La stagione 2009 della Fenice si è chiusa ieri sera con un dittico composto da Šárka di Janacek e Cavalleria rusticana di Mascagni.
Sulla prima, scelta verosimilmente sull’onda del vento ambrosiano al nobile e utile scopo di dirozzare il pubblico veneziano, non sufficientemente avvezzo al Cigno di Hukvaldy, non ci soffermiamo, poiché abbiamo accuratamente evitato l’ascolto. Rozzi, ignoranti, vociomani e passatisti quali altro non siamo giudicati, ci siamo concentrati su Cavalleria, la cui proposta oggi è ormai da reputarsi rarità, quasi che il teatro lagunare avesse riproposti gli Orazi cimarosiani o l’Artemisia del medesimo Maestro. Se dovessimo giudicare il livello della serata dalla sola seconda parte, dovremmo concludere di non avere perso molto.
Non dovrebbe essere impossibile allestire un titolo già di grande repertorio, quale è l’atto unico di Mascagni. Opera breve, con tre sole prime parti, una delle quali dalla scrittura così centrale da convenire tanto a un soprano che sia almeno lirico, quanto a un mezzosoprano. Difficoltà non insormontabili anche per il direttore e concertatore. Eppure.
Eppure, a onta dell’esperienza e del mestiere di Bruno Bartoletti, abbiamo udito un’orchestra corretta, ma greve e bandistica (anche al di là di quanto richiesto da una partitura che certo non abbonda in finezze), e una gestione spesso approssimativa delle masse corali, le quali hanno contribuito a indebolire il quadro di apertura e il coro successivo al celebre Intermezzo.
Eppure, nell’elementare parte di Alfio, Angelo Veccia ha berciato malamente con acuti duri e fischianti, riducendo il marito ferito nell’onore a una caricatura della figura immaginata, sulla scorta di Verga, da librettisti e compositore.
Eppure, nei panni di Turiddu, Walter Fraccaro ha dispensato un canto brado, con sistematica apertura dei suoni al centro e conseguente difficoltà di toccare, nel duetto con Santuzza, un banale si bem. Grande poi la fatica nell’addio alla madre, in cui le frasi sottolineate da indicazioni come “dolcissimo” e “molto sentito” hanno evidenziato la difficoltà nel legato. Per inciso erano le medesime frasi che guadagnarono a Beniamino Gigli il soprannome meneghino di “caragnoûn”.
Eppure, Anna Smirnova, nominale mezzosoprano che piace alla gente che piace (potremmo dire citando lo slogan di una nota autovettura) e in quanto tale ha di qui al 2012 un carnet d’impegni degno di una Cossotto o una Verrett, ha sfoggiato una prima ottava artificiosamente pompata alla vana ricerca di sonorità, una zona medio-alta in cui si palesa, con la vera natura di soprano lirico spinto, una diffusa abitudine a ghermire i suoni, che sono di conseguenza oscillanti e stridenti, e una fascia acuta (che il ruolo sollecita in misura minima: il si nat opzionale in chiusa dell’inno pasquale è stato saggiamente evitato) problematica e perigliosa al pari di quella grave. Occasionali tentativi di smorzare e addolcire, ad esempio nella scena con la mancata suocera e nel duetto della delazione, hanno dato luogo a suoni poco appoggiati e indietro. L’accento è generico, per non dire inerte, a meno che non si voglia spacciare per accento o magari per grande interpretazione tragica una Mala Pasqua urlacchiata con poca voce. E un incipit del duetto con Turiddu da vecchia zittella smaniosa.
Tacciamo per carità cristiana delle comprimarie, ma dobbiamo sottolineare come Mamma Lucia non differisse, per timbro e impostazione vocale, dalla nuora mancata.
Forse la Fenice avrebbe dovuto proporre Šárka in accoppiata con Erwartung. E non è una battuta.
Sulla prima, scelta verosimilmente sull’onda del vento ambrosiano al nobile e utile scopo di dirozzare il pubblico veneziano, non sufficientemente avvezzo al Cigno di Hukvaldy, non ci soffermiamo, poiché abbiamo accuratamente evitato l’ascolto. Rozzi, ignoranti, vociomani e passatisti quali altro non siamo giudicati, ci siamo concentrati su Cavalleria, la cui proposta oggi è ormai da reputarsi rarità, quasi che il teatro lagunare avesse riproposti gli Orazi cimarosiani o l’Artemisia del medesimo Maestro. Se dovessimo giudicare il livello della serata dalla sola seconda parte, dovremmo concludere di non avere perso molto.
Non dovrebbe essere impossibile allestire un titolo già di grande repertorio, quale è l’atto unico di Mascagni. Opera breve, con tre sole prime parti, una delle quali dalla scrittura così centrale da convenire tanto a un soprano che sia almeno lirico, quanto a un mezzosoprano. Difficoltà non insormontabili anche per il direttore e concertatore. Eppure.
Eppure, a onta dell’esperienza e del mestiere di Bruno Bartoletti, abbiamo udito un’orchestra corretta, ma greve e bandistica (anche al di là di quanto richiesto da una partitura che certo non abbonda in finezze), e una gestione spesso approssimativa delle masse corali, le quali hanno contribuito a indebolire il quadro di apertura e il coro successivo al celebre Intermezzo.
Eppure, nell’elementare parte di Alfio, Angelo Veccia ha berciato malamente con acuti duri e fischianti, riducendo il marito ferito nell’onore a una caricatura della figura immaginata, sulla scorta di Verga, da librettisti e compositore.
Eppure, nei panni di Turiddu, Walter Fraccaro ha dispensato un canto brado, con sistematica apertura dei suoni al centro e conseguente difficoltà di toccare, nel duetto con Santuzza, un banale si bem. Grande poi la fatica nell’addio alla madre, in cui le frasi sottolineate da indicazioni come “dolcissimo” e “molto sentito” hanno evidenziato la difficoltà nel legato. Per inciso erano le medesime frasi che guadagnarono a Beniamino Gigli il soprannome meneghino di “caragnoûn”.
Eppure, Anna Smirnova, nominale mezzosoprano che piace alla gente che piace (potremmo dire citando lo slogan di una nota autovettura) e in quanto tale ha di qui al 2012 un carnet d’impegni degno di una Cossotto o una Verrett, ha sfoggiato una prima ottava artificiosamente pompata alla vana ricerca di sonorità, una zona medio-alta in cui si palesa, con la vera natura di soprano lirico spinto, una diffusa abitudine a ghermire i suoni, che sono di conseguenza oscillanti e stridenti, e una fascia acuta (che il ruolo sollecita in misura minima: il si nat opzionale in chiusa dell’inno pasquale è stato saggiamente evitato) problematica e perigliosa al pari di quella grave. Occasionali tentativi di smorzare e addolcire, ad esempio nella scena con la mancata suocera e nel duetto della delazione, hanno dato luogo a suoni poco appoggiati e indietro. L’accento è generico, per non dire inerte, a meno che non si voglia spacciare per accento o magari per grande interpretazione tragica una Mala Pasqua urlacchiata con poca voce. E un incipit del duetto con Turiddu da vecchia zittella smaniosa.
Tacciamo per carità cristiana delle comprimarie, ma dobbiamo sottolineare come Mamma Lucia non differisse, per timbro e impostazione vocale, dalla nuora mancata.
Forse la Fenice avrebbe dovuto proporre Šárka in accoppiata con Erwartung. E non è una battuta.
Gli ascolti
Mascagni – Cavalleria rusticana
Atto unico
Voi lo sapete, o mamma – Bianca Berini (1976)
Avessimo il caragnun, Gigli, in giro oggi!!!! Oddio dopo un'accurata cura dietetica e palestraria e una consulenza modaiuola s'intende…
Logicamente le Santuzza che ricordo io sono quelle passatiste: Nell Rankin, Milanov, Simionato, Eileen Farrell, e nel 1966 allo stadio di Lewisohn a Manhattan la Tebaldi canta "Voi lo sapete" (replicata in televisione a colori sulla Bell Telephone Hour visibile in dvd in una serata dedicata a lei e altre tre 3 primadonne del Met, L. Price, Nilsson e Sutherland!!!), Bumbry, Cossotto, Elinor Ross, Arroyo e un'intensissima Troyanos, la mia meno preferita. Pensate che grazie ad un'amica mia che lavorava dentro il Met dell'epoca, ho assisito ad una recita proprio della Berini da dietro le quinte durante una mio soggiorno lavorativo nella grande mela!
Non vi dico i tenori da Tucker a Corelli, ecc.
Oh sì, ogni tanto capitava qualche berciatore strillante ma era un'eccezione. A dire il vero, raramente si andava a guardare chi dirigeva. Se c'era Corelli, se c'era Tucker, se c'era Konya, NON c'erano problemi. Intanto l'orchestra e direttore accompagnava al loro meglio chi aveva a disposizione, come si conviene ad un'orchestra "lirica" che si rispetti.
Perchè la Nilsson durante le prove di Brunnhilde nella preparazione de "L'Anello" litigò con von Karajan? Le dava fastidio la luce costante che si faceva risplendere dall'alto sul podio come se fosse piovata dal cielo su di lui. Glielo disse e se ne andò. Continuò fare una grande carriera dappertutto senza la sua direzione "divina"!
La Leontyne Price litigò perché lui volle che la signora facesse la Carmen in scena. Dopo i vari esiti della Fanciulla del Met e la registrazione della Carmen, decise che non era per lei e rifiutò. Lui si offese perchè una "cantante" osò fare una decisione del genere. Molto dopo si fecero "pace" per un ultimo recital e Trovatore salisburghesi.
Ma, eccomi arrivata alla solita mia digressione che confonde, forse giustamente, chi legge. Volevo parlare di direzione d'orchestra e cantanti perchè avete tanto parlato del Bartoletti che ormai…
Vi chiedo scusa.
Insomma, per quel poco che ho sentito io, questa Cavalleria faceva pena (gentile parola sostituitiva per altre meno graziose).
Amen.
scusate, cosa intendete ( un po tutti, l'ho letto spesso ) quando parlate di acuti "ghermiti"?
e agilità "spianate"?
"acuti ghermiti": toccati con supremo e udibile sforzo, spesso e volentieri anche calanti d'intonazione
"agilità spianate": sistematicamente semplificate rispetto a quanto previsto dall'autore
esempio perfetto per le due categorie:
Katia Ricciarelli in buona parte del suo repertorio (Rossini tragico in primis)
grazie mille
Cari amici, non capisco il perché della vostra antipatia per Janacek. Il quale era un compositore grandissimo, innovatore e veramente di intenso soffio lirico. Ho visto "La piccola volpe astuta" a Firenze, diretta da Ozawa, e mi sono profondamento commosso.Fedele D'Amico, forse il maggior storico della musica degli ultimi cinquanta anni in Italia, mi diceva che il più bello spettacolo lirico che avesse mai visto era appunto la "Volpe" alla Komische Oper di Berlino est, diretta da Vaclav Neumann e con la regia di Walter Felsenstein, un nome quest'ultimo che credo metta tutti d'accordo come uno dei più grandi registi d'opera di tutti i tempi. E D'Amico adorava Rossini e l'opera italiana in generale. Poi al Sig. Scattare vorrei dire che sarà senz'altro vero che al Metropolitan si andava sostanzialmente per ascoltare i cantanti. Tuttavia mi pare difficile ignorare che su quell'illustre podio si sono alternati Mahler, Toscanini, Bruno Walter, Fritz Reiner, Georg Szell, Dimitri mitropoulos, James Levine. Vale a dire, la crème de la crème dei direttori d'orchestra.
Saluti da Marco Ninci
Non è antipatia verso Janacek, caro Ninci, ma insofferenza nei confronti dei signori sovrintendenti che credono, proponendolo in dosi industriali, di "fare cultura" per il semplice fatto di allestire la Jenufa o la Kabanova o ancora la Volpe astuta, senza preoccuparsi di chi dirige e canta. Potremmo sostituire il nome di J. con quello di Vivaldi e la questione non cambierebbe di una virgola.
Detto questo, sarei pronto a 'papparmi' tutte le opere di Janacek (possibilmente in traduzione italiana…) pur di vedere, accanto a quelle, una bella Fedora o una Francesca da Rimini. Opere che non faranno cultura, almeno non secondo i canoni dei signori sovrintendenti, ma…!!!