I venerdi di Wagner: Fine al rito? – Bayreuth 2009

Il 25 luglio si rinnova – come quasi ogni anno a partire dal 1876 (salvo quelle interruzioni dovute alle disavventure belliche nelle quali incappò il Reich “millenario”) – il rito iniziatico del Festival di Bayreuth: monumento all’ego smisurato di Richard Wagner, alla sua gigantesca ambizione e vanagloria e a quel miscuglio – indigesto – di volontà di potenza, paganesimo nibelungico, messianesimo protocristiano, antisemitismo, mitizzazione di sé e della propria pretestuosa missione (il tutto derivante da suggestioni, fraintendimenti e maldestre reinterpretazioni, tratte da letture non comprese se non solo superficialmente: Nietzsche, Schopenhauer, testi buddisti e vedici etc…) che è l’essenza stesso del wagnerismo inteso come filosofia spicciola o, meglio, fede cieca in un innalzamento metamusicale dello spirito (follie, per le menti laiche e più razionali – ma per taluni, sicuramente prosaiche e provinciali – di chi crede che l’opera non sia una sacra rappresentazione e che a teatro ci si vada principalmente per ascoltare musica).

Tale moderna mitolgia, è, pure, la trascendentale e sublime delizia di schiere di adepti che, ogni anno (e almeno una volta nella vita: così come ogni buon musulmano deve recarsi alla Mecca) marciano ordinati e compatti per ascendere alla Sacra Collina (58.000 posti per i più “fortunati” a fronte di una richiesta annuale di oltre 500.000 biglietti), accanto ai maggiorenti dell’alta borghesia tedesca, agli ottuagenari avanzi di quella che un tempo era l’aristocrazia – soprattutto economica – del Reich, da Bismarck al Führer, a qualche ex ufficiale delle SS particolarmente longevo e ai rappresentanti di industrie, governi e banche, che elargiscono somme generose affinchè il mito della redenzione al redentore, ogni anno si rinnovi. Tuttavia Bayreuth non è solo questo scenografico e anacronistico apparato rituale (davvero non si colgono grosse differenze nel confronto tra i filmati rappresentanti l’arrivo degli odierni ospiti d’élite che scendono in abito di gala da lunghe Mercedes nere, accolti sulla soglia dall’attuale dirigenza, e quelli relativi agli ospiti particolari degli anni ’30 e ’40, salvo per il colore della pellicola e l’inquietante presenza di certi simboli e divise). Dietro ad esso, in realtà, si nascondono miserie private e tragedie pubbliche di un passato (anche recente) impresentabile, fatto di rapporti imbarazzanti, amicizie e relazioni inquietanti che, nonostante la decennale opera di spregiudicato restyling (rectius, opportunistica rimozione), ancora non può dirsi superato e che, talvolta, salta fuori con l’inevitabile strascico di polemiche, scandali, scomuniche, diffide e giustificazioni (inutili, tardive o grottesche) che benpensanti o fedeli invasati si prodigano a fornire o infliggere. Ma dietro a tutto questo – anzi, forse, vero motore (im)mobile di tutto quello che gira intorno al nome di Richard Wagner – si muove un mare di soldi (e la cosa non sarebbe affatto dispiaciuta al capostipite, di cui è nota la smodata passione per il denaro e che tanto ne accumulò turlupinando il povero sovrano di Baviera, sfruttandone la fragilità e l’instabilità psichica e succhiandone ogni risorsa, come un parassita sull’organismo ospite). Ma non è (o non dovrebbe) essere tutto: alla fine dovrebbe esserci anche un piccolo spazio per il puro dato artistico – almeno quale delirante pretesto, così come inteso dal vecchio Richard – ma negli ultimi tempi questo si è affievolito, sino quasi a scomparire nelle recentissime edizioni del Festival, che hanno consacrato il businness a nuovo dio e ne hanno favorito il trionfale ingresso nelle superbe sale del Walhalla! Ed in effetti, scorrendo la cronologia degli spettacoli, si nota una costante parabola discendente. Già dall’epoca di Cosima, pretesa esecutrice testamentaria delle supposte volontà (musicali) del marito, il Festival prese un certo indirizzo estetico, fondato sulle personali convinzioni della sua plenipotenziaria (e imposte quali “dogmi di fede” tanto da considerare altre visioni e interpretazioni, al pari di pericolose eresie da condannare ed estirpare, come dimostrano le grottesche vicende intorno al Parsifal e le ridicole e deliranti “indicazioni comportamentali” imposte persino al pubblico), e fu costretto così all’autoisolamento (splendido per taluni e non corrotto da contatti esterni). L’isolamento di Bayreuth, in verità, portò ad una profonda cesura nella storia interpretativa wagneriana: da una parte l’aria esageratamente asfittica e sacrale che si respirava nei dintorni di Villa Wahnfried, cioè il Wagner dell’ortodossia (non più soltanto musica, ma strumento e fine di un’ascensione spirituale); dall’altra parte una visione più laica e libera, più aperta e tollerante (penso al Wagner di Mahler e alle polemiche della suddetta ortodossia di fronte alle sue interpretazioni) che ripuliva l’autore da quell’apparato rituale e da quell’aura da “sacra missione” per riportarlo alla sua essenza spettacolar-musicale, non nascondendone i tanti debiti con le tradizioni romantiche tedesche (Weber e l’aborrito Mendelssohn), il grand opéra (Meyerbeer) e l’opera italiana (Rossini e Bellini). Tutto questo, però, alle orecchie delle gerarchie sacerdotali di Bayreuth, appariva come una bestemmia: il vero Wagner era altro (il loro)! E per essere ammessi sulle tavole del Festspielhaus o nelle profondità del suo golfo mistico, ci si doveva adeguare, senza disturbare più di tanto l’indirizzo ufficiale: pena la scomunica. Le cose non cambiarono con Winifred (anzi…) e neppure con Wieland e Wolfgang (questi ultimi impegnatissimi a ridare una verginità ad un Festival più che compromesso con il passato regime, e per questo a rischio di soppressione): pesanti interventi a registi e direttori, attraverso imposizioni di cast e di letture ideologiche (indirizzate alla bisogna e dipendenti, principalmente dall’appeal economico che esse potevano suscitare nella generosità degli sponsor e nei ricavi da garantire all’industria di famiglia), tese a salvaguardare le fumose verità canonizzate di cui il Festival si autoproclamava detentore (come i custodi del Graal) derivate da quel guazzabuglio indigeribile costituito dai testi teorici dell’autore. Il risultato di questo assurdo modus operandi fu la sostanziale uniformità di ogni interpretazione, lo scadimento generale delle esecuzioni e la perdita di centralità nell’ambito dell’estetica wagneriana. I grandi nomi degli anni ’30, ’40 e ’50, erano sì convocati, ma erano subito “normalizzati” dalle imposizioni di Cosima e di Winifred, rimanendo poco liberi di esprimersi: tanto che le loro interpretazioni wagneriane più interessanti vanno ricercate in altre sedi (Furtwängler alla Scala, ad esempio, o Karajan a Salisburgo). Presto il palcoscenico di Bayreuth venne occupato da meri Kapellmeister (da Keilberth a Sawallisch) senza troppa fantasia e velleità, perfettamente funzionali, però, ad officiare i riti senza metterne in discussione l’ortodossia. Tanti grandi direttori, poi, limitarono la propria partecipazione ad una o due presenze soltanto, andandosene il prima possibile, non tollerando oltre la pesantezza delle imposizioni dirigenziali (Clemens Krauss o Carlos Kleiber o Solti o Karajan, ancora, sono esempio emblematico: e mentre il Festival perdeva le ennesime occasioni, Wagner guadagnava alcune tra le sue interpretazioni più avvincenti). Altri ancora rifiutarono seccamente l’invito (e taluni non vennero invitati affatto: anche per motivi extra musicali). Si arrivò al paradosso per cui, mentre Bayreuth perpetuava il suo culto, svuotato di contenuti e gonfio di retorica, in tutto il resto del mondo l’interpretazione wagneriana conosceva nuove sfaccettature, nuove visioni estetiche, nuove letture (e poco rilevò la felice eccezione della “Neue Bayreuth” o il richiamo della coppia Boulez/Chereau, nella stagione del centenario, per far finta di essere rivoluzionari, magari tingendo il Festival di sfumature socialisteggianti, in ossequio alla moda del decennio o per garantirsi il plauso della critica radical chic: in realtà un’operazione da Gattopardo, cambiare tutto perché non cambi nulla…dato l’insuperato ingombro di un passato mai voluto affrontare seriamente, e lo scarso livello artistico raggiunto). Ma è negli ultimi anni – corrispondenti alla seconda parte del “dominato” di Wolfgang (e le avvisaglie della nuova gestione di Katharina ed Eva, non lascia presagire miglioramenti) – che il livello precipita. Se si scorre la più recente cronologia si incontrano nomi che stupisce veder assurgere al preteso vertice dell’esegesi wagneriana! E tra di essi Barenboim e Levine (visto il clima generale che si respira nelle sale del Festspielhaus, la cosa appare curiosa: Bernstein – che pure amava la musica, solo la musica, di Wagner, definito “ripugnante antisemita” – si rifiutò sempre di dirigere a Bayreuth; e del pari è noto l’episodio che vide Maazel, suo malgrado, protagonista, allorquando, nel ’70, Winifred dichiarò ai suoi divertitissimi ospiti che “Nonostante sia ebreo, Maazel sembra avere un certo talento”). In proposito è illuminante la lettura dello scomodo e sofferto libro “Il crepuscolo dei Wagner”, scritto dal pronipote ribelle Gottfried e ripudiato con sdegno dal resto della famiglia. Viene da chiedersi, quindi, il perché di certe assenze: Abbado, Tate, Rattle, Gergiev. Lo stesso Wagner di Muti, che non è certamente indimenticabile, ma che non è certamente inferiore a quello di Gatti (a cui ancora è affidato il Parsifal: ora, è vero che non ci vuole molto a rendere noioso il buon Richard, ma per riuscirci con Wozzeck significa esserci portati e avere del “talento” nel merito – talento che, ahimè, non è sfuggito agli attuali reggitori del Festival). Forse davvero dirigere alla Festspielhaus toglie più di quanto dà! Forse c’è più da perdere (soprattutto in salute), o forse è davvero difficile “far musica” schiacciati tra dogmi, imposizioni e “beghe” familiari. Quest’anno, poi, vi è un’ulteriore minaccia che scuote le fondamenta della Sacra Collina, suscitando uno sdegno scandalizzato nei tanti bidelli del Walhalla che ne assiepano le pendici (vere o figurate). E non sono i passi di Fasolt e Fafner, bensì – orrore – le rimostranze sindacali dei lavoratori che minacciano uno sciopero mettendo in predicato la prima delle sacre rappresentazioni. Già, perchè, le maestranze, forse non abbastanza appagate per il solo fatto di “servire” Wagner e il suo culto, hanno osato lamentarsi delle paghe che il Bayreuther Festspiele riserva loro (3 o 4 € l’ora, pare). Ma anche questa è Bayreuth! Prendere o lasciare! E, mentre anche la Chiesa Cattolica ha avuto il suo Concilio Vaticano II, al Festspielhaus nulla appare cambiato dal 1876: e di nuovo sulla Sacra Collina di una sonnolenta Baviera tutto è pronto per officiare il rito. Sempre uguale a sè stesso. E non si osino coltivare troppe illusioni circa aperture a realtà diverse: la rappresentazione di quelle opere lasciate al di fuori del Canone (Le Fate, Rienzi, Il Divieto d’Amare, le Cantate, la Musica Sinfonica..), oppure l’analisi di quegli autori che hanno influito sulla formazione dell’autore (ma i wagneriani sono troppo convinti dell’assolutà unicità del loro nume per accorgersi dei tanti debiti nei confronti dei suoi contemporanei e predecessori). E resta un sogno perverso – per quanto gustoso – immaginare inscenata nel tempio consacrato alla musica dell’avvenire, quella Favorita – del tanto odiato Donizetti – il cui successo, a Parigi, gli procurò rabbia isterica e gretta invidia, oltre a consentirgli di esprimere bassezze indegne (come il rallegrarsi per l’incendio che divorò il Théâtre Des Italiens): ma mi piace immaginare le sdegnate proteste dei wagneriani più accesi e dei critici più intransigenti! Chiudo citando alcune delle parole scritte da Nietzsche su Wagner (e forse “Il caso Wagner” andrebbe letto con attenzione da parte delle tante vittime del wagnerismo più integralista): “L’adesione a Wagner si paga cara. Misuriamola con i suoi effetti sulla cultura. Chi propriamente è stato portato in primo piano dal suo movimento? Che cosa ha esso coltivato verso una sempre maggiore grandezza? – In primo luogo la presunzione del profano, dell’idiota in arte. Tutta questa gente organizza oggi associazioni, vuole imporre il proprio “gusto”, vorrebbe far da giudice persino in rebus musicis et musicantibus. Secondariamente: una indifferenza sempre più grande verso ogni severa, nobile, coscienziosa istruzione al servizio dell’arte: viene messa al suo posto la fede nel genio, o più chiaramente, lo sfrontato dilettantismo (- la formula di tutto questo è nei Maestri cantori). In terzo luogo, ed è la cosa peggiore, la teatrocrazia -, la bizzarria di una credenza nel primato del teatro, in un diritto alla supremazia del teatro sulle arti, sull’arte… Ma si deve dire cento volte in faccia ai wagneriani che cosa è il teatro: sempre soltanto un di sotto dell’arte, sempre soltanto qualcosa di secondario, qualcosa di predisposto, di artatamente predisposto per le masse! A tutto questo neppure Wagner ha portato un mutamento: Bayreuth è una grande opera lirica – e neppure una buona opera… Il teatro è una forma della demolatria nelle cose del gusto, il teatro è una rivolta delle masse, un plebiscito contro il buon gusto… Questo appunto dimostra il caso Wagner: egli conquistò la moltitudine – pervertì il gusto, pervertì persino il nostro gusto per l’opera!

 

7 pensieri su “I venerdi di Wagner: Fine al rito? – Bayreuth 2009

  1. Pur sembrandomi muovere da qualche preconcetto artistico su Wagner, devo dire che le considerazioni portate riguardo le degenerazioni bayreuthiane del wagnerismo sono del tutto condivisibili e fondate su fatti storicamente accertati. Il Tristan di ieri, almeno all’ascolto radiofonico, incarna la sintesi del degrado di Bayreuth: una direzione anonima e un cast da censurare, esclusi forse Dean-Smith e Holl.

    Mi permetto poi di dissentire sul giudizio negativo riguardo, come minimo, a Thielemann e Pappano…

    Istruttivo il video di Furtwängler: I maestri cantori in marcia col passo dell’oca! Ma il vero Furtwängler era questo, o quello venuto più tardi alla Scala?

  2. Su Pappano e Thielemann il giudizio, in realtà, non è negativo. Semplicemente non li trovo ai vertici dell'interpretazione wagneriana: mi sembra che siano, in tale repertorio, sopravvalutati. Thielemann non mi sembra dica molto di nuovo nell'interpretazione wagneriana (i suoi Parsifal e Tristan sono la copia della copia della copia della tradizione esecutiva viennese), Insomma, kappelmeister con tutto ciò che di negativo e di positivo il termine rappresenta!

    Il filmato di Furtwangler non vuole essere affatto una critica al grandissimo direttore, e in effetti la sua interpretazione del preludio dei Meistersinger è splendida… Vuole essere un omaggio ironico (ironia di cui i wagneriani ortodossi, così come Wagner, sono assolutamente privi).

    Ps: nessun preconcetto ideologico su Richard Wagner, ma un po’ di sana ironia – anche su uno dei più grandi compositori di sempre – è opportuna! I wagneriani ortodossi sono sempre livorosi, intolleranti…quasi dei fanatici integralisti. Siamo più laici e tolleranti…

  3. Sentito il Tristan alla radio.Senza mezzi termini,una bella porcheria.Vi assicuro che quello a cui abbiamo assistito mercoledi scorso qui da noi,pur senza essere un´esecuzione perfetta,era di un livello infinitamente superiore.Se questo é il massimo che Bayreuth puó esprimere,allora non val proprio la pena di affannarsi tanto per un biglietto.
    Saluti

  4. Verissimo! E ancora c'è chi sostiene che oggi Bayreuth sia il faro dell'interpretazione wagneriana…

    La realtà del festival degli ultimi anni è DESOLANTE…ma anche se si risale indietro nel tempo si scoprono pecche e "magagne". Pensa al mediocre Ring di Barenboim (quello con la brutta regia di Kupfer)…

    Sarebbe ora di smitizzarla quesa Sacra Collina….

  5. Analizziamo gli ultimi festival e gli ultimi cantanti che vi hanno partecipato partendo dalle presenze che reputo inspiegabili.
    Meistersinger:
    Hawlata con la sua voce corta ruvida e inespressiva è il miglior Sachs?
    Michaela Kaune con la sua voce anonima, stimbrata e inespressiva è la migliore Eva?
    Artur Korn con la sua voce ingolata e gutturale e inespressiva è il basso migliore per interpretare Pogner?
    Volle con la sua voce ruvida e parlante è la miglior scelta per il ruolo di Beckmesser?
    Irene Theorin con la sua voce anonima problematica e inespressiva è la migliore Isotta?
    Michelle Breedt con la sua voce anonima e casalinga è la miglior Brangaene?
    Dohmen, Shore, Siegel, Schmidt, Franz, Mayer, Eberz, Jesatko, Fujimura sono i migliori interpreti dei ruoli di Wotan Alberich, Mime, Siegfried, Erda, Waltraute, Parsifal, Klingsor, Kundry con le loro voci traballanti, stimbrate, acide, nasali e problematiche???
    E non ditemi che li hanno scelti per esigenze di regia, perchè altrimenti era meglio che si rivolgessero al teatro di prosa.

  6. Sulla smitizzazione della sacra collina sono d'accordo.
    Ma ai tempi di Winifred Wagner Bayreuth aveva davvero il meglio dei cantanti e dei direttori, gli allestimenti diretti da Wieland Wagner (oltre ad essere oggi modernissimi vedi Tristan e Walkure in video) avevano cast davvero interessantissimi!
    Spezzo una lancia sugli allestimenti diretti da Boulez e Barenboim.
    Nel primo caso i cantanti scelti erano davvero il meglio che allora passava il convento, e nel caso di alcuni siamo secondo me da vanti ad interpretazioni di pregio.
    Nel secondo caso, la regia di Kupfer è per me un capolavoro perchè crea qualcosa di moderno restando fedelissimo al testo wagneriano, in più anticipa di 10 anni l'immaginario post moderno di Matrix e dei fumetti giapponesi!
    Il cast di quel Ring a me è sempre piaciuto, non saranno le voci sontuose di ben altri cantanti, ma vivadio, cantavano e interpretavano bene!!!
    Se confrontiamo la regia di Katharina Wagner con le due precedenti del padre…mi imbarazzo per la figlia sinceramente (c'è il video…mamma mia)

  7. Assolutamente d'accordo circa le valutazioni su Katharina (prova vivente che il talento – non dico la genialità – non si trasmette attraverso il patrimonio genetico: cosa che si può dire fin da Siegfried…e oggi è ancora più annacquato).

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