò non ostante, vedere che sorvolate con tanta indifferenza su altrettanti tradimenti, ugualmente macroscopici; ah, dimenticavo! Non si può… Il passato è SEMPRE meglio, IN TUTTO!). Terribile l’esecuzione del Lascia ch’io pianga. Devo dirlo. Una voce ectoplasmatica, che per ritenerla uscita da un essere umano c’è bisogno di un atto di fede grande quasi come quello che concerne il dogma dell’immacolata concezione. Ma per favore… Farà tanto melomani incalliti, ma – ad un ascolto “nudo e crudo”, privo di se e ma derivanti dai problemi della registrazione, o cose del genere, il risultato è semplicemente ridicolo. Di Haendel non c’è niente. C’è solo una che canta un’aria “celebre” perchè deve cantarla, perchè fa tanto “soprano”: dello spirito “originario” del brano (ammesso che questo sia oggettivamente ricostruibile) non viene fuori assolutamente nulla. Lascio da parte la Lehmann, perchè davvero quello che si “ascolta” è a stento assimilabile alla musica. Saranno certamente state delle grandissime cantanti, ma da queste incisioni emergono solo delle voci fisse, pigolanti, piccole, con suoni a tratti sgradevoli in alto, a tratti aperti in basso, con pronuncie ostrogote, e con una indifferenza espressiva prossima allo zero assoluto.
    Se volete proporre dei modelli, attenetevi a maestre come quella dell’ultimo brano postato. A posto della Sembrich non era meglio una Sutherland (le avete spesso paragonate! Io, francamente, questa somiglianza non la vedo proprio. La Sutherland è un’apoteosi di suoni meravigliosi. La Sembrich una pallida ombra di una voce che canta)? A posto della Schumann-Heink, non ci stava di più una Berganza? Mi piace molto, invece, la Stignani, che di Serse, per un fatto meramente timbrico, possiede la regalità, mentre per saldezza tecnica la estatica meraviglia (che il momento drammatico esige per l’aria). Consiglierei l’ascolto dell’Ombra mai fu della Podles, la quale ha però la colpa di non appartenere alla schiera delle mummie anteguerra. Eppure – ciò non ostante – almeno secondo me fa mangiare polvere (e non poca!) a quegli ectoplasmi sonori qui proposti come paradigma assoluto di canto barocco. Per il Lascia ch’io pianga, oltre alla Horne, propongo come confronto la meravigliosa esecuzione della Berganza, oltre che quella della Dupuy, vere e proprie pietre miliari della discografia di tutti i tempi, veri paradigmi, effettivi, e non paradigmi per sentito dire, o perchè appartengono alla notte dei tempi. Se un coccio di una tazza magnogreca giunge fino a noi non significa che quello sia superiore alla Gioconda solo perchè questa è più tarda. La Gioconda sarà sempre la Gioconda, mentre il coccio sarà sempre il coccio.

  2. Ovvio che in Handel è al pari fondamentale l’aspetto strumentale, ma ti chiedo, Velluti: non ti pare mortificato proprio questo aspetto dalle moderne prassi esecutive pseudo filologiche?
    Quando si giudica il passato, poi, bisognerebbe sempre considerare gli aspetti tecnici precari, una certa tradizione esecutiva (principalmente di area germanica) che risente inevitabilmente di suggestioni e forzature. Ovvio: si potevano mettere la Sutherland, la Horne, la Berganza, ma sono già state ampiamente omaggiate (e lo saranno ancora e sempre) da tanti ascolti.
    Parli di suoni fissi (magari dovuti al mezzo di riproduzione precario oppure all’età dell’interprete, colto dagli sviluppi della tecnologia solo in fase calante della carriera), ma che sono rispetto alle deliberate stonature baroccare?
    Parli di pronuncia ostrogota e difficoltà linguistica: ma vogliamo parlare degli specialisti che anglosassoni in particolare che imperversano nella discografia barocca e prebarocca e massacrano la nostra lingua? Ascolta una qualsiasi incisione di Gardiner..
    Poi, per carità, ognuno ha i suoi gusti…
    Ps: nessuno qui adora il passato per puro gusto di polemica…

  3. Caro Duprez, non faccia inferenze… Le voci fisse sono brutte e basta, siano esse dell’anteguerra o dell’era post-cyborg. Entri nel merito delle obiezioni: se dice che il fisso baroccaro attuale è brutto e antifilologico, faccia il confronto con la Sutherland (e non con la Sembrich)! Altrimenti la polemica contro lo status quo si snatura, perde di sostanza, diventa solo un pretesto. Un piccolo post scriptum: tra le esecuzioni mirabili di Ombra mai fu, mi sia concesso mettere quella di David Daniels… Qui si ascolta una voce vibrata, ampia, assolutamente avanti, poggiata sul fiato, e governata da un supremo gusto. Di quei soliti orrori controtenorili, da voi così (ben!) rilevati, nel canto di Daniels, non c’è traccia.

  4. Non faccio inferenza alcuna, caro Velluti…nè voglio sottrarmi (non l’ho mai fatto) a obiezioni e argomentazioni. Solo mi dia tempo per argomentare in modo compiuto.

    Il suono fisso è sempre sgradevole poichè lo ritengo la negazione del belcanto: quello baroccaro (frutto di scelta deliberata, di iedologia, di fede etc.. e spacciato per l’unico e vero e solo modo di eseguire tale musica) però, va giudicato in modo differente. Mi stupisce che da chi ci accusa di assolutismo, venga una visione così assolutistica e poco comprensiva delle ragioni del tempo e della storia. Nel giudicare una voce o uno stile bisogna fare dei “distinguo”: valutare cosa è influenzato dal gusto dell’epoca e dalle suggestioni culturali e cosa invece discende da carenze tecniche o assurde prese di posizione; considerare poi gli elementi e i fattori extra musicali (sviluppi della tecnologia, età anagrafica etc..una testimonianza audio del 1907 è ben differente da un’incisione degli anni ’60); infine l’ambiente: l’Handel “alla tedesca” che trascriveva i ruoli per castrati in chiave di basso o baritono, che eliminava da capo e variazioni non aveva certo la pretesa di essere autentico, era solo un modo (sbagliato certo e talvolta sgradevole) per rendere fruibili capolavori altrimenti dimenticati (come fecero tanti altri: gli arrangiamenti di Mendelssohn e Mozart di Handel, ad esempio, o il Bach rivisto da Schumann, o il Gluck di Berlioz, o il Mozart di Strauss). Oggi invece i baroccari si pongono come unica alternativa possibile.

    Ovvio poi che l’Handel della Sutherland o della Horne sia meglio, ma già era avvenuta la cosiddetta belcanto-renaissance: la Flagstad veniva da un altro mondo.

    Su Daniels non mi pronuncio..diffido dei controtenori soprattutto se usati in ruoli non espressamente scritti per quelle voci. Comunque lo ascolterò e lo giudicherò con serenità

  5. A me i suoni fissi non dan fastidio, né negli strumenti ad arco, né in quelli a fiato e nemmeno nel canto. A me danno fastidio e destano raccapriccio i suoni ingolati, quelli sì che sono la negazione del canto. I suoni fissi di una Sembrich, di una Melba o certi acuti di una Schumann-Heink suonano fissi, ma non sono ingolati, sono sempre avanti, tersi, di risonanza, squillanti. I suoni fissi dei baroccari invece sono ingolatissimi e si sente che costoro contraggono spaventosamente le fauci per ingabbiare il suono ed evitare che vibri. A questo punto viene da porsi la domanda : come mai alcuni cantanti antichi emettevano suoni impostatissimi e squillanti, ma fissi? Personalmente proprio non saprei, è possibile che la tecnica di registrazione dell’epoca non permettesse su certe frequenze (soprattutto quelle molto acute) di captare, e quindi riprodurre, tutte le armoniche della voce poiché il sano vibrato (da non confondere colla voce che balla) è creato dalla richezza di armonici.
    Una allieva della Invernizzi mi diceva appunto di possedere una voce molto vibrante poiché fortemente timbrata dalla grande quantità di armonici, per evitare queste vibrazioni, ben appunto, mi ha raccontato che l’Invernizzi la obligava a tenere tesa la voce nella gola anzichè lasciarla espandere nella maschera, per evitare appunto quella richezza di armonici che conferisco il vibrato ed ottenere così un suono fisso, che la Invernizzi ama definire suono teso. Nessuno ha mai detto alla Invernizzi che nessun trattato di canto antico prevede tali scemenze? Dove le ha fatte le ricerche musicologiche per restituire in tal modo quel che lei definisce il canto barocco? Certo non sui trattati d’epoca! La filologia baroccara rispecchia molto di più il cattivo gusto dei pionieri che l’hanno fondata (inglesi e olandesi in primis), “gusto” che ha dato origine a certe usanze , tipo i suoni fissi nel canto, e tali usanze sono poi state erette a dogma.Intanto quando i baroccari sparano, alla radio o nelle interviste, certe cavolate, il grosso publico, che è ignorante in materia, ci crede e certo non va a verificare sui trattati d’epoca se certe loro affermazioni sono vere o sono il frutto del loro gramo gusto come, fra tante, la castronata di ereggere il 415 a diapason “barocco” per eccellenza, secondo la favola che il diapason cresce nel tempo. Il 415 era uno dei tantissimi diapason dell’epoca, già Pretorius si lamentava di tale anarchia diaposonica. Il 415 come diapason barocco è tanto legittimo quanto il 495 che era utilizzato nel nord dell’Europa. Poichè più si saliva geograficamente e più il diapason si alzava. Chiara Banchini ha inciso, colla sua preoccupazione di “autenticità” uno Stabat Mater di Vivaldi col falsettista e un diapason a 415. Allorchè Vivaldi MAI compose per il falsettista e il diapason a Venezia variava fra il 440 e il 460!!!
    Poi c’era anche la volontà di sentire una musica antica suonare con un suono diverso, straniante, questa diversità di suono dava la patina dell’antico e alla musica barocca un suono “altro” che sembrava risorgere da un passato remoto, come un suono ritrovato. La volontà e forse il bisogno di esplorare un repertorio antico come se fosse un paese esotico e quindi con un suono che si differenziasse a tutti i costi dal suono che comunemente le orchestre tradizionali offrivano. Il barocco dei baroccari è tanto autentico e filologico quanto il medioevo rivisitato dai romantici.
    Sono sempre stato dell’idea che non esiste un modo per essere musicalmente autentici poichè quel che conta è l’essere autenticamente musicali, e la musicalità autentica dipende dal musicista e dal suo talento e non dallo strumento. Che crea la musica è la messa in relazione espressiva dei suoni nel loro succedersi, è l’espressione che si conferisce al brano tramite l’interpretazione, non consiste nel colore del suono in sé stesso, cosa sulla quale tutti i barocchisti insistono parlando di “suono originale” e di “colori autentici”. Quanto al fatto di poter ritrovare con strumenti all’antica seguendo trattati antichi il fraseggio dell’epoca è una mera illusione, poichè nei trattati non vi è tutto il necessario per riprodurre o ritrovare lo stile esecutivo dell’epoca. Il modo di interpretare e di suonare dipende sopra tutto dalla sensibilità del musicista. Noi non abbiamo più la sensibilità, la cultura e la mentalità dell’eopca, quindi ci sfuggono tutta una serie di parametri interpretativi che non si trovano nei trattati perchè in essi non sono stati consegnati poichè andavano per scontati, facevano parte della sensibilità , della cultura e del modo di fare e di essere dell’epoca. Quindi pur utilizzando uno strumento antico e un trattato d’epoca si può ottenere un risultato e uno stile esecutivo che sono diametealmente opposti a quelli che in realtà erano diffusi in quel tempo. Di conseguenza addio autenticità! Chimera puramente baroccara!!!

    Ombra mai fù cantato da Daniels la conosco benissimo ed è cantata con vociuzza ridicola, senza ampiezza di cavata, non lo si sente a due metri, la voce diventa ectoplasmatica in basso e non appena cerca di oltrepassare il registro medio la voce diventa stimbracciata ed asprigna, nei centri la voce suona vuota e chioccia e tendenzialmente stridula e squittente. Sentire un uomo emettere suoni striduli e falsi (falsettista) per imitare l’ottava femminile mi pare una baracconata e cosa poco seria.
    I falsettisti rimpiazzavano le donne nei cori che cantavano musica sacra durante le celebrazioni religiose poiché c’era il divieto per esse di cantare in chiesa. Pare che i primi castrati arrivarono dalla Spagna. Molti trattatisti antichi fra i quali lo Zacconi (ma anche Caccini e Monteverdi stesso) ne dicono peste e corna dei falsettisti e delle loro voci insopportabili per mancanca di armonici, proiezione, limitatezza di espressione e povertà di colori nel recitativo e furono ben contenti dei castrati che li rimpiazzarono. Se giunsero al punto di castrare, cioè di mutilare orribilmente degli esseri umani (per questo la Francia non li accettò mai, sempre all’avanguardia sui diritti dell’uomo) pur di sbarazzarsi dei falsettesti, significa proprio che questo tipo di voce era invisa e musicalmente poco adeguata, il falsettismo è stato un palliativo. Ora perchè riportarlo in auge con pretesti filologici? Poichè proprio da ricerche filologiche non ci sono le premesse e le giustificazioni.
    I barocchisti cercano lo strumento più simile a quello usato per la prima esecuzione, all’originale, il più identico a quello dell’epoca del compositore, anzi della composizione stessa, e questo avviene perchè l’ideologia baroccara conferisce una importanza fondamentale al “colore” del suono d’origine (che comunque come tale non si potrà mai riprodurre oggi). Ma perchè darsi tanto da fare per ricostruire l’oboe o il violino identico come era al tempo di Haendel per poi affidare parti di castrato a controtenori che come strumento vocale non hanno niente a che vedere con quello che era lo strumento vocale degli evirati cantori. Perchè riportare, per certo repertorio, in auge un tipo di voce che è stata proprio bannata dai compositori stessi e dal publico stesso dell’epoca?
    Per fortuna in una intervista lo stesso Jaroussky ha affermato : “noi controtenori cantiamo un repertorio che in fin dei conti non è sato scritto per la nostra voce, poichè oramai tutti sanno che i castrati avevano una vocalità completamente diversa dalla nostra”. Se si accettano queste storpiature, perchè non accettare un pianoforte nel basso continuo?

  6. Aggiungo, all’ottima analisi di Semolino, che gli stessi compositori barocchi ricorrevano a mezzo soprani e contralti, quando non erano disponibili i castrati. MAI hanno tollerato i falsettisti (se non in alcuni oratori e in alcuna musica sacra). Molti obiettano che però gli stessi compositori utilizzavano le donne come ripiego e che, una volta ritornato l’evirato cantore, immediatamente gli riassegnavano le parti: banalità ovvia direi! Se i castrati erano i divi, naturalmente essi erano i “proprietari” di quelle parti… E poi mi chiedo: non è meglio e più logico utilizzare una voce che l’autore stesso riteneva, pur non preferendola, perfettamente sostituibile a quella dell’evirato 8sia pure come rimpiazzo), piuttosto che una voce ESPRESSAMENTE ritenuta insopportabile? Non sarebbe questa vera “filologia”?

    Ps: sul diapason sono sempre stato delle medesime idee di Semolino. Pura follia l’ostinarsi nel ritenere il 415 Hz come l’unico e il solo autenticamente barocco. Questa è ignoranza e arroganza, altro che prassi autentica!!!! E tra un pò queste scemenze infesteranno pure il melodramma (con diapason a 430 stavolta…).

    Pps: verissimo, il barocco “baroccaro” è autentico come il medioevo romantico, ma con la differenza che il primo spaccia sè stesso per l’unico vero e corretto approccio al genere, mentre i romantici erano ben consci di rileggere il passato in modo arbitrario e personale.

    Pps: completamente d’accordo sul fatto che non sia lo strumento, ma la sensibilità dello strumentista a rendere un’interpretazione “musicalmente autentica”. L’ultimo Abbado, che pare rincorrere certa moda baroccara, è assai più sgradevole di Cavina (ad esempio) che utilizza strumenti d’epoca in modo espressivo e assolutamente musicale”.

  7. Personalmente,non sono mai stato un fan degli strumenti d´epoca.Ad esempio,trovo molto piú interessante il Bach suonato da Glenn Gould di qualsiasi esecuzione cembalistica,anche perché concordo con Sir Thomas Beccham quando diceva che il suono del clavicembalo gli ricordava irresistibilmente due scheletri che copulassero su una lamiera ondulata.Devo peró ammettere che una volta,nonostante le migliori voci e la migliore tecnica,il melodramma barocco veniva spesso eseguito con criteri assolutamente sbagliati.Vi ricordate l´Hercules di Haendel alla Scala negli anni Cinquanta,interpretato da Manrico (Corelli),Rigoletto (Bastianini) e Boris Godunov (Christoff)?Oppure la prima incisione discografica dell´Orfeo di Monteverdi diretta da Calusio?I cantanti sono buoni,non si discute,ma quello non é Monteverdi,casomai Respighi o Malipiero.Quello che non si é mai riusciti a trovare,ieri come oggi in questo repertorio,é l´equilibrio tra esigenze vocali e correttezza dello stile.I baroccari di oggi poi,anche quando il canto é abbastanza corretto,fraseggiano quasi sempre con un tono espressionistico che a volte rasenta il comico,quando non ci dá proprio di cozzo.

  8. Vero è che il barocco prima del fenomeno Sutherland Horne era cantato fuori stile, ma almeno quegli esempi servono come un modello di voce impostata correttamente in un repertorio in cui oggi i cantanti ricorrono più che mai ai metodi di emissione più assurdi, come quello di lanciare fischietti anzichè messe di voce, vedi Petibon nella Morgana alla Scala. A mio parere la buona strada per interpretare l’opera barocca non era quella alla Malipiero ma nemmeno le storture degli odierni baroccari. Purtroppo la lezione dalla Sutherland e dalla Horne non ha avuto seguito, non è stata sfruttata; prima di tutto perchè le due cantanti non hanno avuto eredi e poi perchè il barocco è stato preso d’assalto dalla pseudo filologia anglo-fanco-olandese e in Italia non c’è stata né la volontà di opporsi (intanto questa musica interessa poco al grosso publico italiano) né ci sono stati musicisti e cantanti del livello di un Bonynge o delle sopra citate per potere creare un modo di fare il barocco più idoneo e controbattere l’invasione baroccara che poi ha preso piede anche in Italia.
    Spesso mi sento obiettare che se il barocco dei baroccari è come il medioevo dei romantici, nemmeno quello della Horne o della Sutherland sia “autentico”. Ma tale obbiezione nasce dal fatto che il problema è già posto nella maniera errata fin dal principio. Non si tratta di ritrovare identicamente come si eseguiva il barocco all’epoca, poichè trattati o non trattati mai potremo saperlo con precisione, ed è proprio perchè la nostra sensibilità è radicalmente cambiata (non viviamo più all’epoca) che più cerchiamo di avvicinarcene e più in realtà riusciamo solo ad allontanarcene, il problema va posto nel modo seguente : si tratta di capire quali fossero le prerogative e le qualità delle composizioni barocche e cercare quì, oggi, nel presente, coi nostri mezzi espressivi, di renderne al meglio tutta la bellezza. Il barocco è basato sulla poetica della meraviglia, cerchiamo di eseguirlo in modo che ci meravigli pure noi. Non è detto che quel che meravigliava all’epoca possa oggi meravigliarci ancora. Il modo di procedere di un Bonynge e di una Sutherland vanno nel senso di rendere al meglio, partendo dallo spartito, quella musica. Il procedere dei baroccari è puramente intellettuale poiché cercano di applicare quello che loro hanno desunto dai trattati.

    Una precisazione per quanto riguardo il fatto di rimpiazzare il castrato colla donna : primo è falso che i falsettisti cantassero negli oratori, negli oratori di Haendel cantarono castrati, nella Theodora ad esempio cantò, alla prima, un castrato famoso, non ricordo più se il Carestini, ma sono sicuro, da fonte certa che fù un castrato. A prova che i falsettisti non esistevano è il fatto che nessun nome di falsettista famoso è giunto fino a noi. La castrazione prebuberale aveva come conseguenza, colla crescita, di permettere uno sviluppo “anormale” della cassa toracica, conferendo al castrato delle capacità polmonari, e quindi di riserva di fiato, che nessun cantante, uomo o donna che fosse, poteva permettersi, con tutte le conseguenze che tale riserva di fiato comportava nel canto : messe di voce di una tenuta e di una lunghezza incredibili, tutti i vocalizzi dell’aria e le variazioni eseguiti senza nessuna ripresa di fiato, e questo mandava in estasi e in visibilio il publico, perchè alla base della poetica barocca c’è il fatto di strabiliare e meravigliare il fruitore e non di eseguire il recitativo come se fosse Alban Berg. L’evirtato rimaneva con una laringe piccolissima e atrofizzata, in compenso sviluppava oltremisura la muscolatura che l’attornia, il che comporta una voce più facilmente immascherata per natura, oltre all’immascheramento ottenuto collo studio e permetteva una pressione sotto-glottica capace di erogare una potenza di suono impensabili per un uomo di costituzione normale. Quindi i castrati dovevano possedere voci potentissime, e questo è stato scientificamente dedotto e provato da studi che sono stati fatti sulle conseguenze della castrazione prepuberale sull’organismo umano. Quindi è da sfatare anche il mito, tutto baroccaro, del barocco colle voci piccole. Da tutto questo pare normale che i compositori preferissero i castrati alle donne, perchè nessuna donna era capce di performances tanto strabilianti per potenza vocale e tenuta di fiato. In mancanza del castrato ci si ripiegava sulle donne perchè la donna come il castrato canta con l’unione della voce di petto e di quella di testa, prerogativa di base di tutto canto artistico e professionale e questo lo hanno detto e scritto per primi Monteverdi e Caccini, lo confermano Tosi e Mancini ecc… Il falsettista usa essenzialmente il falsetto e quindi non vi sono le prerogative per un canto corretto.
    Uno dei tanti argomenti utilizzati dai baroccari per giustificare voci piccoli nel barocco è quello che gli strumenti antichi erano molto meno sonori e quindi bisogna ritrovare un equilibrio voce – strumento. Nell’opera, da Monteverdi al primo Verdi, è la voce ed il canto che primeggiano, l’orchestra accompagna ed è subbordinata al canto, in secondo piano. Certe introduzioni orchestrali nelle arie di Haendel e di Vivaldi sono strumentalmente interessanti, alle volte paiono veri e propri concerti grossi. Ma solo l’introduzione per captare l’attenzione, non appena incomincia il canto l’orchestra funge da accompagnamento, la parte principale resta quella della linea vocale. Il problema dell’ equilibrio voce – strumento si è posto col tardo ottocento e la nascita del dramma musicale. Questa è un altra prova che i baroccari si pongono problemi, all’interno del barocco, che sono di tipo tardo ottocentesco o comunque di tipo moderno.

  9. Mi piace sottolineare anche questa contraddizione : le dimensioni delle corde vocali.
    Si sa che l’operazione che si effettuava sui castrati impediva alle corde vocali di svilupparsi sino alle dimensioni che sono normali nell’adulto. Corde più piccole e corte che, per ragioni fisiche, portavano ad alte frequenze dei suoni emessi ed emissioni dolci ed omogenee. Voci piene e corpose sono quelle descritte dalle fonti del tempo, e per questo ricercate.

    La voce maschile, dunque, è per definizione la più lontana da quelle originarie del castrato. Anche quando falsetta.
    La sola voce femminile può avvicinarsi a quei timbri e a quelle emissioni, ma solo avvicinarsi, perchè erano altra e diversa cosa.

    Già questo, oltre che l’antistoricità evidente della pretesa equivalenza castrato- falsettista, basterebbero a provare la mistificazione intellettuale. Ed il falso puro che oggi si compie.

    Per Velluti:
    – siamo ben consci di proporre ascolti che possono parere dei paradossi o delle provocazioni. Ma ti posso assicurare che dopo la Bradamante udita ( a fatica ) in Scala, la signora Oralia Dominguez, nell’esecuzione veneziana con la Sutherland, ti dà vero ristoro alle orecchie, nè è una virtuosa di levatura inferiore alla cosiddetta “specialista” appena sentita in teatro…..Il malcanto odierno non è compensato da nessun “upgrade” stilistico, perchè una pentola di fagioli che bolle ( parafrasando il ben noto critico vociologo) resta una pentola di fagioli che bolle, a qualunque temperatura la si faccia bollire…..
    Per quanto io non ritenga di possedere alcuna preparazione specifica in fatto di musica barocca, come invece tu possiedi, sento anche io le libertà e gli arbitri stilistici di una Horne, che ho visto pure in teatro ( ed alludo all’Orlando e Rinaldo veneziano..): ma l’arbitrio o la gigionata mai dominavano e schiacciavano il canto, quando era il momento di cantare. Nè snaturavano il personaggio, sia scenico che vocale.
    Gli specialisti di oggi mi pare che abbiano uno stile che è quello del dilettantismo anonimo e spesso… caricaturale, per l’esito grottesco che sortiscono arrabattandosi tra sgallinamenti, urlacci, berci e suoni opachi e fissi…
    Nessuno di loro potrebbe mai eseguire un’aria di belcanto italiano con vera qualità esecutiva, e credo un vero motivo tecnico ci sia…

    Noi non vediamo, ma forse tu hai più argomenti e rimandi bibliografici di noi da segnalare, una ragione scientificamente fondata per postulare che il canto barocco fosse praticato diversamente dalla quello che poi ci ha descritto Garcia etc…
    Tosi, Mancini etc non mi pare descrivano nulla, circa l’impostazione della voce, che sia in discontinuità con i caposaldi della tecnica del belcanto italiano.

    a presto

  10. Non pensavo di dover controbattere a obiezioni che, per certi versi, esulano da un commento che voleva soltanto rilevare la difficoltà di criticare il presente partendo da un passato che, stando almeno alla mera, cruda e nuda testimonianza sonora, non può emergere per quello che realmente è stato (ergo il risultato è lo stesso, a prescindere dai problemi dovuti alle tecniche di incisione o cose del genere). Ma tant’è… Molte obiezioni di Semolino sono giuste; e difatti nessuno si sognerebbe di dire o pensare che i controtenori sono assimilabili in toto ai castrati. Idem per quanto concerne il fatto che le voci femminili erano spesso dei rimpiazzi, semplicemente perchè in grado di raggiungere quelle note acute e acutissime che nei castrati si univano, però, anche alla facilità nel registro grave. I divi erano i castrati: solo in caso di necessità si poteva optare per la donna, e in quei casi il compositore doveva modificare non poco le tonalità e lo strumentale della parte. Nessuno però è capace di spiegare come mai parti scritte sicuramente per castrato (cfr. Qual guerriero in campo armato, ecc. ecc. ecc.) presentano una scrittura in tutto differente rispetto alle parti scritte, ad esempio, per la Cuzzoni (Piangerò la sorte mia, oppure V’adoro o pupille, ecc. ecc. ecc.), tanto che oggi quelle arie scritte per castrato vengono eseguite sia da mezzosoprani e soprani, mentre quelle della Cuzzoni esclusivamente da soprani (e basta!)? Sarebbe abbastanza bizzarro tutto ciò, se le voci delle donne e quelle dei castrati fossero in tutto assimilabili!

    Resta poi difficile dimostrare, in maniera ‘scientifica’, cosa si intenda per “meraviglia”. Per me, ad esempio, “meraviglia” potrebbe essere ascoltare un uomo cantare con una voce in ‘falsetto’, e quindi nell’ottava superiore rispetto alla sua voce “naturale”! La meraviglia è sempre qualcosa di soggettivo, e l’impiego dei controtenori – almeno nell’ottica della moderna filologia barocca – si inserisce in questa volontà di “meravigliare” il pubblico (che molto spesso sembra comq gradire… Ah! Dimenticavo… Sono tutte pecore influenzate dalle majors!). Se vogliamo parlare di cose soggettive, come gusto, senso estetico, meraviglia, ecc. ecc., diciamo che, per molta musica antica, il timbro del controtenore è capace di rendere palpabile la distanza dell’eroe barocco dalla terra, dall’umanità; è in grado di offrire quella sensazione del totalmente “altro” che è cifra indelebile, quasi quanto la meraviglia di “mariniana” memoria, del barocco.

    Non è vero che l’interpretazione romantica del passato non aveva l’assoluta volontà di esautorarlo completamente: basta leggere le interpretazioni hegeliane della storia universale per rendersi conto di quanto, invece, il romanticismo avesse la mira di totalizzare completamente una lettura, che non era quindi proposta come una tra le tante, delle epoche trascorse.

    Andiamo invece all’uso dei falsettisti, che è altro problema. Su questo non posso essere d’accordo con Semolino: i falsettisti sono sempre esistiti, e il loro terreno d’elezione era proprio la musica sacra. La musica che si eseguiva alla ‘Pietà dei turchini’ di Napoli ne è prova più che evidente. Addirittura ancora Rossini, nello scrivere la Petite Messe solennelle, nel 1863, specifica che il coro deve essere composto da cantanti dei “tre sessi”, per un totale di 8 coristi (uomini, donne e castrati); il che lascia supporre – ma non è sicuro – che l’impiego di voci maschili per parti femminili nella musica sacra fosse costume più che consolidato.
    Inoltre, nel 1739 il The London Daily Post, a proposito dell’Israel in Egypt, annovera William Savage come “alto”, cosa molto interessante, dato che in Alcina, Faramondo e Giustino egli figura come “boy-soprano”, mentre in Imeneo e Deidamia figura come “basso” (e, quindi, non era certamente un castrato; evidentemente cantava anche in falsetto). E’ noto l’aneddoto inerente al Balani, il quale non era un castrato, e pure veniva scambiato come tale (e deve essere stato davvero bravo, per essere fatto assurgere al livello di un evirato cantore pur non essendo tale [!]; cantava evidentemente in falsetto).
    Addirittura ancora all’epoca di Perosi sappiamo che l’esimio direttore della Sistina non volle il Mancini nella compagine perchè la sua voce ricordava troppo quella di un castrato (e nel 1902 si stabilì di non assumere più evirati cantori, esclusi coloro che già vi cantavano [cfr. Moreschi]!).
    Ancora: negli Haendel Handbuch si nota che alcune serenate e cantate scritte per voci falsettistiche sono in tutto assimilabili a parti scritte per castrato, ergo si può dedurre che, in alcuni casi, le due tipologie vocali venissero assimilate (forse per mostrare la stratosferisca bravura del castrato di turno!).
    D’altronde il Guadagni, forse per ragioni linguistiche, fu sostituito da un ‘controtenore’ in una composizione oratoriale.

    Sullo Zacconi meglio soprassedere… Il suo trattato è espressione di una tecnica canora che era in voga tra 500 e 600, ma che non è detto debba essere fatta assurgere a paradigma universale. Come per il diapason sappiamo che c’erano diverse accordature a seconda degli strumenti utilizzati (ma per questo, a rigore di logica, non è assurdo impiegare un diapason più basso, dato che non si usava sempre la stessa accordatura!), idem per quanto concerne la valutazione del canto. Ad esempio, sempre lo Zacconi, sembra scagliarsi contro il vibrato, o meglio contro un eccessivo vibrato (anche se bisognerebbe intendersi su che cosa volesse dire lo Zacconi con “eccessivo”! Il passo è ambiguo… Non dobbiamo fare l’errore di leggerlo alla luce del “dopo”, ed intenderlo come un inno al vibrato “non-slargato”; il testo va calato nel suo contesto e va interpretato per quello che effettivamente dice! Non possiamo sapere come il trattatista, ad esempio, avrebbe valutato il vibrato di una Sutherland [!], nè è lecito immaginarlo!) uno degli elementi fondanti del canto operistico ottocentesco che oggi nessuno si sognerebbe di stigmatizzare, anche al di là del parere dello Zacconi stesso (cf. Prattica di musica: “Il tremolo [anchese gli studiosi su questo termine sono divisi; io penso che si riferisca al vibrato!] nella musica non è necessario; ma facendolo oltra che dimostra sincerità, e ardire; abbellisce le cantilene […] dico ancora, che il tremolo, cioè la voce tremante è la vera porta d’intrar dentro a passaggi, e d’impatronirsi delle gorge […] Questo tremolo deve essere succinto, e vago; perché l’ingordo e forzato tedia, e fastidisce: Ed è di natura tale che usandolo, sempre usar si deve [sic]; accioché l’uso si converti in habito; perché quel continuo muover di voce aiuta, e volentieri spinge la mossa delle gorge, e facilita mirabilmente i principij de passaggi”).

    Giustificare il presente alla luce del passato, o stigmatizzare il presente alla luce del passato, è sempre un’operazione ideologica e non storica. Mi sia concesso un parallelismo: il papa dice di essere l’erede unico del cristianesimo antico; ma il cristianesimo antico è un qualcosa che non esiste più. Proclamare di esserne l’interprete più vero e autorevole è un’operazione ideologica e non storica, dato che il cristianesimo antico era qualcosa di completamente differente rispetto all’apparato della chiesa romana attuale. Insomma: un conto è la predicazione di Gesù ai pescatori della Palestina del I secolo, un conto la processione di Papa benedetto XVI nella papa mobile, non ostante il tentativo di dimostrare che anche quest’ultima possa essere derivazione del piccolo movimento fondato dal profeta di Nazaret!
    In merito a Daniels, posso dire di averlo ascoltato dal vivo: certo non è una voce trasbordante (ma nemmeno quella della Devia lo è!); ma è una voce che “corre”, ben proiettata, con un legato eccellente, vibrata (non è dunque un fischietto “baroccaro”) e intensa nell’accento, dotata per altro di bel colore.
    Capisco che la critica, per essere tale, debba sostanziarsi di argomentazioni… Ma bisogna stare attenti: un conto è la ricerca storica, un conto è la critica. Sostanziare la critica al presente con il ricorso al passato può diventare un’operazione ugualmente ideologica, così come quella dei baroccari che pretendono di svelare la reale essenza del passato che eseguono (magari per legittimare le proprie esecuzioni, se non addirittura l’esistenza di una vera e propria lobbie musicale)! Una interpretazione del passato molto di rado può legittimare il presente, in un verso o nell’altro. E’ pur sempre una interpretazione, per cui il barocco di Asor Rosa è diversissimo da quello di Deleuze, eppure entrambi sono sostanziati scientificamente, entrambi danno una particolare LETTURA del passato, a seconda della mira che si propongono.
    Nell’opera c’è un dato che non bisogna mettere da parte, il gusto. Alcuni troveranno il barocco della Sutherland superato, altri paradigmatico. Resta che, per me, l’Alcina Sutherland-Bonynge è una meraviglia, e non perché pretende di riesumare un cadavere (il presunto “barocco” di Haendel) ma perché, per ragioni estetiche autonome, è un’opera d’arte essa stessa, a prescindere da quello che c’è sotto! Ciò che evoca la voce della Joan, accompagnata da quell’orchestra, è già di per sé valore estetico autonomo: non mi interessa se è aderente al barocco o no (come possiamo dirlo con assolutezza?)… Mi interessa perché mi evoca delle sensazioni, delle suggestioni, delle emozioni, delle tinte, delle atmosfere… Questo non mi succede all’ascolto della Sembrich… In questo è pienamente giustificata la ripresa di un passato, se questo evoca ancora delle cose oppure no. Ma in questo ambito non ci sono delle regole universali!

  11. Sono andato a verificare il nome del castrato per il quale Haendel compose il ruolo di Didimus nell’oratorio Theodora, è stato Gaetano Guadagni ( e non Carestini). Haendel lo ingaggiò anche per cantare, durante alcuni anni di seguito, nel Messia che veniva rappresentato ogni anno nell’orfanotrofio. Ho cercato ma non ho trovato traccia alcuna di falsettisti o controtenori che abbiano cantato o creato ruoli negli oratori di Haendel all’epoca del compositore.

    Per quanto riguarda l’esecuzione del recitativo, è vero che il recitativo deve essere espressivo ed eloquente, come sostengono i baroccari, ma il recitativo deve essere espressivo, eloquente e chiaramente articolato in tutte le opere, il recitativo non è più importante nel barocco che in Rossini o in Verdi. Ma il barocco non è un arte realista e naturalista, non ricerca la verità drammatica. Il barocco rifugge dall’espressione realistica dei sentimenti e delle passioni. Il recitativo barocco deve essere certamente, come in tutte le opere, espressivo ed eloquente, ma deve sempre realizzarsi nell’ ambito della nobiltà di accento, della stereotipata stilizzazione degli affetti (la rappresentazione stereoptipata degli affetti è tipico dell’arte barocca in genere), i quali debbon esser più rappresentati dal gesto teatrale, sublimati in un fraseggio eloquente ma comunque aulico e composto, e non espressi con inflessioni naturaliste ed espressioniste, per giungere alle più isteriche esagitazioni e alle sbraccature più volgari dei cantanti baroccari di oggi.
    Però in realtà, poichè si vuole fare della filologia ad oltranza a tutti i costi, perchè i baroccari danno così tanta importanza al recitativo nell’opera barocca? é assurdo poiché è risaputo che all’epoca barocca del recitativo non ne fregava niente a nessuno : il publico durante i recitativi faceva di tutto per distrarsi, a teatro si giocava, si beveva, si mangiava, si intrecciavano tresche, si discuteva,si facevano andirivieni continui, l’ambiente era rumorossisimo; nessuno stava a delibare ogni virgola del recitativo. L’attenzione del publico era captata dall’orchestra che dava il segnale dell’inizio dell’aria, e solo in quel momento il publico prestava attenzione, poiché ad esso interessavano solo le esibizioni e i fuochi d’artificio vocali del primo uomo, del castrato o della prima donna.

    Per quanto riguarda un ritorno del diapason a 430 per l’opera dell’ottocento tengo a segnalare che Emile Leipp al Conservatorio di Parigi cita nel 1859 tutte le altezze di diapason rilevate in Europa. Per l’italia il la era a 446 e a Praga 450, Bruxelles 455 a Parigi all’opéra era salito a 457!!! Se si è sentito il bisogno di fissare il diapason sulla media di 440 è perchè il diapason nei secoli passati tendeva ad alzarsi troppo e non ad essere più basso come le favole baroccare vogliono fare credere. E poi vogliono spacciare per filologico il diapason a 430 per il melodramma dell’ottocento! E’ solo una scusa per facilitare i cantanti di oggi che non sanno più emettere un acuto senza strozzarsi; guarda caso uno dei primi sostenitori per un ritorno ad un diapason più basso, cioè a 435 per l’opera dell’ottocento, è stato proprio un tenore che di acuti non ne aveva proprio, cioè Placido Domingo.

  12. Beh, caro Vellluti,
    mica ci capita tutti giorni di parlare con uno del mestiere.
    volutamente approfittiamo di te per aggiungere altro alle nostre chiacchiere…..
    come ti ho già scritto in chat, mi piacerebbe approfondire queste argomentazioni dei filologi.

  13. Posso capire che a taluni il timbro del controtenore possa creare straniamento e meraviglia per il fatto di sentire un uomo, che incarna un eroe, cantare con voce androgina, ed anche questo può essere un segno di fuga dalla realtà drammatica. Però un timbro straniante in se non basta perchè non si può rinunciare alla qualità del canto in merito del solo colore timbrico. Dicevano che chi non aveva sentito il Carestini non conosceva la perfezione del canto. La bellezza, la qualità e la perfezione del canto erano alla base dell’esecuzione, tutti i testi e le cronache d’epoca insistono su questo. Ora come si può accettare il falsettista, Daniels compreso, che è cotonoso e snervato nelle agilità, poiché il falsettista le esegue cantanto in falsetto e di conseguenza tutte le agilità sono infalsettate e prive di quel vigore, di quella pienezza, di quella espressività e di quei colori che solo un cantante che canta con voce piena cioè con l’unione dei due registri (petto testa) può ottenere. E poi le voci dei falsettisti, Daniels in primis, sono sempre inconsistenti nelle note gravi e tendono a diventare stridule non appena oltrapassano il registro centrale, il quale, già sul mezzo forte, suona vuoto e chioccio. Non si può in virtù di un timbro straniante trascurare a tal punto il canto.
    Il testo dello Zacconi mi pare andare nel senso di favorire la naturale propensione al vibrato in una voce correttamente impostata contrariamente ai suoni fissi ricercati dagli specialisti del barocco.

  14. Caro Semolino, tu fai riferimento a un testimonianza della metà dell’800 che, mi sia concesso dire, col barocco davvero non c’entra nulla! In quella fase ci fu una vera e propria rivoluzione strumentistica, per cui è quasi ovvio che il diapason impazzì!

    Sappiamo solo che era difficile trovare un’accordatura unica, perchè gli strumenti erano differenti tra loro. Addirittura per il suono, erano diversi. Il traversiere che aveva a disposizione Mozart era differente da quello di Bach (ed è per questo che spesso Mozart non metteva il flauto nelle sue orchestre… Forse non gli piaceva il suono che aveva a disposizione in quel particolare momento, oppure non era capace di suonare nella tonalità che il compositore aveva pensato! Il requiem di Mozart, ad esempio, è in re-, e non c’è flauto nell’orchestra! Forse il traversiere era impossibilitato a suonare in re-!).

    Sui recitativi, caro Semolino, non so che dirti! Allora tagliamoli, come fece Futwaengler per la sua Passione secondo Matteo, per cui non possiamo sapere come il tenore di quella esecuzione avrebbe eseguito pezzi straordinari come i recitativi dell’evangelista (tutti meravigliosi! Dal primo all’ultimo!)… Il recitativo di Ombra mai fu è spettacolare, per citare solo un esempio noto! Che me frega che nel ‘600 bivaccavano e si ingozzavano… Poveri loro, mi viene da pensare (o beati loro, a seconda del punto di vista!).

    La filologia non ha la pretesa di ricostruire un’epoca… E’ un metodo che, prima di tutto, cerca di ricostruire un “testo”, cosa assolutamente diversa dal “contesto”. Questo aiuta, ma sempre in funzione dell’oggetto primario di indagine. Il resto è propaganda!

  15. velluti il tuo intervento è bellissimo ed interessantissimo. Grazie.
    Credo che trasformeremo, se donna giulia grisi il consente, questi messaggi in un post con tanto di commenti musicali credo di raffronto.

    per parte mia esternoe d espongo un dubbio:
    se guardiamo le tessiture e le scritture vocali ( fermo restando che poi arrivavano gli abbellimenti, per usare il termine che usava la signora Horne) dei castrati dopo Handel e mi riferisco a Mozart, piuttosto che a Cimarosa e Rossini la differenza musico primadonna mi sembra attenuata.
    In buona sostanza un mezzo donna canta senza fatica il Curiazio di Cimarosa, piuttosto che il Cecilio del Silla ed infatti per contro Velluti a Londra cantò Arsace di Semiramide e Tancredi. Non posso nascondere la curiosità per sapere e sentire che facesse Velluti nella vocalità acrobatica di Arsace.

    ciao e grazie
    dd

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