La Dimitrova nasce già soprano verdiano: voce torrenziale, dal colore e dall’accento drammatico, capace di assottigliarsi nelle sfumature e di affrontare le partiture con piglio deciso, ma anche soavità nel cantabile, ed una prtecipazione accesa e vibrante.
La vera questione è: cosa rende Raina Kabaivanska un soprano adatto a Verdi?
Vi inviterei, oltre all’ascolto proposto, ad ascoltare e vedere la Kabaivanska nel “Trovatore” diretto da Herbert von Karajan (con Domingo, Cappuccilli e Cossotto); Leonora non sarebbe sulla carta un ruolo adatto a lei; gli acuti ed i sovracuti suonano duri ed il timbro vocale, più scuro ed acidulo negli anni 70, non la renderebbe una scelta ideale per un ruolo tanto sensuale.
Eppure la “sua” Leonora è un crogiuolo di femminilità e seduzione, le sue arie sono un’ oasi delicatissima in cui la raffinatezza del fraseggio e della figura si sposano perfettamente con le esigenze vocali della parte rendendola una creazione unica!
Ma veniamo a questa “Forza del destino”.
Raina Kabaivanska esordisce nel 1959 con “Tabarro”, ma già nel 1962, interpretando Nedda in “Pagliacci”, è presente al Metropolitan di New York, palcoscenico su cui figurerà fino agli anni ’70 con una certa assiduità.
Nel 1964 viene diretta ne “La forza del destino” per due recite da Nello Santi, affiancata da cast che prevede Carlo Bergonzi, Nicola Herlea, Bonaldo Giaiotti, Fernando Corena e Joan Grillo, di cui ci resta una fortunata incisione dal vivo che rende omaggio alla sua incarnazione di Donna Leonora.
Il tema del destino con il suo tempo Allegro agitato e presto e adagiato su un mezzoforte, introduce l’arrivo di Leonora al Convento accanto alla Chiesa della Madonna degli Angeli.
L’apparire del soprano muta il tempo prescritto in un Allegro emesso in fortissimo che istantaneamente lascia spazio ad un piano su cui Leonora dovrà cantare i due Fa4# che scendono al Fa3 di “Son giunta!…” .
Ciò che colpisce immediatamente del canto di Raina Kabaivanska è la timbratura fresca e naturale del registro centro-grave con il quale morde letteralmente frasi come “Estremo asil questo è per me!…”, “La mia orrenda storia…”, “Ei disse naviga verso occaso Don Alvaro” su cui l’accento agitato, ma vibrante di femminilità fa emergere la personalità della cantante, ma in misura maggiore l’ansia febbrile della protagonista.
Il timbro, a pochi anni dal debutto, è ancora lirico, ricchissimo di sfumature e le note sotto al rigo non perdono mai la loro limpidezza risultando sempre perfettamente udibili e omogenee al pari del sempre scattante registro acuto.
Ii fortissimo prescritto sui due Fa della parola “Cielo” è tenuto su una emissione solida e naturale, ed è intriso di sgomento e orrore al pari della sublime frase “Io, io del sangue di mio padre intrisa,…” in cui dal Sol4 forte si arriva al Do sotto il rigo, ribattuto ancora nella seguente frase che si inabissa al Si2 di “Perdei”.
Insomma, nulla ottenebra l’emissione del soprano che dimostra di saper padroneggiare un legato esemplare, tutto sul fiato e senza alcuna spezzatura nella frase “Ed or mi lascia, mi lascia, mi fugge!” concluso da un Si naturale timbrato, il cui vibrato da l’idea di un lieve sforzo, ma senza rovinare l’effetto d’angoscia e senza perderdita del tono.
Esemplare il morendo prescritto sulla parola “Ambascia”, come evocativo è l’uso delle forcelle espressive dell’aria “Madre pietosa, Vergine” che onora l’Allegro assai moderato, come un lamento, donando forza e leggerezza alle note, oppure come la linearità con cui affronta il declamato insistente sui Sol, La e Si3 ripetuti in crescendo.
Tutto il brano viene risolto raccogliendo la voce la cui vibrazione fa davvero percepire come questa preghiera, liberatoria nella sua tragicità, che si tinge di sofferta speranza, possa diventare un momento intimo in cui Leonora si isola da tutto il suo passato, mentre la voce deve sostenere una tessitura molto centrale che si inarca verso un La naturale, luminoso, ma leggermente incerto.
“Ah! que’ sublimi cantici…” con i suoi Fa3, seguiti dai Sol3 di “Dell’organo i concenti…”, rappresentano il semplice stupore della donna di fronte ad un canto di per se catartico e ovattato, proveniente dal luogo di culto, la Kabaivanska onora perfettamente le due forcelle su “Ascendono a Dio sui firmamenti” rendendo la frase una gemma levigata.
Geniale il Poco più mosso angoscioso nel suo fraseggio che ritroviamo pieno di fremiti su “Che il pio frate accoglierti no non ricuserà, no, no!” tutto giocato su un crescendo anche vocale che serve a donare coraggio alla coscienza già tanto fragile di Leonora e il Fa coronato è davvero un brivido di speranza!
Tutte le frasi successive che pregano Dio di aver pietà sono giocate su un animando commovente, cocluso da un “Pietà di me” in cui la Kabaivanska fa valere un pianissimo etereo che si spegne lentamente accompagnato da un portamento ascendente sulla parola “Signor”.
Questo è fraseggio che si imprime nella memoria, signori!
Se il Fa4# ppp che conclude il secondo “Vergin m’assisti” un suono cristallino e vibrante, il dialogo successivo con il Padre Guardiano ha il pregio di giocarsi sul timbro chiaro, ma intriso di drammaticità, tutto svolto sul nervosismo che si innalza e che si stempera nel legato delle frasi “Più tranquilla l’alma io sento” in cui Leonora può finalmente placare la propria angoscia e sciogliere il canto in un purissimo piano in cui quando la tessitura dal registro centrale si apre all’acuto, lo fa vibrando ma senza alcuno sforzo, corona inclusa.
Impressionanti le frasi “Perciò tomba qui desio, fra le rupi ov’altra visse.” e “Darmi a Dio!” in cui non basta seguire le prescrizioni della partitura, ma molto deve fare il carisma dell’interprete a dare quell’impeto, quasi imperioso, a parole del genere che ne determineranno il destino e bellissimo l’effetto dell’accento estatico e dolcissimo impresso alle frasi intonante insieme al basso e contrapposte all’essere fermo e solenne di quest’ultimo.
Dopo la confessione rivelata in punta di piedi sul destino del seduttore e del padre e la soluzione chiostrale del monaco, la Raina prorompe nel difficile “Un chiostro? Un chiostro? No.”, due gruppi di note apparentemente semplici, ma che possono indurre ad effetti veristi qui elegantemente evitati e conclusi da un solido Mi3, in cui allo sgomento iniziale fa posto la minacciosa perorazione in difesa di se stessa.
Alla parola “Aita” la Kabaivanska corona mirabilmente il Mi4 saldandolo al successivo Si3 ed il fraseggio che si ammanta di disperazione fa il resto anche con la successiva “Pietà” svolta in acuto e legata alla successiva frase “Fin le belve”.
“Salvati all’ombra di questa croce” sottovoce e misteriosamente è reso realmente tale da un pianissimo elettrizzante nel suo tingersi di visionarietà con le sue ripetizioni di Mi bem e Mi4 come per contrasto si tinge di toni caldi e gioiosi la seguente “Tua grazia, o Dio, sorride alla rejetta…” cantata avendo ben cura di legare tutte le note su un fiato saldo e naturale e seguendo il tempo più mosso accentandolo con bruciante giovinezza e mantenendo sempre cremosa e intonata la tessitura centro-acuta del brano.
Un Adagio che il coro esegue con ppp e che successivamente si trasforma in un crescendo seguito da un morendo introduce il canto in piano e rilassato di Leonora nella “Vergine degli angeli” in cui anche i pp ed i morendo vengono onorati grazie ad un timbro che si fa naturalmente più sottile e animato, senza perdere smalto e si riempie di rispettosa commozione, un momento questo che diventa una preghiera tutta interiore in cui la musica sembra provenire da lontanissimo e sciogliersi in silenzio pacifico.
Se la Kabaivanska la drammaticità del personaggio la faceva emergere non tanto per mezzo del timbro, ma in virtù di un accento incandescente, la temperamentosa e appassionata Dimitrova, forte di una voce già drammatica, quell’accento lo possiede già in natura, infatti il ruolo è dominato in tutta la sua estensione.
Nel biennio ’71-‘72 la Dimitrova, affiancata da cantanti come Joao Gibin, Lorenzo Saccomani, Mirna Pecile, Silvano Pagliuca, Giuseppe Lamacchia e da direttori come Paul Ethuin e Alain Lombard, stava portando “La forza del destino” fuori dai confini della Bulgaria e del Teatro di Sofia, dove aveva esordito nel 1967, facendo tappa a Rouen, Bordeaux, Toulouse, Marseille, Nizza e Strasburgo dove fu effettuata questa registrazione.
Già il “Son giunta!…grazie, o Dio!” con i suoi Fa naturali e centrali si carica di un effettivo sfinimento emotivo più che fisico, così il piano diventa una modulazione che sottrae volume, ma non perde nulla in qualità timbrica.
Le frasi successive che insistono sotto al rigo e sul registro centrale, martellando più volte sul Mi e Sol3 vengono affrontate con un fraseggio incalzante che si carica di tensione e sfutta abilmente la pienezza della voce nel centro e nel grave.
Impressionante la tensione che si viene a creare da una frase come “Né morto cadde quella notte in cui io, io del sange di mio padre intrisa, l’ho seguito e il perdei!” in cui la tesitura si fa scomoda saltando da un Sol4 emesso in forte sulla parola “Sangue” per poi scendere, quasi vocalizzando, al Do3 più volte ripetuto nel prosieguo.
Solido il legato previsto in “Ed or mi lascia” in cui la tessitura alzandosi diventa speculare della frase precedente, in cui al declamato deve sostituirsi il legato delle note acute che coinvolge un fraseggio colorato di disperazione ben maggiore visto che ritorna il ricordo dell’amante fuggitivo, cosa che la Dimitrova risolve abilmente senza eccedere nel volume, ovunque enorme, e senza scadere nel verismo, inutile qui, e assottigliando il suono fino al morendo finale sul Mi3 di “Ambascia!”.
In “Madre, pietosa Vergine” è risolta con un senso del legato per quanto attiene la parte tecnica ed un fraseggio che obbediscono pienamente al come un lamento previsto da Verdi, ma senza che l’aria ne risulti appesantita o che la personalità dell’interprete venga penalizzata.
La Dimitrova si trova più a suo agio con le forcelle che indicano un aumento del suono piuttosto che con quelle “discendenti”, ma senza che l’interpretazione ne venga danneggiata e risulta comprensibile nel caso di una voce così ampia e ricca di armonici; e infatti frasi come “Pietà di me, Signore… Dio, non m’abbandonar.” sono illuminate da un fervore screziato di passione, oltre che da messe di voce e piani veramente rigogliosi e pieni di verità teatrale!
Così è efficacissimo il contrasto tra una voce così appassionata ed il canto più disteso dei frati che introduce “Ah! què sublimi cantici…” cantato quasi all’unisono con il coro e con una grazia che lascai trasparire la pace che Leonora deve sentire di fronte al canto sacro.
L’ascesa dal Si3 al Fa#, con il legato sulle note Mi-Re sono realmente emozionanti nella loro semplice partecipazione!
Le frasi che puntano sul declamato si colorano della stessa ansia iniziale, traducendosi a livello interpretativo con il fare emergere l’insicurezza di Leonora di fronte alla sconosciuta decisione del Padre Guardiano; così la ripetizione della preghiera, ma con più forza, preceduto da un “No non ricuserà no no” coronato da un Fa# vibrante, diventa con tutta la forza del legato un momento liberatorio per il personaggio, nonostante il primo La naturale non sia proprio centrato, ma redento dalla stessa nota successiva sicuramente più omogenea e timbrata, per poi terminare l’aria riducendo il suono ad una lamina dolcissima.
E si diceva che la Ghena fosse interprete e cantante rozza!
“Infelice confusa rejetta” possiede quella intima agitazione richiesta dal compositore e bellissimo è l’effetto sulle due forcelle che coronano la parola “maledetta” tingendola di quell’effettivo intimo orrore che deve necessariamente contenere.
Stesso effetto che si legge nella semplice “Fremete?”, dopo il riconoscimento, dove i due Mibem ed il Mi suonano scuri nella loro tinta ammantata di paura, mentre addirittura sfolgorante è “Ah tranquilla l’alma sento” più confidenziale rispetto a quello della Kabaivanska laddove la Raina lo trasformava in un momento interiore, mentre la Ghena in una umanissima rivelazione al Padre Guardiano, terminata da un poderoso Si naturale.
Fermezza addirittura marmorea in “Perciò tomba qui desio, fra le rupi ov’altra visse.”, praticamente un comando imperioso in cui è palpabile tutto il carisma dell’interprete e a cui è difficile dire di no, che si ripete in “Se voi scacciate questa penstita” e in “Voi mi scacciate? Voi?” in cui il soprano ha modo di far valere la pienezza del registro centro-grave.
“La Vergine degli angeli” è cantata sottovoce, ed è realmente una preghiera di grande purezza che si fonde con il canto sussurato del coro, come se si trattasse di una partecipazione collettiva alla redenzione della donna, grazie alla pronuncia dolcissima in cui il legato si fa espressivo e il registro centro-acuto ha modo di brillare nitido e timbrato e pazienza se il Sol finale tremola leggermente, quella nota nulla toglie alla bontà dell’immedesimazione emotiva.
In entrambi i casi le due artiste fidandosi del compositore, della propria voce e della propria intelligenza hanno dato vita a due Leonore diversissime, eppure credibili nella loro naturalezza teatrale esente da manierismi e intellettualismi.
Al fianco della Kabaivanska emergono il canto sicuro e paterno di Giaiotti nel ruolo del Padre Guardiano, e quello malizioso e sgraziato di Corena come Melitone, mentre a Strasburgo con la Dimitrova, ascoltiamo il Padre Guardiano scuro, ma fisso di Pagliuca ed il Melitone più amaro e confidenziale di Lamacchia.
Tra le due bacchette è da preferire la lettura di Santi al Met, sicuramente più precisa e avvincente.
Gli ascolti
Verdi – La forza del destino
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine…Chi siete?…Più tranquilla l’alma sento…Se voi scacciate questa pentita…Sull’alba il piede all’eremo…Il santo nome di Dio Signore…La Vergine degli Angeli
1964 – Raina Kabaivanska (con Bonaldo Giaiotti & Fernando Corena – dir. Nello Santi – Met, New York)
1972 – Ghena Dimitrova (con Silvano Pagliuca & Giuseppe Lamacchia – dir. Alain Lombard – Opéra National du Rhin, Strasburgo)