Simon Boccanegra a Parma: Francesco Meli ha fatto l’acuto.

Serata di grande attesa a Parma per il Simon Boccanegra verdiano. Pur senza il sold out ( numerosi i posti vuoti in platea e palco ) era il solito scintillìo di abiti lunghi delle dame locali, che non sanno rinunciare all’esagerato lusso delle paillettes, dei sandaletti piumati, dei boa color ceralacca, degli abitini in foggia di lucide sottovesti, aderenti e traditrici, proposti dalle boutiques locali. La gara delle “mises“, infatti, è sempre il più divertente capodopera delle serate parmigiane, in cui normali eventi musicali vengono vissuti con caratteristica esagerata amplificazione padana.
Quanto al resto, una serata d’opera fatta più di inadeguatezze e banalità che di vero canto, da cui è uscito con successo, ma senza esagerazione alcuna, il solo Francesco Meli, al debutto nel ruolo ed unico motivo di curiosità di questa produzione.

La ripresa dell’allestimento che a Bologna aveva inaugurato la stagione passata, infatti, oltre al detto Meli annovera come protagonista Leo Nucci; Roberto Scandiuzzi chiamato in corsa a sostituire l’indisposto Marco Spotti nel ruolo di Fiesco; Tamar Iveri quale Amelia, Simone Piazzola, anch’egli sostituto tardivo, nel ruolo di Paolo. Il tutto nelle mani della bacchetta di Daniele Callegari.
Bacchetta, lo diciamo subito, mediocre e noiosa, nemmeno tanto sicura in certi accompagnamenti ove i cantanti sono parsi piuttosto in ansia nel riferirsi a lui. Vari gli attacchi sporchi dell’orchestra, che sono stati forse il peccato veniale della sua direzione, incapace di trovare i colori adeguati alle suggestioni ambientali ed alla tensione drammatica dell’opera. Con un cast senescente o, al meglio, sottodimensionato nel tasso drammatico, e perciò fisiologicamente impossibilitato a trovare accenti adeguati al testo, Callegari si è ben guardato dal supplire lui con la sua buca alla pochezza della scena. Il settore degli archi, in particolare, non ha mai esibito cavata, pienezza di suono, intensità espressiva, come avrebbe potuto e dovuto essere nei momenti topici del canto delle voci gravi maschili soprattutto. Non parliamo poi di quelle straordinarie ed irresistibili atmosfere che Verdi ha composto, nel prologo come nell’entrata di Amelia, nel concertato del palazzo degli abati come nella scena finale della morte di Simone, e soprattutto nel duetto dell’ultimo atto tra i due grandi vecchi. Callegari ha dispiegato un po’ di clangore e qualche abbozzo coloristico solo alla scena del palazzo degli Abati, ma, si sa, in quell’occasione Verdi è talmente teatrale e a tinte forti di suo che è quasi impossibile fare peggio. Ci avrebbe fatto piacere che almeno avesse preteso di avere in scena di qualche corista in più ( erano davvero in quattro gatti in quel concertato ) ed un filo in più di spessore orchestrale, perché tutto ha avuto il sapore della “domestic production”, allestita nella salone di casa, mentre il Simone ( sarò forse deformata io nelle mie idee ) è opera monumentale, solenne e per grandi voci.

Grandi voci che peraltro non erano presenti in scena, o perché di tonnellaggio inadatto a Verdi o perché ridotte a spettri, buoni per una notte macabra sul Monte Calvo.
Il signor Rigoletto, impegnato ad interpretare Leo Nucci nei momenti liberi, si è dimenticato che Simone Boccanegra non ha gli 80 e passa anni del vecchissimo doge Foscari, né barcolla in scena dal prologo al finale come il buffone della corte di Mantova, essendo un corsaro nel pieno della giovinezza al prologo, assassinato quando ancor non poteva ancora aver compiuto cinquant’anni nel resto dell’opera. Che sia un padre maturo ed austero nel corso degli atti è certo, ma che paia il fuggiasco di una casa di riposo per anziani dementi assolutamente no. Non parliamo poi del canto, duro, con le grandi nobili e sontuose frasi verdiane ghermite e sbranate alla comeposso, il timbro legnoso e talora nasale. Complice una tessitura a lui meno consona di quella acutissima di Rigoletto, si sono sentite stonature continue, insopportabili ed infiniti portamenti, calanti oltre ogni umana capacità di sopportazione. Gli hanno fanno difetto l’ampiezza, la morbida ed nobile cavata prerogative necessarie al canto di Boccanegra, insomma i presupposti al fraseggio. Solo gli acuti estremi sono arrivati, di tecnica, centrati sulla nota e precisi, sebbene con voce senescente. Nessun impegno o ingegno per metter lì qualcosa che servisse al personaggio: frasi come l’attacco “Plebe patrizi popolo” sono arrivate ghermite e dure al pari di quelle come “ e vo’ gridando pace, e vo’ gridando amor..”, in un tutto indistinto ed indifferenziato di berci, sguaiataggini e stonature. Una prova indegna di un artista di fama, intelligenza e carriera quale è quella di Leo Nucci: la presunzione che ancora lo spinge a calcare le scene in queste condizioni urta gli spettatori come me ( e non solo, a cominciare dai miei vicini di ieri ), che non si sentono né rispettati né onorati dalle sue prestazioni, ma insultati. Tanto che non sento di dover in alcun modo censurare quello che penso di quanto ho visto e sentito. Il ritiro per questo artista urge, perché ora sta davvero sfidando il bon ton del suo pubblico che ancora non può o vuole venir meno a quel doveroso rispetto che si concede ai grandi in declino. E gli applausi alla fine sono stati cordiali, ma imparagonabili a quelli ricevuti in altre occasioni.

Altrettanto dissestato sul piano vocale, un po’ meno su quello scenico, il Fiesco di Roberto Scandiuzzi.Gli restano di fatto le sole note gravi ad avere dignità di emissione, in una organizzazione vocale ove non può dare mai pieno volume al suo mezzo al fine di nascondere le oscillazioni vistose, caratteristiche delle sue prove recenti. Non riesce a fraseggiare perché non può legare i suoni, men che meno salire agli acuti. La voce è ora nasale, ora cavernosa e tubata; tutte le frasi sono state artatamente smorzate subito, le note mai tenute, a mascherare lo “stato dell’arte” della sua voce. Ne è risultato un Fiesco privo di canto, continuamente rotto o sulla difensiva, cui han fatto difetto vera nobiltà ed austerità, perché l’abuso del parlato e/o la mancanza di legato conducono a questo. L’aria ha ricevuto pochi consensi perché doveva controllarsi e barcamenarsi di continuo, tirando indietro la voce; sulle uova al duetto con Gabriele; una catastrofe a due il duettone con Simone all’ultimo atto, dove entrambi sono andati via in un vortice di stonature, cali, suoni emessi Dio sa come.. Se non altro aveva l’aria un po’ perplessa, non troppo convinta dell’esito delle cose….. ..il che è preferibile, anzi direi simpatico, rispetto a chi, invece, sta lì con l’aria convinta di farti fesso sempre e comunque…….Mi spiace.

La signora Iveri, ascendete stella del firmamento verdiano, è stata una garbata delusione. Dico garbata, perché la cantante non è certo di quelle sguaiate, che sbraitano e/o gesticolano per farsi notare nelle operone. Ma è quello che i milanesi definirebbero “ un rubìn”, cioè una vocina, educata ma senza alcun particolare fascino timbrico, dotata di una presenza scenica minima, da corretta educanda di collegio. E di qui ad essere Amelia Boccanegra ce ne passa, e parecchio.
Ha retto l’entrata esibendo il massimo del suo volume, quello del “lirico appena appena” ( sarebbe una vocina anche in Bohéme, tanto per intenderci ), in una esecuzione corretta ma incolore dell’aria, tanto che nessuno si è mosso per applaudirla. Ha poi messo lì il duo con Gabriele con un bel lirismo da giovane innamorata, ma già davanti a Meli non pareva certo una voce dotata del peso idoneo al ruolo; idem la scena con Boccanegra. Arrivati alla fatidica scena del palazzo del Abati, per quanto, come detto, si sia trattato di un “palazzetto” di proporzioni minime, la signora Iveri è letteralmente scomparsa quanto a presenza vocale. Le struggenti frasi per cui Verdi prescrive i“dolcissimo” di “Pace pace” come le successive “pace t’ispiri un senso di patria”, da attaccarsi invece sul F, sono arrivate come i pigolii di una bambina infante, e non con il lirismo aulico del soprano verdiano. Questi momenti, come pure le analoghe frasi del concertato finale, “No, non morrai l’amore vinca…”, pigolate ancor più perché a fine serata, dovrebbero essere la cartina di tornasole per quei soprintendenti e direttori artistici inesperti che, mancando del senso delle proporzioni necessario per capire il tasso verdiano di un soprano, potrebbero espletare le loro verifiche semplicemente attraverso l’ascolto dell’esecuzione queste frasi e l’effetto che ne deriva. Il canto era senza peso, la voce una fogliolina al vento in mezzo a tutto quel dramma di solisti e coro: mai a poi mai Verdi avrebbe concepito di mettere lì una voce simile a tirare il concertato. Tutto il resto è derivato da tale insufficienza evidente di peso, e di accento. Dopo il concertatone di primo atto, è sopraggiunta anche la vera fatica nel 2° e 3°, dove ha dovuto spingere ( compostamente, va detto ) in più occasioni per avere un po’ di spessore, eseguendo le note correttamente, ma senza mai poter fraseggiare. Non ricordo smorzature, messe di voce, intenzioni interpretative sensibili tali da essere riportate a voi in una cronaca, perché quando si è così sotto peso rispetto al ruolo fraseggiare è evidentemente impossibile. Amelia Boccanegra, per quanto psicologicamente aderente al clichè della figlia e dell’amante, canta numerose frasi concitate, in apprensione, di grande tensione drammatica. Tensione che per forza di cose è del tutto mancata al suo personaggio. Una Amelia incolore e poco significativa dunque.

Francesco Meli, al debutto in Gabriele Adorno, ha ricevuto l’unico vero applauso a scena aperta della serata, dopo l’aria del 2° atto, e alle uscite singole. Successo vero, ma non trionfo, di una prova alterna, la sola a piacere davvero, stando alla risposta del pubblico. La sua cosa migliore? Il si bem sparato di “Pel Cielo, uom possente sei tu” al palazzo degli abati: per la prima volta gli ho sentito azzeccare, per caso immagino, un acuto che fosse “fuori”, brillante e non strozzato. Miracolo! La cosa peggiore: il terribile terzetto con Simone ed Amelia “Perdon, perdono Amelia..”, uno dei momenti più pesanti della parte, dove sono previsti quei passaggi mibem4 -sibem 4 di “dammi la morte” da eseguire con un accento, uno squillo, un‘epica ed un tonnellaggio di voce che Meli non possiede, non essendo un tenore verdiano. Il passo gli è costato una fatica enorme, anche perché arriva a serata molto avanzata, per giunta dopo l’aria, ove aveva speso quasi tutto quello che aveva da dare. Basterebbe l’analisi della grande scena per dimostrare che queste prove verdiane sono forse d’effetto, soprattutto se gli altri cantano poco o niente, in un teatro piccolo e con un‘orchestra che è stata di fatto un ‘orchestrina. E queste sono forse vittorie di Pirro, pensate in prospettiva futura. La grande fatica per Meli si è sentita già nel reggere il recitativo della grande scena, “ Sento avvampar nell’anima..”, dove al passaggio “….mio furor, no non sarai sazio…”, con i la-la bem in cui si dovrebbe squillare, la buca lo ha coperto subito, nonostante il tenore abbia cantato il passaggio sul forte, mangiandosi anche lui, per forza di cose, le forcelle che Verdi impone in spartito. Nell’aria, poi, di nuovo gli effetti che Verdi richiede al tenore, ampie legature, doppie forcelle, men che meno quelle che portano ai ff scritti nelle ripetizioni di “priva di sue virtù…”, non hanno sortito l’effetto che dovrebbero avere, perché la voce era al massimo dall’inizio del brano. Ha cantato con voce vera, a pieni polmoni e di slancio, ma la dinamica non può esistere in queste condizioni, e questo è stato il vero limite al suo canto, che pure è arrivato con musicalità e sforzo di controllare l’emissione. Ognuno è ciò che è per sua natura, e Meli non è un tenore per questi ruoli. Proprio lui, che in una intervista di qualche anno fa, aveva dichiarato Carlo Bergonzi non essere una vera voce verdiana, immagino alludendo alla questione dello squillo, dovrebbe risentirsi invece proprio l’esecuzione bergonziana di questa scena, con sotto l’irruente ed elettrizzante orchestrona di Dimitri Mitropoulos al Met: ne avrebbe un esatta cartina d tornasole della propria verdianità e delle proprie reali possibilità di portare questi ruoli nelle grandi sale dei grandi teatri, magari con certe bacchette pestacchione come Barenboim. La voce di Francesco Meli è bella ed importante, ma in Verdi non è poi così grande, né piena, né ricca nei gravi: sarebbe bastato che Scandiuzzi, sul suo stesso palco, fosse quello di dieci anni, fa per sembrare ciò che è, un tenore al più lirico, ma non certo spinto, come è Gabriele Adorno.
Per completezza di cronaca, và detto anche che ha cantato con facilità il duetto al I atto con Amelia, pur con i noti problemi nell’esecuzione del passaggio di registro alto in “Angiol che dall’empireo piegasti”. Si è strozzato come al solito nei la acuti del duetto con Fiesco, “ Vieni ti benedico”, dove dovrebbe eseguire con altra ampiezza e nobiltà le solite forcelle doppie che costellano la parte. Non ha mai squillato nei concertati, dove, come tutti suoi colleghi, nessuno ha “forato”come si dovrebbe, ma ha cantato, con voce sonora, facile, da quell’iperdotato che è. Ogni tanto ha anche avuto buoni primi acuti, altre volte ha fatto come al solito. Ha emesso spesso delle buone a centrali, meno sguaiate di quelle che solitamente emette. Insomma, luci ed ombre in un repertorio per lui pericoloso e che non dovrebbe praticare, a parte il duca di Mantova ed Alfredo. Del resto, se Stefano Secco canta il Don Carlo ( !!!!!!!!!! ), logicamente Meli canta il Boccanegra, in compagnia di un soprano come la Iveri….
Una nota sul Paolo di Piazzola, applaudito al pari dei protagonisti. Non ci è parso baritono maturo per i grandi ruoli verdiani, perché la voce è spesso indietro, vuota in zona centro grave, e non di grande ampiezza a meno di forzarla. Il volume và e viene nel corso della serata, ed il mezzo non pare posizionato a fuoco, tanto che in alcuni passaggi pareva più un tenore di forza non sfogato che non un baritono. Lo risentiremo.

Successo non entusiastico, perché Verdi ormai è un musicista inallestibile, pur restando dell’idea che ieri sera qualcosa di meglio si poteva fare al posto del soprintendente.

Gli ascolti

Verdi – Simon Boccanegra

Prologo

A te l’estremo addio…Il lacerato spiritoMartti Talvela (1975)

Atto I

Propizio ei giunge…Vieni a me, ti benedicoRichard Tucker & Ezio Flagello (1969)

Favella il Doge ad Amelia Grimaldi?Giuseppe Taddei & Antonietta Stella (1966)

Atto II

O Inferno!…Sento avvampar nell’anima…Cielo pietosoCarlo Bergonzi (1960), Veriano Luchetti (1976)

5 pensieri su “Simon Boccanegra a Parma: Francesco Meli ha fatto l’acuto.

  1. L'unica cosa che posso fare è compatire l'autore di questa recensione falsa e faziosa.Io c'ero ieri sera così come molti altri che sono usciti contenti di aver assistito ad uno spettacolo molto soddisfacente.Per Sua cronaca il teatro era gremitissimo e scusi tanto se un teatro intero di "stupidi" ha applaudito tanto per qualcosa che ha fatto così tanto inorridire Lei.Ci pensi su 1000 volte prima di offendere ed insultare dei professionisti che oltre ad essere artisti di grande pregio sono anche esseri umani e come tali vanno rispettati.C'è un limite alla cattiveria,le Sue parole puzzano tanto di malignità bella e buona.Si vergogni e sia più obbiettiva.Dev'essere triste essere sempre scontenti,mai una buona parola,vorrà dire che d'ora in poi farà Lei il direttore artistico dei teatri tutti e già che c'è se le canti tutte Lei le opere così avremo la soddisfazione di parlare male della Sua prestazione.Proverà così quello che provano le numerose vittime della Sua penna .
    Cordiali saluti
    Bice

  2. Cara signora Bice,
    ma lo sa che quel Boccanegra da spavento è andato in diretta televisiva e pure su Internet? Quindi se spera di tacciare la Grisi di falsità, si disinganni, perché abbiamo visto e sentito tutti. Cominci invece lei a spiegarci in che cosa consista l'eccezionalità o anche solo la professionalità di un simile spettacolo e dei suoi responsabili. Se ne è capace. Ci spieghi lei perché è tanto contenta di questo spettacolo di quarta scelta. Forse perché non ha mai visto e/o sentito altro?
    Tante cose.
    AT

  3. Personalmente non mi stupiscono le condizioni del Nucci descritto dalla recensione. Ricordo la prima scaligera del Macbeth di due anni fa, serata in cui cantò il primo atto, male, per poi saggiamente rinunciare alla recita, mandando da sola la collega Violeta Urmana a prendere i dissensi del pubblico alla fine. Già all'epoca le condizioni di Nucci facevano auspicare un ritiro in buon ordine…ma si sa…all'idea di quel metallo…

  4. Cara Bice,
    e invece ti pubblico, proprio perché sono buona. E ti rispondo quanto segue:

    1) Con alcuni dei miei vicini di posto abbiamo commentato la quantità di posti disponibili in platea e i "forni" in palco e la sproporzione sempre maggiore fra costo dei biglietti e qualità degli spettacoli a Parma. Per inciso nell'intervallo i miei vicini hanno trovato posto in platea, proprio perché di posti disponibili ce n'erano.

    2) Un altro vicino invece ha mormorato per tutta l'opera a causa delle stonature, segnatamente delle voci gravi, e alla fine applaudiva con la faccia di circostanza…

    3) Ho riascoltato Meli sul Tubo e trovo di essere stata troppo buona con lui. La voce balla, in teatro non me n'ero accorta o comunque la cosa non si notava così tanto.

    4) C'è poco da avere parole gentili per cantanti che sono per sistema ingolati e privi di tecnica. Non è il blog a essere cattivo, ma la realtà di questo mal canto a essere tremenda.

    5) E' professionismo andare in scena in condizioni indecenti e per di più strapagati? Te lo chiedo con riferimento a Nucci e avendo ben presenti l'ultimo Rigoletto scaligero e i Foscari precedenti. Supposti professionisti, solo pagati – profumatamente – come tali, che non sanno dispensare una sola frase di canto professionale: questo abbiamo, oggi come oggi, in scena, con pochissime eccezioni. Anche noi siamo essere umani, non imbecilli né sordi, però. Ieri sera Nucci avrebbe dovuto essere lui a pagare per esibirsi. E sono convinta che, ad altro cantante che avesse cantato come Nucci ha fatto ieri sera, il pubblico parmigiano avrebbe riservato ben altro trattamento.

    6) Parli di grande successo. Ma gli applausi di ieri sera ti sembrano paragonabili a quelli del Rigoletto parmigiano ultimo scorso?

    7) Quanto al pistolotto sulle sovrintendenze, basta guardare il bell'esito del Giorno di regno, che tanti malumori ha suscitato e continua a suscitare in Parma. O anche la bella stagioncina di Busseto. O anche certe scelte sopranili delle ultime stagioni.

    Cara Bice, forse una ventata di aria fresca farà diradare la nebbia e ti aiuterà ad andare più serena a teatro. Quello di ieri sera è uno spettacolo zoppo, pieno di mende tecniche tutte illustrate nella recensione, che hanno impedito un esito di pubblico più che tiepido.

    Cordiali saluti

    GG

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