Dirigere Simon Boccanegra

Opera singolare, Simon Boccanegra: dalla storia compositiva complessa e dalla fortuna non certo incontestabile. Anzi, le prime rappresentazioni ne decretarono l’insuccesso: “un fiasco”, scrisse Verdi a Maffei, dopo la prima veneziana (e l’esito non mutò certo nelle repliche successive).
Diversi furono i fattori che ne causarono la caduta – lo ammise lo stesso autore, parlando di “musica che non fa immediatamente colpo”, e lo riconobbe la stampa coeva che, riportando, evidentemente, le sensazioni del pubblico, lamentò un’eccessiva cupezza e severità – ma non è questa la sede più opportuna per disquisirne. In seguito, come accadde ad altri titoli verdiani, risalenti ai periodi centrali della sua carriera, venne rivisto dall’autore nella tarda maturità: ma mentre le nuove versioni di Macbeth, La forza del destino e Don Carlos (e forse si potrebbe aggiungere al consueto elenco pure Jérusalem, nata per adattare I Lombardi alla prima crociata al gusto del grand-opéra francese), risultano più compiute ed equilibrate – sia per il minore tempo che in genere separa le due successive redazioni (e quindi senza radicali mutamenti stilistici nella scrittura dell’autore), sia per la diversa base di partenza su cui innestare la revisione (il Don Carlos parigino, ad esempio, è già più progredito, musicalmente, rispetto ai titoli che lo precedono anche di pochi anni: così da rendere più facile la più tarda riscrittura) – il nuovo Simon Boccanegra, pur ovviando, almeno in parte, ai “difetti” che lo portarono all’insuccesso iniziale, non riesce a superarli del tutto: e, anzi, la nuova versione finisce per evidenziarli maggiormente, in taluni casi.
Nel 1857, l’anno del primo Simone, Verdi aveva appena iniziato a conquistare quello che sarà il suo stile maturo: alle spalle vi erano gli “anni di galera” e la svolta della trilogia popolare, ma ancora non c’erano stati i fondamentali passaggi del Ballo in Maschera, Forza del Destino, Don Carlos, Aida. Nel 1881 – quando la nuova versione di Simone debuttò alla Scala, con buon successo, ma non certo con il trionfo sperato – Verdi aveva quasi tutta la carriera alle spalle (mancavano soltanto Otello e Falstaff), il suo stile, la sua scrittura, il suo linguaggio, la sua stessa concezione del dramma, erano ormai inconciliabili con quelli degli anni ’50 (entro i cui parametri rimaneva il vecchio Simone). Così, nonostante una revisione complessa e capillare (ogni singola battuta venne ripensata), troppo diverso era il linguaggio di un’opera a cabalette (come ancora era il primo Boccanegra) rispetto ai lasciti estremi della poetica verdiana. La stessa scrittura orchestrale – pur raffinatissima e moderna – non riesce a superare del tutto questo scoglio, questo squilibrio interno. Forse risiede in ciò la difficile permanenza in repertorio del titolo e la sua piuttosto scarsa frequentazione (rispetto ai titoli del tardo Verdi che, specialmente all’estero, hanno sempre avuto diffusione assai più ampia). E forse proprio questa è la causa dello scarso appeal che la partitura esercitò sui grandi direttori d’orchestra del XX secolo. In genere gli estremi lavori della carriera verdiana hanno attratto anche quelle bacchette di solito più avvezze alla musica sinfonica o all’opera wagneriana e post wagneriana: forse perché in essi ritrovavano maggiori soddisfazioni (rispetto alle tradizioni del melodramma ottocentesco, ritenuto, a torto, un prodotto “basso”, musicalmente poco originale e di qualità discutibile, fondato essenzialmente sull’esibizione dei cantanti e sul capriccio delle primedonne), o forse perché li ritenevano più “progrediti” e moderni, meno legati alle formule verdiane più trite (senza i famigerati ZUM-PA-PA) e privi di certi effetti risorgimental-bandistici (anche se, in realtà, essi appartengono più ad una degenerazione di quella musica, che certa cattiva tradizione – che come scrisse Furwängler è l’ultimo sbiadito ricordo dell’ultima cattiva esecuzione a cui si è assistito – ha imposto: in particolare negli anni che vanno dal verismo ai ’60). Semplificazioni, certo, discutibili e anche scorrette nell’essenza, ma resta la realtà dei fatti: nessun grande direttore europeo o extraeuropeo avrebbe voluto “perdere tempo” con La battaglia di Legnano o I masnadieri, al contrario non avrebbe rifiutato certo un Otello. Nonostante questo atteggiamento benevolo per i titoli verdiani di quella ultima fase della sua parabola artistica, nonostante l’alveo favorevole, il Simon Boccanegra rimase ai margini. E il risultato fu che, salvo eccezioni di cui dirò più avanti, poche grandi bacchette prestarono la propria arte alla storia del Doge genovese. Di ciò è testimone la discografia: una relativa scarsezza di incisioni (almeno quelle ufficiali) che è straordinaria rispetto al consueto appeal discografico delle opere del tardo Verdi. E, comunque, tra queste, la maggior parte è sussumibile entro la categoria della routine – e spesso limitata alla sola realtà italiana (certamente per una maggior empatia col melodramma), meglio disposta – foss’anche per doveri nazionalistici – ad esplorare la maggior parte del catalogo del suo compositore di rappresentanza. Infatti i vari Molinari-Pradelli, Santini, Rossi, ma anche Gavazzeni, Patané, Cleva, lo stesso Votto (per tacere dei più recenti Palumbo, Mariotti, Allemandi) non hanno certo aperto orizzonti interpretativi nuovi o rivoluzionari, né hanno mai rivelato aspetti nascosti della partitura, limitandosi, piuttosto, a svolgere più o meno correttamente il proprio lavoro, accompagnare i cantanti (i loro pregi e, soprattutto, i difetti o il cattivo gusto) senza grosse pretese, senza grande convinzione e senza alcuna vera consapevolezza di eseguire qualcosa di profondamente diverso rispetto al solito Rigoletto. Non vi è stato un Karajan che – come con Aida o Don Carlo o Otello – ha voluto mostrare, anche in quelle partiture mal considerate da certa critica internazionale (ancora imbevuta di pregiudizievole wagnerismo, come se la storia dell’opera dovesse essere bayreuthcentrica), e ritenute musica di serie B rispetto alla gloriosa tradizione austro-tedesca (analogamente a quanto fece con Puccini, sottratto finalmente alle svenevolezze da rotocalchi e alle facilonerie para cinematrografiche da romanzetto popolare, per riconoscerne l’importanza assoluta).
Al Simone mancò tutto questo e manca ancora. Certo vi sono eccezioni significative: Mitropoulos, Abbado, Levine, Solti. Pochi nomi, rispetto ad altri titoli di Verdi. Ma nomi importanti: alcuni intoccabili. Eppure il Boccanegra è opera da direttori: vi sono molti luoghi della partitura ove una grande bacchetta può mostrare il proprio virtuosismo. E la capacità di legare in una visione unitaria i tanti squilibri che l’avvicendarsi della scrittura verdiana e i differenti linguaggi (mal conciliati tra loro, e forse inconciliabili), han lasciato irrisolti. A parte l’atto II – forse quello più problematico, e a cui la revisione non ha affatto giovato, ancora troppo legato agli stilemi ormai sorpassati del melodramma da cappa e spada, e lasciato lì, drammaticamente insulso e musicalmente poco significativo, nell’economia del titolo – l’opera permette al direttore grandi slanci. Si pensi al tono cupo del prologo, dai contorni sfumati e misteriosi in un’atmosfera notturna e tragica: l’eliminazione della goffa sinfonia permette a Verdi l’inserimento di un breve preludio orchestrale risolto su di un tema avvolgente e delicato, che subito trasporta l’ascoltatore nel clima di cospirazione che prelude all’elezione del “primo abate”, clima rafforzato dalle raffinate soluzioni orchestrali che accompagnano dolcemente un canto prescritto sottovoce, ad accentuare il mistero. L’apertura dell’atto I, con il preludio che introduce la cavatina di Maria e vuole evocare l’aurora che sorge sul mare, con tinte delicate e nebbiose, e un preziosismo strumentale e timbrico che resta una delle vette compositive dell’autore, fatto di luci e colori tenui su cui, poco a poco, si sparge il calore del sole che sorge, colorando la tinta di maggior passione, maggior definizione tonale e trovando sfogo nel grande cantabile del soprano, screziato, però, dalla malinconica presenza di memorie passate e dolorose. E ancora il finale I, con la grande scena nel Palazzo degli Abati (che sostituisce la più convenzionale scena di festa che conclude la prima versione, con la consueta formula di concertato e stretta), espressione tra le più alte della visione politica di Verdi e dall’elaboratissima struttura musicale che su di uno strumentale ricco, ma mai ingombrante, alterna concertati ed episodi solistici, a rappresentare l’altezza morale del protagonista che richiama, per grandiosità di impianto la conclusione del Fidelio. E poi la prima scena dell’atto III e, infine, la morte di Simone che chiude l’opera in tono sommesso e commosso (non dissimile alla morte di Boris, ma senza le ombre di rimorso che annebbiano la mente dello zar). Grandi momenti, in cui non è la mera esibizione vocale, o l’incisività del ritmo, o l’efficacia teatrale che dominano, quanto, piuttosto un’alta elaborazione musicale che emerge dalla direzione d’orchestra, chiamata a dare un respiro unitario all’andamento strumentale, amalgamandolo al canto ed evidenziando l’aspetto di severa nobiltà dell’opera (scambiata, dai detrattori, per cupezza e grigiore) in una costante tensione morale. Dei grandi direttori citati (e con il rimpianto del mancato approdo di Karajan alla partitura) solo uno di essi pare riesca completamente nel compito assunto, offrendo una lettura convincente e coerente all’incoerenza dell’opera. Solo Levine, infatti, riesce a trovare un giusto equilibrio tra le diverse anime dell’opera, evitando la bolsa routine che la associava alle opere minori del catalogo verdiano (con il bagaglio di effetti ed effettacci volti ad esasperare gli elementi più banali del titolo, quelli risalenti all’opera a cabalette) e contemporaneamente astenendosi dall’intellettualizzazione a tutti i costi, quasi finalizzata a nascondere l’impronta genuina dell’autore (anche negli aspetti meno raffinati, a cui si riferisce ciò che resta della prima versione) – considerata evidentemente, una sorta di peccato originale, da sciogliere e disperdere in riferimenti alla musica europea (ritenuta più colta) o in richiami al dramma musicale. E mentre Mitropoulos, a fronte di un grande magistero direttoriale (e ad un percepibile amore per la partitura), a volte pecca in eccessi di pesantezza (figli, però, di una visione lacunosa della poetica verdiana e impostata più su quello che verrà dopo di lui), pur rendendo appieno l’aspetto romantico (fosco e notturno) della partitura, Levine sa unire in una tensione costante il dramma e le aperture liriche. Una direzione irruenta e trascinante – ancora più di Mitropoulos – ma come sempre screziata e sfaccettata. Più problematiche le direzioni di Solti e Abbado. Per motivi opposti. Il primo abbandona il vitalismo che caratterizza il suo Verdi (come la sua incisione di Don Carlos), sceglie un approccio più misurato e ampio, ma risulta talvolta enfatico e talvolta freddo: evita l’indulgere in effettacci, ma non si risparmia certe pesantezze. Sceglie, insomma, di non scegliere: limitandosi all’alta rifinitura e al suo virtuosismo tecnico. Non trova, in sostanza, quell’equilibrio, quell’univocità di respiro che unisca gli episodi musicali in un disegno compiuto e coerente. Mentre Levine impone il ritmo di una ballata romantica, ricca di chiaroscuri e piena di passione (intento evidentemente perseguito da Mitropoulos, ma non pienamente raggiunto), a Solti manca l’unità d’insieme: la visione complessiva. Visione che non manca ad Abbado, in quella che è diventata, ormai, un’esecuzione intoccabile (e che invece, come ogni cosa, andrebbe discussa e ridiscussa – non siamo infatti, né presso la sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, né nelle severe stanze di villa Whanfried a Bayreuth – quantomeno per ciò che riguarda le voci, nell’incisone ufficiale, e l’approccio ideale). Lettura di grande coerenze e forza morale (emerge chiaramente la visione del direttore: Simon Boccanegra è fondamentalmente un’opera politica) che non lascia spazio al Verdi prima maniera, ma che proprio in questo rivela una sua carenza. Simone non appartiene che solo per certi aspetti alla maturità verdiana: il tronco su cui nasce la revisione dell’autore ha le proprie radici nel melodramma ottocentesco. Tali radici non dovrebbero essere completamente rimosse. Credo che Abbado nell’ansia di intellettualizzazione di Verdi abbia commesso questo errore (veniale): non ritenere che bastasse l’innata nobiltà verdiana a levare l’opera da certe tradizioni esecutive che ne hanno snaturato e semplificato l’essenza. Ovviamente ciò che si ascolta provenire dall’orchestra è un piacere per l’orecchio (e ci mancherebbe, con quell’orchestra…la Scala di quegli anni): un suono morbido e raffinato, una tensione costante, una lettura ispirata. A cui manca, secondo me, un tratto di romanticismo. L’opera ha due facce, entrambe importanti: non è solo l’aspetto politico a dover prevalere (e a volte con cattivo gusto e intenti ideologici: come il cambio di alcune parti del libretto al fine di colorare di sfumature socialisteggianti il finale I). Oltretutto Abbado si scontra con alcune innegabili carenze di cast: a cominciare dal protagonista (un Cappuccilli dalla splendida voce, ma dall’emissione volgare e stentorea, come nella scena del consiglio) e dalla Maria della Freni (soprattutto nella zona centrale e bassa della voce…con buona pace di Giudici e dei suoi emulatori). Quattro importanti letture, comunque, i cui oggettivi problemi rivelano la consistenza a volte inafferrabile dell’opera: la difficoltà di trovare un equilibrio e la complessità di far coesistere due scritture profondamente diverse. Oltre all’unità ideale, da ricercare in una lettura tesa, ma non caricata, raffinata ed elegante, ma sfuggendo la leziosità del particolarismo, incalzante, ma non sbrigativa, notturna, ma non grigia, cupa (come la storia e il registro dei protagonisti impone), ma non asfissiante. E avendo sempre in testa la nobiltà della poetica verdiana. Alla Scala ci attende Barenboim (che finora si è dimostrato sempre impacciato e deludente con Verdi), non mi aspetto granché, mi auguro solo di non dover ascoltare una rilettura wagneriana del Boccanegra, con sonorità bombastiche e sgraziate (in stile Verdi di Sinopoli), unitamente ad un evanescente lirismo (o presunto tale: oggi si ha un’idea abbastanza comoda e opportunistica di lirismo, applicato a Verdi – cosa molto diversa erano le liricizzazioni di Karajan di certo repertorio verdiano e wagneriano) in cui stemperare tensioni e drammi. Ma tanto sarà un successo, comunque. A prescindere…come spesso (purtroppo) accade.

Gli ascolti

Verdi – Simon Boccanegra

Atto I

Quadro del Palazzo degli Abati

New York 1960

Direttore: Dimitri Mitropoulos

Simon Boccanegra: Frank Guarrera
Amelia: Zinka Milanov
Gabriele Adorno: Carlo Bergonzi
Jacopo Fiesco: Giorgio Tozzi
Paolo Albiani: Ezio Flagello
Pietro: Norman Scott

Washington 1976

Direttore: Claudio Abbado

Simon Boccanegra: Piero Cappuccilli
Amelia: Raina Kabaivanska
Gabriele Adorno: Veriano Luchetti
Jacopo Fiesco: Nicolai Ghiaurov
Paolo Albiani: Felice Schiavi
Pietro: Giovanni Foiani

Chicago 1988

Direttore: Sir Georg Solti

Simon Boccanegra: Leo Nucci
Amelia: Susan Dunn
Gabriele Adorno: Giacomo Aragall
Jacopo Fiesco: Simon Estes
Paolo Albiani: Nickolas Karousatos
Pietro: Richard Cohn

New York 1995

Direttore: James Levine

Simon Boccanegra: Vladimir Chernov
Amelia: Aprile Millo
Gabriele Adorno: Plácido Domingo
Jacopo Fiesco: Roberto Scandiuzzi
Paolo Albiani: Bruno Pola
Pietro: Hao Jian Tian

Un pensiero su “Dirigere Simon Boccanegra

  1. caro Duprez,

    Non capisco; il cast è un punto debole di Abbado ma non di Levine? Se vogliamo giudicare come "dirigere Boccanegra" considerando anche il cast, penso che quello di Abbado è precisamente il secondo più forte.

    Saluti.

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