“Il ritorno d’Ulisse in patria” alla Scala

Seconda tappa del ciclo monteverdiano (che si chiuderà nel 2014 con L’Incoronazione di Poppea), è tornato alla Scala – dopo un’assenza ultra trentennale – Il ritorno d’Ulisse in patria. L’opera, la cui attribuzione a Monteverdi è stata per lungo tempo negata, vide il suo “battesimo” a Venezia, nella stagione del carnevale 1640, al Teatro di Santi Giovanni e Paolo (uno dei teatri “pubblici” attivi nella Serenissima), e replicata, lo stesso anno, a Bologna. L’esecuzione del titolo comporta – forse più di altri lavori monteverdiani – la risoluzione di alcuni problemi filologici e testuali. L’unica fonte disponibile, infatti, è una copia manoscritta conservata alla Biblioteca Nazionale di Vienna (probabilmente faceva parte della ricca collezione musicale dell’Imperatore Leopoldo II, giacché non vi è testimonianza alcuna di una rappresentazione viennese), senza segni di utilizzo pratico e redatta da mano ignota (si ignora se esemplificata sull’originale). Ad essa si devono aggiungere una dozzina di copie del libretto soltanto. La presenza di una sola fonte musicale comporta vantaggi e svantaggi: infatti, se è più veloce e semplice il lavoro del revisore, è più difficile (se non impossibile) correggere errori e inesattezze, o ripulire il testo da eventuali scritture apocrife, non essendo possibile procedere a confronti con fonti coeve o successive. Il primo problema è relativo alla suddivisione del testo: il manoscritto riporta, infatti, un’organizzazione del materiale in tre atti, mentre le copie del libretto riportano cinque atti: probabilmente l’anonimo copista li ha così assemblati per motivi pratici. Il secondo problema riguarda l’integrità del testo: il manoscritto viennese (che pure non presenta segni di danneggiamento) risulta incompleto. Mancano – prendendo a riferimento la suddivisione in tre atti – la terza scena dell’atto I, la sesta dell’atto II, la seconda dell’atto III, la musica del coro di Naiadi che apre la scena nona dell’atto I, e quella del coro di Itacesi che chiude l’opera. Si ignorano i motivi di queste omissioni (che appaiono frutto di precise scelte del trascrittore). Proprio per ovviare a tali mancanze in molte incisioni discografiche (Jacobs, Harnoncourt e Garrido, ad esempio) si ricorre all’inserimento di materiale ricavato da altri lavori monteverdiani (madrigali e scherzi musicali) o da altri autori (Sigismondo D’India, Cavalli, Marini etc…). Infine, l’ultima questione filologica da affrontare è la realizzazione della partitura. Come tutte le opere dell’epoca (e L’Orfeo è l’unica eccezione, poiché non destinato al teatro, ma lavoro d’accademia, sperimentale, rivolto ad una platea di letterati), Il ritorno d’Ulisse in patria presenta solo la linea vocale e le indicazioni del basso continuo, inframezzato da sinfonie e ritornelli suddivisi su tre o cinque righi, ma per cui non vi è alcuna distribuzione strumentale. In realtà – contrariamente a quanto erroneamente si pensa – non c’è bisogna di una vera e propria “orchestrazione” (che andrebbe a snaturare equilibri e valenze estetiche, trasformando l’opera in qualcosa di completamente diverso: qui sta il più grave errore e fraintendimento di certe arbitrarie trascrizioni novecentesche, ossia il cercare di racchiudere questo linguaggio libero e arioso in uno schema formale con cui nulla avrebbe a che fare, e con l’effetto di appesantire intollerabilmente la linea musicale originale, costringendola a rassomigliare ad un’opera tradizionale). All’epoca lo spettacolo d’opera era qualcosa di più vicino al teatro che alla musica (l’armonia serva di orazione, dicevano): il cantante era accompagnato dal solo basso continuo, mentre i pochissimi strumenti (a leggere le testimonianze dell’epoca, si scoprono organici che variano da otto a dieci elementi, comprensivi di archi, tiorbe e cembali) suonavano solo tra un brano e l’altro senza mai intrecciarsi alla voce. La stessa dinamica e la ritmica erano lasciate alla libertà degli esecutori secondo la tecnica della “sprezzatura”: ossia “cantare senza misura, quasi favellando”. Uno spettacolo molto diverso, quindi, da quel che noi oggi intendiamo per “opera lirica”: ed è scorretto, dunque, pretendere di trovare in Monteverdi le rigidità formali (aria e recitativo) che apparterranno ad un’epoca successiva, così come gli slanci virtuosistici e l’esibizionismo vocale. Preso atto di tutto ciò, la Scala, per questi spettacoli, si affida alle cure di Rinaldo Alessandrini (esperto di Monteverdi, curatore per Bärenreiter, dell’edizione critica delle sue opere), ma certi problemi restano insoluti. Innanzitutto gli spazi: l’opera veneziana – fondata sull’indissolubile connubio musica/parola (con la netta prevalenza della seconda), presuppone un ambiente più raccolto ove poter meglio apprezzare ogni sfumatura e piega del fraseggio (senza eccessi, tuttavia: il Teatro dei Santi Giovanni e Paolo era progettato per più di 1.000 posti). La Scala, invece, è teatro tipicamente operistico (con tanto di buca) dagli spazi enormi (circa il doppio di quelli veneziani). Poi l’approccio del pubblico: è chiaro che nell’affrontare un repertorio siffatto, si devono abbandonare le certezze “da melodramma”, così come ci si deve aspettare un diverso rapporto di volumi sonori (ovviamente ciò non significa accettare sgradevolezze). Monteverdi, infine, richiede l’utilizzo di strumenti particolari e, soprattutto, un modo di suonare svincolato dalla rigida formalità operistica: occorre una compagine di solisti, agile, fantasiosa e con grande dimestichezza con questo tipo di repertorio. L’orchestra della Scala (pur a ranghi ridotti e con l’inserimento di specialisti per il basso continuo) mostra – limitatamente ai pochi archi presenti – una certa rigidità, che tradisce la frequentazione con tutt’altro tipo di musica (ecco perché, per Monteverdi, è più che mai opportuno il ricorso a compagini specializzate e affiatate). Nonostante ciò, pur non potendo contare sul suo Concerto Italiano, Alessandrini dirige con fantasia e idiomaticità: lavora sugli equilibri sonori (l’orchestra è piuttosto ampia  e, difatti, non vi sono problemi di volume), inserisce strumenti che – a rigore – non sarebbero stati mai usati nella Venezia dell’epoca (tamburo e fiati), organizza il continuo con estrema mobilità e presenza (lui stesso dirige davanti al cembalo). Il suono è ricco e molto vario, particolarmente intenso e partecipe nell’accompagnamento ai brani solistici, dove evita ogni meccanicità o rigidità “da opera seria” (errore in cui inciampano sia i primi esperimenti filologici sia le trascrizioni dei primi del secolo). Unico appunto da muovere è la mano pesante coi tagli (anche se bisognerebbe sapere chi ne è il vero artefice). La compagnia di canto, invece, composta per la maggior parte da specialisti monteverdiani (o presunti tali) presentava diversi problemi. In particolare la Penelope di Sara Mingardo, dopo un appena discreto inizio, offre un canto piuttosto ingolato, privo di reale cavata e, soprattutto, incapace di rendere le sfumature del testo (spesso incomprensibile). Moltissimi problemi (di tenuta e di intonazione) li mostra anche Monica Bacelli nel doppio ruolo di Fortuna e Melanto. Brava, invece, Marianna Pizzolato, purtroppo relegata nel ruolo secondario di Ericlea. Buon protagonista Furio Zanasi che, pur difettando di volume, fraseggia almeno con intelligenza e varietà un ruolo piuttosto monotono e risolto essenzialmente nel recitativo. Quasi gradevole il terzetto dei Proci (pur con qualche squilibrio e fissità nelle voci più acute). Molto gutturale e forzato il Nettuno di Luigi De Donato. Abbastanza buoni il Telemaco di Leonardo Cortellazzi e, soprattutto, l’Eumete di Luca Dordolo. Molto usurato è apparso Gian Paolo Fagotto che ripropone il suo Iro eccessivamente caricaturale (e volgare), enfatizzandone la tradizionale balbuzie, tanto da non riuscire a far percepire né il testo né la musica. Poco significativo l’Eurimaco di Mirko Guadagnini. In ultimo occorre parlare della micidiale regia (?) di Bob Wilson. Più che regia sarebbe più onesto parlare di un concerto in costume, giacché non vi è nulla che possa essere associato alla vitalità del teatro nell’estenuante immobilità che Wilson impone ai suoi personaggi. La formula è sempre la stessa (sono 30 anni che il Sig. Wilson ci infligge lo stesso – immagino costosissimo – spettacolo, declinato in impercettibili variazioni sul tema): luci azzurrine e fredde, scena più o meno vuota (in questo caso si alternavano forme di parallelepipedi a suggerire, forse, idee di costruzioni), qualche elemento figurativo apparentemente svincolato dal resto, cantanti truccati di bianco (come statue di gesso), corazzati in costumi rigidi e costretti a movimenti lentissimi e innaturali (immagino come sia complesso per un artista concentrarsi su una musica di difficile interpretazione dovendo ricordarsi gli assurdi movimenti di braccia e volto che Wilson gli impone), nessuna interazione fisica tra i personaggi (neppure si sfiorano, anche quando cantano di abbracci amorosi o combattimenti). L’unica cifra visiva è un’astrattezza asettica in cui i personaggi si muovono come automi in un ipotetico carillon, ove non c’è nessun legame (narrativo o drammaturgico) con la vicenda raccontata. Ora, se tutto ciò risultertebbe noioso e stancante in un repertorio in cui le valenze musicali prescindono (in un certo senso) dalla vicenda stereotipata (com’è l’opera tradizionale), diviene letale per un genere che mette al centro il teatro, la parola e il gesto. La soppressione di ogni teatralità – operata da Wilson e dalla sua numerosa schiera di collaboratori (e poi si parla di sprechi e tagli) – è l’assurdo portato di una visione snobistica della cultura, che si considera tanto più alta quanto più risulti impenetrabile e incomprensibile. Peccato che così si uccida non solo il teatro, ma anche Monteverdi. Oltretutto tale impostazione rivela diverse deficienze tecniche: Wilson, evidentemente, non sa che farne del coro (non riesce a gestirlo probabilmente) e quindi – idea “geniale” – decide di relegarlo in buca (nell’unico episodio in cui è coinvolto). Stessa sorte subisce il prologo: L’Humana Fragilità, Tempo, Fortuna e Amore, cantano (maluccio) nella buca, accanto all’orchestra, mentre sul palco si svolge una scena dal significato sfuggente (ma che vorrebbe rappresentarne le valenze simboliche). Davanti ad un sipario decorato (che nasconde la scena vuota che costituirà lo sfondo al resto dell’opera) si vede un vecchio viandante immobile che insegue (o è inseguito) da un coniglio e da una tartaruga gigante a cavallo della quale si è sistemato un amorino, sino a che compare una figura femminile armata di pistola: dopo smorfie gratuite e movimenti impercettibili o assurdi si solleva il sipario. Immagino che gli esegeti del nulla vi troveranno chissà quali significati (ognuno è libero di scegliersi i passatempi preferiti). Il pubblico, rassicurato del fatto di trovarsi di fronte uno spettacolo per nulla rivoluzionario (ma molto chic in un minimalismo portato all’eccesso), sicuro di non venire scosso nelle proprie certezze, e convinto che il teatro barocco sia una specie di museo delle cere, dispensa generosi applausi all’artefice di tale inutile messinscena (non accorgendosi, forse, della sconsolante banalità del tutto: o della presa in giro sottesa). Se si pensa, poi, che lo stesso pubblico ha fischiato Carsen o Martone (e pure l’Engel di una vecchia e splendida Lady Macbeth del distretto di Mcensk), c’è da rimanere disorientati: probabilmente certuni preferiscono il nulla di Wilson (perfettamente sovrapponibile – quanto a vitalità teatrale e inconsistenza – ai pennacchi di Pizzi, alla paccottiglia di Zeffirelli e alle scalinate di Pier’Alli)! Alla fine successo per tutti: come al solito, quando si tratta di titoli poco frequentati (molti spettatori neppure si sono accorti che l’opera fosse terminata), si dispensano applausi equanimi, anche se poco convinti, un po’ per dovere culturale, un po’ per risvegliarsi dal torpore. Torpore, ben inteso, che si deve unicamente ad una messinscena di elegante e snobistico astrattismo, non certo alla splendida musica di Monteverdi. Un risultato interlocutorio, quindi, che dovrebbe essere occasione per riflettere seriamente sulle modalità rappresentative di certo repertorio: perché o viene fatto secondo determinati crismi e professionalità, oppure – se c’è solo l’intento di riempire caselle mancanti – sarebbe meglio non farlo proprio.

115 pensieri su ““Il ritorno d’Ulisse in patria” alla Scala

  1. Caro Duprez, bell’articolo. Condivido appieno le tue opinioni, i tuoi giudizi complessivi sullo spettacolo. Personalmente sarei stato ben più severo con le voci in scena: esclusi Zanasi e la Pizzolato che hanno superato la soglia della dignità (soglia abbassata notevolmente dal resto della compagine canora), per gli altri io ho provato disgusto e pena.
    Alessandrini ha fatto un buon lavoro: gli elementi del suo gruppo hanno fatto un basso continuo molto elegante, equilibrato e corretto. I brutti suoni sono venuti dagli archi, ossia da quel settore dell”orchestrina” (passatemi il termine) formato da elementi scaligeri. Chissà come mai!
    Veniamo alla regia, ovvero alla non-regia di Wilson. Un mix molto strano e squilibrato tra impliciti riferimenti alla cultura minoica con

  2. (continuo…) quei parallelepipedi nelle prime scene e la moda cinquecentesta italiana con dei vesisti che facilmente avremmo potuto vedere indossati dalla Borgia.
    Serata al limite del mortalmente noioso.
    E non solo per la musica….

  3. Direi che la noia con Monteverdi non c’entra nulla (e non dovrebbe c’entrare): il fatto che un’opera così riesca ad annoiare il pubblico, la dice lunga sul sedicente regista. Un testo, poi quello dell’Ulisse, che permetterebbe ad un vero uomo di teatro di “sbizzarrirsi” (con libertà e fantasia)… Wilson – come sempre – sceglie il nulla: e solo il pubblico scaligero può credere che sia un genio… Peraltro in tutto il resto del mondo civile il barocco è terreno fertile per regie anche discutibili (a volte), ma comunque teatrali e non mortifere. I costumi erano l’unica cosa esteticamente piacevole da vedere (un mix tra rinascimento e commedia di Moliére)

  4. i vestiti erano belli. molto. ma è il contorno in cui li ha inseriti: o adatti i vestiti alla scena o viceversa. in scena l’altra sera sembrava di vedere l’armata brancaleone ambientata nel medioevo con i vestiti da SS…
    Premesso che io preferisco un altro Monteverdi (madrigali, Orfeo…), il problema con questo genere di opere come quelle di coetanei del “Divino Claudio” come Peri o Cavalli (suo allievo se non ricordo male), sta nella ricezione da parte del pubblico: come giustamente hai detto tu sono opere verso le quali bisogna abbandonare le categorie che si applicano all’opera comunemente conosciuta come tale. Io da umile e ignorante appassionato d’opera, davanti a certe opere come queste faccio difficoltà: sarà che banalmente mi aspetto un bel concertato alla fine del I atto, la cavatina del/della protagonista, un bel duettone soprano/mezzo…non saprei dire: sta di fatto che le rigide e solide categorie applicate all’opera post-barocca involontariamente le applico anche a queste opere così diverse.
    Con l’Orfeo il discorso è leggermente diverso perchè innanzitutto l’opera è diversa: è più ricca nella parte strumentale e corale (se di coro si può parlare, essendo piccoli ensamble da madrigale) e

  5. Io sulla contaminazione scenica tra epoche e stili diversi non ho nulla da obiettare, a patto di vedere uno spettacolo teatralmente significativo (vidi, qualche anno fa, una Dafne di Marco da Gagliano ambientata in un sanatorio per malati di mente: il risultato era splendido, teatralissimo, rispettoso dei valori musicali dell’opera e molto più interessante che seguire le assurdità di un libretto che neppure allora veniva rispettato). Quello di lunedì, invece, non era teatro, ma un incubo minimalista così come potrebbe essere immaginato da qualche designer a la page.. Costosissima “fuffa”!
    Su Monteverdi, che dire…ognuno ha i propri gusti: ovviamente non si può pretendere di trovare concertati, cavatine, cabalette o duettoni nel recitar cantando.

    • Eheheh, il recitar cantando! La questione, alla fine, è sempre la stessa: la decadenza canora/recitativa (andando a ritroso nei secoli i due aspetti coincidevano), oltre che musicale, ovviamente. Per questo oggi si fa fatica ad apprezzare quelle opere: non possediamo più né il “sentire” e “sapere” musicale dell’epoca, né gli strumenti tecnici per riprodurre musica così antica. Sono trascorsi insomma quattrocento anni di declino vocale (sotto alcuni aspetti anche musicale), un declino intensificatosi esponenzialmente in particolare nell’ultimo sciagurato secolo!!! I baroccari non hanno ripristinato niente, hanno solo segnato l’ultima tappa di questo inesorabile declino. Una speranza però ce la può dare questa considerazione: si può scendere più in basso di così?

      • Opinioni. Io credo dipenda dal gusto di ciascuno. Io non mi annoio con Monteverdi (salvo quando si trasforma il teatro in un museo delle cere). Ovviamente l’abitudine all’ascolto del melodramma o dell’opera seria o rossiniana, rende l’approccio a questo repertorio oggettivamente diverso, più complesso (non difficile). Per questo parlo di mentalità del pubblico da cambiare: non si può assistere ad un lavoro come l’Ulisse e aspettarsi lo sfogo lirico o l’esibizione vocale o il canto spiegato. Sono altri i valori che “coinvolgono” ed “emozionano”. Ecco, io trovo di incredibile modernità e attualità l’uso delle dissonanze, gli impasti vocali, il profondo legame tra testo e musica, l’attenzione al carattere e al “sentire” del personaggio (cosa che verrà del tutto ignorata nella successiva stagione dell’opera seria, dove al centro veniva messo il virtuosismo canoro svincolato dal contesto: Rossini si “vantava” di poter musicare anche la lista della spesa e riutilizzava svariate volte la stessa musica per situazioni diverse: cose inconcepibili per Monteverdi). Però non credo vi sia un meglio e un peggio, ma solo linguaggi diversi che possiamo più o meno apprezzare (se dovessi farti l’elenco dei miei dis-gusti musicali ti stupiresti). Sul declino non condivido affatto, atteso che per taluni “accademici” dell’epoca Monteverdi era un musicista degenerato perché non rispettava le regole del “buon comporre”…di solito si bolla quello che non si comprende per “sbagliato”. Del resto pure Verdi – che musicalmente era un ignorante (lo ammette lui stesso) – riteneva la musica di Monteverdi “sbagliata”…

        • Sul virtuosismo canoro fine a se stesso, posso essere d’accordo per quanto riguarda il Settecento, ma Rossini però segna già un cambiamento molto importante, in particolare nelle opere napoletane, con lo stile misto sillabico/vocalizzato, in cui il virtuosismo non è mai pura esornazione, ma ha sempre un significato musicale, e quindi espressivo. Certamente è un linguaggio diverso da quello di Monteverdi (ci mancherebbe! son passati quasi due secoli!), ma io, per Rossini, non parlerei mai di virtuosismo fine a se stesso. E’ un canto che usa la parola solo in senso didascalico, certo, ma musicalmente non è mai mero esibiziosimo.

          Comunque nel mio discorso sulla decadenza canora/musicale, è implicito che tale declino non ha inizio con o subito dopo Monteverdi, ma dura da sempre. 😀

          • Su Rossini siamo perfettamente d’accordo: dicevo solo che il linguaggio varia a seconda delle esigenze estetiche. L’esibizionismo vocale non è giusto o sbagliato, se storicamente inteso, diventa inattuale quando sopravvive stancamente all’alveo storico in cui si sviluppa (in questo senso va letto, secondo me, l’aneddoto rossiniano dell’Aureliano in Palmira: probabilmente Rossini non era irritato per il virtuosismo di Velluti, ma perché era un virtuosismo “vecchio”, inutile e fine a sé stesso, mentre già lui stava sviluppando una funzione “drammatica” ed espressiva dell’ornamentazione vocale).

      • Ti riporto esattamente le sue parole. Rivolgendosi a Boito sull’opportunità di far studiare ai giovani studenti di conservatorio alcuni autori del ‘500, suggeriva Palestrina, Marenzio, Victoria, “e tanti altri buoni scrittori di quel secolo ad eccezione di Monteverdi che disponeva male le parti” (pare assurdo, soprattutto da un compositore non certo “raffinato” e che spesso ha confuso l’orchestra con la banda – del resto neppure apprezzava il Guillaume Tell, riteneva vi fosse qualcosa di “sbagliato”…così come nel Lohengrin)

        • Monteverdi continua ad essere un incompreso perché la sua non fu mai musica commerciale (già allora gli preferirono l’allievo Cavalli, è tutto dire). Diciamo che il frequentatore medio dell’Opera si ritrova di punto in bianco immerso in un universo musicale del tutto diverso ed opposto a quello del repertorio abituale. Ma abituati come siamo ad indigestioni di verismo e romanticismo non c’è da meravigliarsi! (e poi sempre gli stessi quattro titoli, questa è noia!) Monteverdi necessita d’interpreti sopra la media, gente che sappia far qualcosa in più d’un grido pavarottiano, che sia capace di recitare, cosa che nessuno più vuol fare sul palco. Ma la colpa è di certa gente, che se non sente sovracuti dice che la serata è fiacca. Mi dispiace per Fagotto, l’ho sempre considerato un buon interprete; ma il tempo passa per tutti. A fare Iro poi non ce lo vedo proprio!

          • beh insomma, forse la verità sta nel mezzo, no? voglio dire, è musica difficile, arcaica ed il livello del pubblico medio si è di molto abbassato, perchè non è che sia così gran conoscitore anche dei titoli più rappresentati. In un teatro ove il pubblico è in maggioranza di turisti, opere come questa sono impossibili. La dimensione della sala, inoltre, è inadeguata a quelle sonorità, è musica nata per altri spazi.
            Non accusiamo solo il pubblico per testi oggettivamente difficili e lontanissimi dalla nostra estetica. Orami si stenta su Favorite di Donizetti…..

          • In medio stat virtus – la virtù sta nel mezzo, non la verità, altrimenti dovremmo giustificare tante castronerie compresi i baroccari e direttori pseudocembalisti.

            Marianne

          • Posso essere d’accordo sul fatto che il pubblico non abbia tutta la colpa. Ma se vai a teatro, e paghi (perché ormai un biglietto all’Opera dei Pupi – scusando la battuta – costa l’ira di Dio), potresti anche scomodarti a pretendere spettacoli migliori sotto ogni profilo. Con quello che costano gli enti lirici (e parlo di costi fissi, con orchestre di stipendiati che fanno 4-5 rappresentazioni l’anno ed una decina di concerti di repertorio) prendere un maestro e farlo salire sul palco prima della rappresentazione per illustrare al pubblico i tratti salienti dell’opera non è eresia. In tempi in cui a Catania cantava Gigli mi garantiscono che lo si faceva abitualmente, ed era il direttore d’orchestra in persona a farlo, se l’opera era poco conosciuta. Io l’ho visto fare comunemente solo ai concerti, e la gente anzi apprezza molto una guida all’ascolto.

          • Il problema del pubblico non è che sia poco peparato. La musica esiste per essere decifrata dall’orecchio umano, le spiegazioni in teoria sono superflue, ed in genere servono solo quando l’esecuzione non funziona bene. Ma il problema del pubblico, ed in particolare del pubblico d’opera e di concerti di musica classica, soprattutto in un teatro come la Scala, è il narcisismo: andare a teatro per mero vanto, perché è “culturale”, perché è chic… Questa è la ragione di base che rende sordo il pubblico.

  6. Sulla mia affermazione in cui scrissi che mi aspettavo un concertato o un bel duettone: 1. ovviamente ero ironico 2. intendevo dire che il pubblico che va all’opera oggi, me compreso, è fortemente dominato dalla concezione dell’opera moderna, se si può definire così. e oltretutto fa molta difficoltà a cambiare atteggiamento, sguardo e soprattutto criterio di giudizio passando dal Don Pasquale al Ritorno di Ulisse in Patria: anche perchè comprendere ed apprezzare opere come quelle monteverdiane implica un background culturale che il pubblico in generale non ha, e non ritiene necessario avere.

    • Ma certo Manuel, ho perfettamente inteso il tuo discorso: parlavo in generale. Però, una domanda: sei sicuro che ci voglia chissà quale background culturale? Cioè, non è che, forse, la distanza viene accentuata da una messinscena – in questo caso – dove il teatro viene rigorosamente bandito? Monteverdi lascerebbe infinite possibilità per un regista vero e, sono sicuro, che il pubblico ne rimarrebbe coinvolto. E non è egualmente soporifero il barocco di Pizzi tra colonne e pennacchi sempre uguali?

  7. La difficoltà sta proprio nella musica: puoi mettere regie che possono rendere più accessibile il tutto. ma la difficoltà di “ricezione” resta: ed è una ricezione non dettata dalla complessità musicale come può essere nel caso di un Nono o Stockhausen, ma dalla distanza storico culturale. Cercherò di usare come esempio la tragedia greca: pur non sapendo come dovesse essere realmente la rappresentazione di una Orestea ad esempio, sappiamo che era qualcosa di molto distante dalla nostra concezione del teatro: le messe in scena di oggi sono tali da rendere il tutto più vicino al gusto moderno pur tentando di mantenere una necessaria fedeltà agli ingredienti chiave del teatro greco. in questo caso, credo, il mestiere del regista è più semplice: l’assenza della musica (che in realtà dovrebbe esserci, pur non conoscendone il ruolo e lo spazio all’interno del testo teatrale) facilità molto.
    Nel caso di Monteverdi resta la musica che è comunque di difficile ascolto, o per lo meno apprezzata da un pubblico ristretto.
    Puoi mettere la regia che vuoi, moderna, baroccona, zeffirelliana, ma la musica resta con la sua complessità, la sua diversità, la sua lontanza storica.
    La messa in scena potrebbe ridurre la distanza con l’opera. ma non colmarla.
    La musica di Monteverdi credo necessiti un background culturale per essere compresa come di dovere: non parliamo del pubblico melomane colto, ormai in via di estinzione, ma del pubblico che viene in teatro per svago, per ascoltare musica e provare piacere: la musica del primo 600 ha delle caratteristiche pre-barocche, delle dinamiche musicali, delle armonie diverse da quel che si è soliti ascoltare con barocco classico handeliano o vivaldiano.

    • Questo resta un tuo gusto, libero, ma personale: io trovo molto più noiosa un’opera seria di Pergolesi con 4 ore di arie tripartite e recitativi secchi in cui non succede una beata mazza… Così come trovo indigeribile Massenet o Gounod. Ma, ripeto, sono solo opinioni. Di certo non vado a vedere cose che non mi piacciono per poi lamentarmi perché non mi sono piaciute…

      • Sono d’accordo (di nuovo) con Duprez. Il tuo discorso, Garcia, se fosse preso sul serio comporterebbe a breve la scomparsa dello stesso Verdi. E non mi dire che la gente “si svaga” a sentire e risentire ogni stagione “di quella pira”! La verità è che il pubblico è stato educato a dormire solo durante le rappresentazioni degli ultimi operisti mai esistiti in Italia, sicché giustamente Monteverdi ti sembra fuori luogo esattamente come Philip Glass (perché, scusami, la distanza che c’è tra Donizzetti e Monteverdi è assai vicina a quella che c’è tra Verdi e Glass!). E’ come dire che non si debba recitare più Molière perché la gente non lo capisce, ed il bello è che sento fare questo ragionamento su Testori, ch’è morto l’altroieri. Il pubblico purtroppo tende ad adattarsi a quello che il teatro propina, ed una volta tanto non è male se si impegna ad ascoltare le parole, invece di battere i piedi per terra scimmiescamente durante la marcia dell’Aida. Per carità, senza alcun odio nei confronti di Verdi, ma davvero ultimamente si sta esagerando: in tutto il mondo i cartelloni comprendono barocco-classicismo-romanticismo, solo da noi c’è forse l’un percento di repertorio extraromantico o verista (di solito Rossini), e c’è pure chi si lamenta!

  8. Benché gli incliti esperti affermino la modernità di Monteverdi, sono completamente d’accordo con Manuel Garcia poiché, per i poveri mortali che non hanno specifici studi musicali e neppure fatto un piccolo corsuccio monografico su Monteverdi, l’ascolto è ben difficile e il godimento quasi impossibile. Vidi il ritorno d’Ulisse in patria, non ora a Milano, ma all’opera di Amsterdam anni fa. Spettacolo e cantanti passabili ma la musica, così avulsa dal testo, così ripetitiva, un mero accompagnamento leggero di pochi strumenti, la trovai infinitamente noiosa in quanto incapace di muovere anche la più minima delle emozioni. Niente a che fare con l’emotività, la passionalità e i rapimenti ai cui il melodramma ci ha abituato. Il dottissimo Duprez ci spiega come altro e più cerebrale diletto si debba attendere da Monteverdi e dalla sua messa in scena, sarà bastante un differente approccio, non necessariamente erudito, da parte dell’ascoltatore. Ma quale potrà mai essere tale approccio se non si è dei musicologi ? Infine non credo si debba attribuire la colpa del tedio delle opere di Monteverdi ai soli cantanti e regia. Purtroppo, vedere ed ascoltare Monteverdi è necessario per non ignorare la storia della musica, pur sapendo che in quelle sere la “passione” per l’opera lirica cesserà di essere “forte emozione dell’animo” per trasformarsi, con altra definizione, in “pena, sofferenza, travaglio”

    • Non credo che la visione e l’ascolto di Monteverdi ti vengano prescritte dal medico. Neppure, credo, tu possieda la patente per decidere cosa debba o non debba emozionare. Infine ciò che annoia te potrebbe piacere a qualcun altro e viceversa…

      • Duprez, uno per sapere se una cosa piace o no deve andarla a vedere! io il ritorno di ulisse in patria lo conoscevo poco e volevo andarlo a vedere ed ho espresso il mio giudizio.
        Certo altre cose non le vado a vedere: Britten lo evito e così pure Wagner.

      • secondo il mio modesto parere,un pubblico “normale” da queste opere si tiene alla larga,perche occorre una preparazione musicale specifica per apprezzarle,non si va per ascoltarle per divertimento,o per passare la serata

    • Per carità carissima, mi spiaccio del rammarico, però – sinceramente – credo che la noia dipenda essenzialmente da gusti legittimi. Ad esempio, io non riesco a reggere più di tre lieder di fila (per poi crollare): per alcuni, probabilmente, sto bestemmiando…ma non ci posso far niente.

  9. Saro’ breve. Solo la PIzzolato non mi ha dato la sensazione di un corpo estraneo nelle orecchie! Lei mi ha stimolato ad ascoltare e la musica era affascinante. Gli altri erano repulsivi e la serata mi e’ parsa una noia insopportabile. Se si canta con una voc e gradevole monteverdi e’ interessante e godibile. Poi con un po’ di azione in scena magari…..

  10. Le esternazione di decadenza vocale di Mancini mi hanno sempre lasciato dubbioso, come peraltro ho sempre detto qualora se ne sia trovata l’occasione. Come sempre riporto un dato inconfutabile dimostrante quanto questa affermazione sia non vera: come detto tante e tante volte, ogni trattato/metodo di canto dal Banchieri in poi ha sempre esordito con il solito luogo comune “il canto sta decadendo”… Eppure dopo un Tosi si sono avuti Farinelli, Caffarelli, la Tesi, la (quasi contemporanea) Bordoni Hasse, dopo un Mancini si è avuto tutta la schiera di moderatori del blog, la Pasta, la Malibran, il Garcia sr, Donzelli, Rubini etc etc, dopo il Garcia abbiamo avuto Lauri Volpi, Schipa, Gigli, etc etc, dopo Lamperti abbiamo avuto la Sutherland, la Horne, Pavarotti, etc etc … Il problema della contemporaneità è che bisogna sorbirsi tanta di quella gente che spesso si perde un po’ e/o la speranza e/o la bussola, ma si avranno sempre bravi cantanti (pochi) e cantanti scarsi (molti, troppi!).

    Detto questo, Monteverdi è una frequente materia di studio personale: certamente bisogna entrare nello stile (concordo su quanto dicono Garcia e Duprez in merito all’interpretazione), che ha formule e “stratagemmi” diversi da un Cavalli per esempio, ma anche da uno Stradella, per non parlare di tutto quanto viene dopo, e il pubblico deve chiaramente capire cosa musicalmente fa la cifra di un autore o di un altro: cosa che non è facile!

  11. mozart e duprez io il pubblico l’ho sempre diviso in tre categorie ,il pubblico melomane,il pubblico appassionato,il pubblico normale,che va tanto per passare la serata,e per divertimento.
    E sono certo che il pubblico melomane non si accontenta di traviate e tosche,come sono convinto che il pubblico normale,non sappia nemmeno chi sia Monteverdi

  12. solo per essere più precisi,può darsi che qualcuno di questo pubblico normale come lo intendo ci vadi,ma non ci ritorna,queste opere per assaporarle,e goderne occorre un minimo di competenza musicale,se ci ritornano,vuol dire che non fanno parte del pubblico normale,come lo intendo io.

  13. La musica di Monteverdi è assolutamente godibile: certo, il Ritorno di Ulisse in Patria resta un’opera musicalmente complessa. Personalmente io preferisco i madrigali, il Vespro della Beata Vergine e l’Orfeo.
    Inviterei ad ascoltare quel delizioso disco di Teresa Berganza in cui canta una serie di piacevolissime canzoni e pezzi sacri di Monteverdi, Palestrina, della Strozzi e di altri autori del cinquecento veneziano.
    http://www.youtube.com/watch?v=pjRkWEGaRCk

    • Aldilà dello splendore vocale della Berganza, preferisco (per i madrigali soprattutto) un approccio espressivo più libero, uno strumentale più coerente e vario, un basso continuo più presente e fantasioso. E’ bravissima, ma i madrigali non sono arie tripartite… :)

      • Personalmente lo trovo un disco molto bello: anche perchè poi oltre a lei c’è la Kirkby o qualche altra gallinella da fattoria.
        L’approccio che ha lei con i madrigali e pezzi sacri in quel disco lo trovo molto corretto ed equilibrato. La Berganza è una voce da salotto, piccola, ridotta che in questo genere di repertorio avrebbe potuto fare molto: questo disco lo dimostra.

      • Se pensate che l’alternativa sia la Berganza o la Kirkby (come se non esistessero cose differenti) beh, mi sembra che dobbiate entrambi aggiornarvi…o evitare di parlare di quel che evidentemente non conoscete. Comunque liberissimi voi di bearvi con madrigali trasformati in arie da opera seria e accompagnati come fosse Semiramide… Non rientra tra le mie priorità convincere il prossimo…

          • Opinioni. Come mi ha fatto notare il caro zio mozart, la Kirkby non è di certo adatta per il repertorio italiano, ma per quello inglese rinascimentale e primo barocco (Golden Age elisabettiana) a mio avviso è più che validissima sia come stile, sia come voce.

          • No: tu hai scritto che o c’è la Berganza o c’è la Kirkby (o altre gallinelle da fattoria). Scusa, ma questa affermazione rivela un’assoluta mancanza di dimestichezza con tale repertorio. Non si può giudicare per “sentito dire”. Io ho almeno 100 cd con musica di Palestrina, Cavalieri, Marenzio, Gesualdo, Sigismondo d’India, Monteverdi, Cavalli, Wert etc… e in nessuno compare la Kirkby o animali da cortile (e neppure la Berganza peraltro).

          • Misterpapageno, la Signora Emma Kirkby è una pessima cantante: le manca semplicemente una cosa: LA TECNICA. potete dirmi che il canto di Dowland, Purcell & co ha un altro stile, quello che volete voi: ma io una voce spoggiata e fissa non riesco ad ascoltarla.

  14. Quelli sono suoi gusti, Garcia, rispettabilissimi ovviamente, ma la tecnica non è (di base) un gusto personale: è un fatto (quasi) oggettivo. Lo sviluppo della vocalità in Inghilterra è abbastanza diverso dallo sviluppo della vocalità in Italia (considerando poi cosa storicamente significavano i due stati) almeno fino ad Handel: non a caso i controtenori nascono proprio in terra angla dai “glee composers”, compositori di musiche vocali per falsettisti maschi, famosi nel secolo XVIII. Quindi ripeto, per me la Kirkby è adattissima al repertorio inglese antico che fa. Poi a me piace anche in quel repertorio, ma questo è un mio gusto personale!

    • Di certo mi vien da storcere la bocca sentendola in “Agitata da due venti” dalla Griselda di Vivaldi, in quanto tecnicamente è assolutamente inadatta: la voce non è “oscurata” (nel Settecento la tecnica italiana di canto portava già i primordi di un oscuramento per arrotondare le vocali) e non è presente in tutta la tessitura.

      • Non sono un grande appassionato di musica rinascimentale/barocca inglese: qualcosa conosco ma è principalmente strumentale.
        Tuttavia ci sono alcuni punti del tuo discorso che non condivido e non trovo logici storicamente: la vocalità e il suo sviluppo in Inghilterra non possono essere stati cambiati dall’arrivo di Handel introducendo una tecnica più italiana. Mi sembra un discorso storicamente non accetabile: mi sembra più plausibile pensare ad uno sviluppo della vocalità simile a quello dell’Italia, vocalità, quella inglese, su cui poi Handel inserirà le sue voci, il suo canto o meglio, il suo stile.

  15. Alcune precisazione: la Berganza (nei due dischi citati da Garcia) non canta madrigali, ma un pezzo sacro di Monteverdi e il Lamento d’Arianna (insieme a musica di Rossini e Vivaldi…ossia roba che, storicamente ed esteticamente, non c’0entra un tubo). Quindi di che si sta parlando? Di fanta musica? Di come si dovrebbero cantare dei madrigali che nessuno ha cantato mai in quel mondo(giacché il lamento d’Arianna non è un madrigale)? Di processi immaginari con l’accusa di non cantare come la Marchisio avrebbe (ma non ha mai fatto) cantato i madrigali?

    Secondo, mi spiace, Garcia, ma Misterpapageno ha ragione: lo sviluppo vocale nell’Inghilterra del 1500 è diverso da quello italiano… Soprattutto perché non si deve confondere l’opera seria (da Haendel in poi) con madrigali e canzoni che di operistico hanno ben poco sia come formule che come finalità. Tu stesso dici di non conoscere molto l’argomento. Perché trovi inaccettabile storicamente il discorso per cui l’arrivo di Haendel introduce una tecnica più italiana? In base a cosa? A quali fonti? Diresti lo stesso con la letteratura? Perchè accettare che la diversità di Shakespeare (quanto a tecniche drammaturgiche e poetiche) da Tasso e non quella musicale? Secondo te l’Amleto è uguale a Re Torrismondo? A parte che Haendel arriva nel XVIII secolo e qui si parla di musica di due secoli precedenti, ma è un dato di fatto che la musica inglese fosse alquanto differente da quella italiana, basta fare un confronto con Palestrina e Tallis, Monteverdi e Dowland… Non credo che allora scrivessero immaginandosi la Berganza…

    • il disco di cui parlo io non include nè Rossini nè Vivaldi ma Monteverdi (solo il “confitebor tibi Domine”), la Strozzi, Sances, Palestrina, Lamoretti, Milanuzzi e Molinaro: musica veneziana del 500 profana e religiosa.
      La diversità tra un Tallis e un Palestrina, tra un Dowland e un Monteverdi è solo stilistica. Dal punto di vista della esecuzione canora faccio fatica a credere ad una diversità di tecnica: certo le musiche di Dowland erano destinate al piacere dell’ambasciatore inglese a Parigi mentre quelle di Palestrina erano destinate per finalità religiose.
      Il confronto con la letteratura non regge: le differenze tra un Tasso e un Milton sono dettate da fattori ben diversi da quelli che determinano lo stabilizzarsi di una tecnica canora.

      • Il madrigale e la musica sacra sono genere del tutto differenti: la Berganza canta musiche sacre (una sola di Monteverdi). Punto. Il confronto non si pone. Non esiste. E’ scorretto. Sul resto rispondi non sapendo rispondere…semplicemente perché non ci sono ragioni a suffragio del tuo assunto. Spiegami per quale alchimia la letteratura avrebbe evoluzioni diverse dalla musica: se ritieni Tallis e Dowland analoghi a Palestrina e Monteverdi (salvo per alcune inezie stilistiche) allora non conosci né Tallis, né Palestrina, né Monteverdi, né Dowland…

    • Esattamente Duprez: facendo una semplicissima ricostruzione, dopo il suo periodo italiano 1706-1710 Handel si trasferì in Inghilterra, proponendo al pubblico inglese l’opera italiana (e quindi importando oltre che cantanti anche una nuova sensibilità ed estetica musicale estranea al pubblico inglese), e creando poi l’Oratorio in lingua inglese, che credo di poter dire un incontro tra la cultura musicale italiana e inglese.
      Ma basterebbe solo confrontare gli autori: Christopher Tye, William Byrd, John Dowland, Thomas Campion, John Cooper, Orlando Gibbons, spingendoci fino a Purcell (Dido&Aeneas 1688) per l’Inghilterra; Peri, Monteverdi, Caccini, Carissimi, Legrenzi, Cavalli, Stradella, Scarlatti – e per fare un parallelo nel 1671 si riscriveva il “Giasone” di Cavalli (1649) – in Italia. Due mondi diversi!

        • il discorso, che mi pare Misterpapageno non ha compreso è che a mio modo di vedere le differenze tra italia e inghilterra erano di stile, di genere musicale (fino a un certo punto). differenze molto marcate, certo. ma spostando il discorso sulla tecnica vocale quello che io dico è che non c’erano differenze: così come il violino si suonava con la medesima tecninca a Ferrara e a Londra così con la voce.
          D’altronde, per fare un esempio banale, le Messe Sacre di Byrd o gli Inni di Purcell cantanti nella Cattedrale di Canterbury o di Salisbury e le Messe di Palestrina o di Marenzio si trovavano davanti ad un medesimo problema: dover essere sentite in spazi molto grandi.
          Dubito che i cori del Vaticano cantassero in determinato modo e quelli di Canterbury in un altro ancora,
          dovendo entrambe raggiungere lo stesso obbiettivo: essere sentiti e ascoltati (senza il microfono).

          • Ho capito benissimo il tuo discorso e continuo a sostenere che a mio avviso gli autori servono per capire non solo lo stile ma anche la tecnica vocale. Quindi, se tu metti in comparazione lo spartito dei citati “Dido&Aeneas” e “Giasone”, le scritture vocali riguardano ambiti leggermente diversi, sia come estensione, sia come LINGUA, sia ovviamente lo stile.

            Secondo me ti sfugge proprio questo importantissimo punto della lingua, visto che l’italiano e l’inglese non fanno proprio parte dello stesso gruppo linguistico, contando inoltre il periodo in cui si sviluppa la musica del periodo elisabettiano: da Enrico VII la Chiesa non ebbe più in mano i riti in terra inglese (eliminando restaurazioni più o meno lunghe del Cattolicesimo), ed inoltre con il Book of Common Prayer (1559) si iniziò a pregare e cantare in inglese. Se quindi il canto è parola, come si può negare che la lingua inglese, diversa da quella italiana, non possa avere anche un canto diverso da quello italiano, visto peraltro che gli scambi “culturali” al tempo erano pochi?

            La questione è molto difficile e ci vorrebbe uno studio chiaramente.

          • Peraltro, ci sono (o c’erano nel 900) differenze nel canto operistico tra la tecnica vocale italiana e la tecnica vocale inglese (sebbene oggi nessuno sa più quali sono queste differenze, come anche la scuola tedesca e francese), figurarsi se nel 1600 per non dire nel 1500 non vi erano!
            Sarò io troppo ingenuo …

  16. Misterpapageno, non studio canto e non sono uno storico ma:
    1. diversità di lingua non implica in nessun modo diversità di tecnica: Rossini ha scritto musica in francese, spagnolo e italiano: non credo che ci voglia una tecnica differente per cantare la Giovanna d’Arco, il Moise o la Canzonetta Spagnola. Così come in Handel, parlando di esempi da te citati, non si usano due tecniche diverse per cantare il Dettingen Te Deum o l’Alcina!!! su!!!
    2. A quell’epoca le comunicazioni erano più limitate e più lente ma c’erano!!! non è che vivevano tutti nelle loro case o paesi scollegati gli uni dagli altri. Purcell fu un grande studioso di musica italiana e ne introdusse aspetti nella sua musica, Orlando di Lasso passo buona parte della sua vita di compositore in Italia, Desprez, grandissimo compositore, fu cantore nel Duomo milanese. e così nostri compositori giravano oltre i confini in Europa: Luca Marenzio fu compositore presso presso il re polacco a Varsavia e Cracovia assieme a Giovanni Francesco Anerio, Alfonso Ferrabosco (padre) fu compositore presso la corte di Elisabetta I. Insomma gli uomini circolavano e con loro le idee!!!!!!!

    • Garcia, secondo me stai confondendo non pochi piani logici:
      1. io ho parlato di autori DIVERSI in contesti musicali DIVERSI nella stessa epoca: non puoi paragonarmi lavori DIVERSI di uno STESSO autore, sebbene il lingue diverse (anche se sono fermamente convinto che per le opere rossiniane basate su libretto in francese, Rossini abbia tenuto conto della lingua e dei cantanti che aveva a disposizione di scuola francese).
      2. io ho detto che i contatti erano pochi, non rari o nulli: quindi è ovvio che le idee viaggiassero.

      Detto questo, non aggiungo altro perché non so cosa altro aggiungere ai miei innumerevoli esempi; del resto non è mio scopo far cambiare opinione a nessuno.

    • Inoltre il tuo commento relativo ad Handel non c’entra niente, perché Handel è un punto di arrivo, non una fase precedente e che è il vero tema del dialogo.

      Vorrei inoltre portare l’attenzione su due concetti: contaminazione (i compositori che viaggiano) e tradizione (ciò che permane nel luogo in cui si vive).
      Ma ti ripeto, io ti propongo un punto di vista mio e divergente dal tuo, ma non è mio interesse farti cambiare idea o darmi ragione. Ognuno sa il fatto suo.

    • Garcia, le fonti sono più importanti dell’ideologia o del “sentito dire”… Ti paice la Berganza e Bergonzi? Amen… Peccato che nessuno di loro canti madrigali…e questo è un dato di fatto: puoi pensare quel che vuoi, anche che l’unico modo di cantare e suonare sia quello di Rossini (che palle…finirò per odiarlo: a furia di idolatrarlo me lo state facendo venire a noia)…basta quel minimo di umiltà per cui sarebbe meglio tacere in merito ad argomenti che evidentemente non si conoscono.

  17. Precisazione finale: non ho nessuna intenzione di confrontarmi qui con eventuali repliche fondate sul dogma baroccaro della vocalità fissa, spoggiata, farfugliata… Proprio non mi interessa, perdonamenti…

    Ripeto, il canto è uno, il resto è chiacchiera. Andate in pace.

    • Nessuno ti cerca né ti chiede di intervenire Mancini, e per due motivi:
      1) tutti gli scriventi scrivono liberamente senza costrizioni;
      2) non si riporti niente di quel che si scrive, quindi niente da argomentare.

      • Correggo: nessuno ti cerca né ti chiede di intervenire Mancini, e per due motivi:
        1) tutti gli scriventi scrivono liberamente senza costrizioni;
        2) non riporti niente di quel che si scrive, quindi niente da argomentare.

          • Il modo di cantare è solo uno. I baroccari sono ciarlatani che possono esistere solo sui dischi, non è canto è una porcheria senza senso. Chiuso il discorso.

    • Pasquale, quando articoli e quando canti le vocali e consonanti in diverse lingue, ogni lingua ha una sua maniera e musicalità intrinseca prima ancora di andare ad affrontare temi più musicali come lo stile di ogni epoca e autore!
      Se una persona non capisce le basi del canto, che si fonda sulla parola, non è che me ne faccia un cruccio: amen. Sono stati scritti fior fior di trattati e non ultimo (spero) il famoso testo di Miller “National Schools of Singing: English, French, German, and Italian Techniques of Singing”.

  18. Comunque, Mancini, Garcia etc…nessuno vi obbliga ad ascoltare Monteverdi o i madrigali. Se non vi piace – o se vi aspettate, ascoltando musica del XVI secolo, la cavatina del soprano o le svenevolezze di qualche primadonna capricciosa – ci sono tanti altri repertori ove sfogare il dogmatismo per cui se il cantante non è morto prima del ’25 (e se i suoi lasciti discografici non sono “atti di fede” per ciò che si intuisce d’ascoltare) si tratti di robaccia… Per cui ascoltatevi Manon o fate le vostre elucubrazioni sulla Colbran, ma lasciate in pace ciò di cui, evidentemente, non avete alcuna conoscenza…

    • io però mio caro maestro non capisco perchè lei ogni volta che argomenta le sue tesi sul canto snoccioli tutti i peggiori luoghi comuni sul canto all’italiana, luoghi comuni ( espressione benevola…) degni dei portabandiera del canto espressionista e vociato oppure di certa critica che poi lei stessi disprezza. io, giuro, non capisco, e lo trovo gratuito otre che tremendamente autoscreditante.

    • Ma di cosa stai parlando? Monteverdi? Monteverdi sarebbe quella baracconata commerciale che hanno messo su i baroccari? Sarei disposto a far bruciare tutti i loro dischi, in cambio del ritrovamento di qualche raro cilindro…

      Il canto è solo uno, fino a che non esistessero dischi e microfoni si è sempre cantato in un solo modo. Chi oggi millanta l’esistenza di tecniche di canto diverse, ha l’onere di provare in cosa consiste questa tecnica (e non bastano due paroline sul recitar cantando, sulla musica serva della parola… concetti che vogliono dire tutto e niente…). La verità invece è che i baroccari delle fonti hanno fatto un uso approssimativo ed arbitrario, per avallare le loro porcherie vocali e strumentali, e vendere così tanti dischi farlocchi.

      • Ci sono 3 problemi sulla riscoperta di antichi cilindri monteverdiani, caro Mancini:
        1) se esistessero dei cilindri con musiche di Monteverdi, ci sarebbero cantati solo dei brani pervenuti attraverso le raccolte sette-ottocentesche di arie antiche come “La Flora” o il Parisotti o il Torchi, anche se la presenza di questo autore è veramente rarissima perché tali raccolte si fecero prevalentemente su arie dal 1650 al 1750 (escludendo Caccini che con le sue “Nuove Musiche” ebbe sempreverde successo);
        2) quindi nessuno lo cantava o rappresentava più da secoli (vedi il disprezzo che ne ebbe lo stesso Verdi), figurarsi se trovando antichi cilindri si potesse avere un metro di paragone;
        3) inoltre la sua riscoperta avvenne solo dopo la pubblicazione dell’opera omnia da parte di Malipiero che durò dal 1926 al 1942, e questo è un dato storico importantissimo!

        • Intendevo un cilindro qualsiasi, per esempio di un’aria di Rossini… Lo sanno tutti che Monteverdi al tempo era morto sepolto e dimenticato (e la ragione è che con Monteverdi i palloni gonfiati operistici non avrebbero potuto esaltare il proprio ego con pose primadonnistiche: anche questo è declino canoro e musicale, e come dico sempre il declino ha inizio con l’età moderna, quindi dura da mezzo millennio, e in più nell’ultimo secolo lo sviluppo esponenziale delle tecnologie e dei sistemi di comunicazione ha accelerato vertiginosamente la putrefazione del canto e della musica).

      • Sull’antistoricismo, antifilologismo delle patacche dei giorni nostri nessuno discute, anche se bisogna sempre fare distinzioni: io trovo serissimi direttori quali Savall e Alessandrini per il repertorio che fanno, peraltro un repertorio che studiano da una vita.

        Sulle tecniche del canto, caro Mancini, non si può disquisire in questo piccolo spazio di commento: c’è tanto, tantissimo da dire e tantissimi testi per cui si può ricostruire con l’onestà e la capacità di intendere di chi li legge: basti pensare uno dei tuoi argomenti forti, gli acuti nella tecnica protoromantica e in quella romantica: come puoi dire che sono una stessa tecnica se vanno a mutare fisicamente dei meccanismi di emissione? Le basi del canto sono e saranno sempre le stesse ma come ho già detto, ogni epoca ha la sua tecnica ed ogni autore ha il suo stile!

        • Se per tecnica intendi la tecnica strettamente musicale, d’accordo. E’ chiaro che le scale e gli arpeggi sono diversi dal declamato e dal sillabato. Ma qui siamo ad un discorso prettamente musicale, per cui ogni repertorio, ogni compositore, ogni brano, avrà le proprie peculiarità tecniche.

          Ma i meccanismi di emissione sono sempre gli stessi. Gli acuti di base si fanno in un solo modo, Duprez non ha inventato niente, ha solo sparato i DO di petto, perché era un fenomeno, se proviamo a farlo noi ci spacchiamo la voce. Una padronanza completa della voce permette al cantante musicalmente preparato di affrontare qualsiasi repertorio. Lo studio del canto non è diverso dallo studio di qualsiasi altro strumento. Non si è mai visto un pianista che debba studiare una tecnica diversa per suonare un preludio di Bach o una sonata di Mozart o un Notturno di Chopin. Ci sono diverse soluzioni tecnico-musicali, ma fanno parte tutte del medesimo ventaglio tecnico-espressivo dell’artista completo.

    • Perdonami, Mancini, ma il tuo “fondamentalismo canoro”, benché di certo giustificato da buone ragioni, è risibile dal punto di vista musicologico. Senza mettere in mezzo trattatistica e prove storiche inoppugnabili (per esistenza, non per interpretazione) del mutamento enorme che la tecnica ha subito non dico in 200 anni, ma solo in un cinquantennio, mi basta chiederti di ascoltare un muqam azero o una cantata mongola per sincerarti da solo di quanto diversi effetti si possano ottenere adoperando tecniche perfettamente lecite dal punto di vista fisiologico, ma frutto di tradizioni diverse, a loro volta giustificate – e qui casca l’asino, se mi permetti – da gusti diversi. Mi chiedo come possa tu stesso jurare in verba magistri rifiutando di contestualizzare gli insegnamenti canori che (credo di capire) hai ricevuto, i quali sono giustamente figli del loro tempo. Se poi vuoi restare convinto del fatto che Duprez, Devia, Horne, Farinelli e Rasi abbiano condiviso la stessa tecnica, fai pure. Ma poi non ti lamentare dei falsettisti, perché sarebbero davvero la minor cosa!

      • Io riconosco un cambiamento nel canto solo nel senso di declino, un declino che come ho già scritto perdura da secoli, ma che solo nel ‘900 ha subito una fortissima accelerazione: questo declino poi coincide con la progressiva commercializzazione della musica, con il suo progressivo trasformarsi in un oggetto di consumo.

  19. vedi caro udatorbas sono documentazioni fonografiche vecchie ormai di 100 anni cui magari aggiungerne altre 50 in forza di frasi “la Patti cantava come la Penco” che confrotano la tesi che la tecnica di canto sia sempre e solo una e che le “sgrammaticature” nascano da scelte e determinazioni interpretative. Ascolta la regina del suono di petto e dello “svacco” ossia eugenia burzio. Quando decide di cantare piano e con gusto castigato canta esattamente come la regina delle “gelide matrone” coeve ossia giannina russ.
    ciao dd

    • Confrontami (youtube alla mano) Ideale cantato da Moreschi, Garulli, De Lucia e Pavarotti; poi fai lo stesso con “Di quella pira” di Escalais, Tamagno, Lauri-Volpi e Pertile (nota che alcuni furono contemporanei). Se ancora non ti basta, metto sul piatto “Ecco ridente in cielo” di De Lucia, Constantino e Kraus. Ora, mi pare che questi siano quasi tutti cantanti (giustamente) lodati su queste pagine, ma cantano in maniera completamente diversa gli uni dagli altri. Senza dubbio l’idea di fondo di ogni tecnica è il far risuonare i suoni su per la testa, ma è come dire che la crema pasticciera è una besciamella con l’uovo (se mi permettete la battuta): all’atto pratico nè Corelli nè Del Monaco o Limarilli hanno mai negato di far risuonare la voce “in maschera” (altra espressione che ha una data di nascita: l’ultimo decennio dell’Ottocento), ma Melocchi scriveva di aver (re)introdotto un metodo nuovo e completamente rivoluzionario. E’ lo stesso problema di Mathilde Marchesi e la bocca a sorriso: ogni epoca (ed ogni luogo) ha sviluppato autonomamente aspetti della tradizione tecnica ed interpretativa più adatti al gusto contingente. Il che non significa che il cantare senza appoggio sia accettabile come “evoluzione”, perché io non dico nè che migliora nè che peggiora: semplicemente cambia, talvolta in meglio, talvolta in peggio. Se mi parli invece dell’esigenza d’avere cantanti la cui voce sia storicamente (ci vuole l’avverbio) adeguata a quello che vanno a cantare, il discorso può essere diverso. Ma siccome Turandot fu scritta per la voce di Lauri-Volpi dovremmo bollare come false le incisioni pavarottiane e, soprattutto, quelle di Domingo; oggi però tutti credono certamente che Calaf sia un ruolo per tenore eroico o drammatico. Se poi tu non avessi sottomano le incisioni del bel tempo che fu quale termine di paragone ti accorgeresti solo della evidente pericolosità dello strillo moderno (che moderno poi non è), ma avresti poco a che ridire sul resto. Il canto è un’arte, e si fonda sulla sensibilità di chi lo esegue e di chi lo ascolta: più vai indietro nel tempo più trovi sensibilità vicine a quelle dei compositori ottocenteschi, e quindi un canto ch’è anche tecnicamente ad essi più confacente. Almeno, parere mio.

      • Quanta carne al fuoco!!! Sono argomenti complessi, bisognerebbe scrivere più di un libro per poterli sviscerare come si deve!!!

        Se vuoi, ti chiedo un atto di fede. Io sostengo che al di là delle parole che nel corso dei secoli sono state inventate per descrivere la tecnica (parole come “maschera” – inventata dalla foniatria -, parole come “falsetto”, come “appoggio”, ecc…), e al di là delle diverse esigenze espressive e musicali alle quali la voce cantata ha dovuto man mano piegarsi nel corso della storia, il canto, alla base, sia sempre sostanzialmente la stessa cosa, e pertanto credo che di fronte ad una esecuzione vocale non abbia nessun senso dire “questo canta con la tecnica giusta”, “questo canta con la tecnica sbagliata”, ma si possa solo giudicare quanto l’artista canti bene o canti male, e giudicare un cantante non dovrebbe essere diverso dal giudicare un violinista o un pianista, è musica non foniatria. Lo dico una volta e poi chiudo, tutte le complicate fantasie sulla tecnica o sulle diverse possibili tecniche io le considero poco più che masturbazioni mentali.

  20. a) l’interpretazione di domingo calaf è pessima perchè domingo non squilla sugli acuti perchè non sa passare correttamente di registro. pavarotti ha un centro che l’orchestra di puccini mortifica. per calaf servono, ma non bastano gli acuti. ecco il perchè della fama del calaf di corelli
    b) quanto a corelli poi con del monaco e la tecnica di canto aveva ben poco o nulla a che spartire. era, corelli, musicalmente discutibile aveva vezzi vocali ancor più discutibili, ma cantava in maniera differente e molto da del monaco.
    c) quanto agli esempi che fai potrai percepire talune differente , ma certi vezzi di de Lucia (nel Barbiere poi è a fine carriera) non intaccano un metodo di canto , di fonazione e di respirazione ( a monte di tutto ciò) chè è quello di schipa, di fleta di gigli o di florencio constantino. il problema è che quando si ascolta si deve anche sapere che cosa andare ad ascoltare

    • De Lucia è nato nel 1858 (o 1860, secondo alcuni) ed è morto nel ’21; quando ha registrato aveva si e no 50 anni e fu “monopolizzato” dalla Gramophone proprio perché all’apice della carriera. Il Sol in fioritura di “aurora” in De Lucia è in mezza voce (ma la registrazione è quello che è, potrebbe essere pure falsettone come i La che seguono), Constantino lo fa in uno sfacciato falsetto e Kraus, come al solito, a voce piena. Allo stesso modo uno come Georges Thill si poteva permettere (per epoca, ma soprattutto per nazionalità) di chiudere “La donna è mobile” con un Si in falsettone. Certamente tutti questi respiravano con i polmoni e mandavano i suoni in alto per la testa (il minimo per farsi sentire, direi) ma quello che fanno è grandemente diverso proprio come approccio tecnico all’acuto e come uso materiale della fusione dei registri. Vorrei vedere la tua reazione a sentire Kraus, sempre totale avversario del falsetto e del falsettone, cantare come Constantino. Proprio Kraus del resto ha sempre nasalizzato molto, e dichiaratamente, come si può udire dalle sue masterclass, cosa che De Lucia non fece mai. Parlando di Calaf tu eludi la mia affermazione: io ho detto che la voce di Domingo, baritonale e “grossa” per natura (che poi abbia falle tecniche è secondario nel mio discorso) è completamente diversa da quella, acutissima e agile, di Lauri-Volpi. Il fatto è che nessuno si scandalizza nel sentire Domingo che canta Calaf, perché adesso va di moda la voce grossa (Corelli, Del Monaco, lo stesso Pavarotti, furono tutti caratterizzati da voci particolarmente imponenti). Se ascolti Thill cantare “Nessun dorma” non puoi di certo avvicinarlo a nessuno degli interpreti odierni, ma per ovvie ragioni: sopra il La (o, in gioventù, il Sib) Thill cantava in falsettone. Quanto alla respirazione di Gigli e Schipa, provenendo tutti e due dalla vecchia generazione (in realtà la seconda che abbiamo documentata dal fonografo) è ovvio che tu li possa accostare: io voglio vedere assieme Moreschi, la Patti, Pavarotti e la Caballé.

        • opinione in vero “modestissima” che dimostra, più che altro, l’ignoranza o superficialità -che poi fanno a coppia- nel giudicare un genere musicale che richiede la stessa preparazione tecnico-vocale e musicale (con in più e possibilmente doti d’attore per le parti recitate) necessaria per l’opera e l’operetta. O per caso un certo Richerd Tauber, tanto per fare un nome, lo gettiamo via con l’acqua sporca etichettandolo “tenore d’operetta” perchè un certo Lehar gli ha composto su misura tra le più belle operette da lui scritte?
          A livello popolare, infine, Domingo è amatissimo e personalmente, col passare degli anni, io che lo seguo dai tempi dei suoi debutti lo ammiro sempre di più per la tenacie e l’amore che professa per la musica e l’opera.
          Dopo di chè libero ognuno di pensare quel che vuole e soprattutto di avere dei gusti personali, certo.
          Ma anche rimanesse un “tenore da zarzuela”, e lo prendo come un complimento, lunga vita al grande Plassy!

          • D’accordo sulla Zarzuela, che nel passato ha avuto interpreti del calibro di un Emili Vendrell, ma su Domingo proprio non sono d’accordo. Domingo è il simbolo di tutto ciò che io più detesto nel canto, nell’opera, nella musica.

          • Ok, ne prendo atto: Domingo ad alcuni fa schifo e lo detestano. Liberissimi e ci mancherebbe, ma la definzione riduttiva “tenore da Zarzuela” è abberrante e non solo per il valore di Emili Vendrell o di un altro Emilio (Sagi Barba) e di tanti altri illustri e documentatissimi interpreti “storici”.
            La Zarzuela, semplicemnete, andrebbe conosciuta a fondo, come qualsiasi altro genere musicale teatrale, prima di liquidarla come un “genere minore” e di conseguenza chi la interpreta.
            Basterebbe ascoltare la MARINA (che poi fu ampliata in opera e come tale tenuta a battesimo da Tamberlik al Teatro Real di Madrid) nell’edizione di Lazaro, con la Capsir e Mardones e la selezione della medesima incisa da Fleta, con Cora Raga, per farsene un’idea. E non cito le edizioni “moderne” visto il sito che ci ospita!
            Pace e gioia

          • Ma infatti sonvecchiomarobusto, tenore da zarzuela non è un dispregiativo ma una collocazione vocale di quello che vocalmente è Domingo.
            Se poi tu hai la coda di paglia, non è colpa mia.
            Come credo che la Bartoli sia una voce da mezzosoprano di mezzocarattere o per personaggi secondari buffi: non è un dispregiativo, ma anzi dare valore ad una voce che in altri repertori fa male (vedere Sonnambula e Norma).

          • Comunque, se noti la tua menata che la zarzuela è un genere minore etc etc è tutto un tuo onanismo mentale perché personalmente non l’ho mai detto né pensato, visto che Garcia sr era scrittore di zarzuelas e le metteva in scena con tutta la famiglia!

      • Ai tempi di De Lucia, quarant’anni per un cantante non erano pochi, e a cinquanta di solito era prossima la fine della carriera (salvo eccezioni, come il fenomenale Battistini). La vita era più corta, si invecchiava prima, e si cantava con ritmi più impegnativi rispetto ad oggi. De Lucia quando incide i suoi dischi è all’apice della fama, ma non certo all’apice della freschezza vocale. Poi lo sai che i suoi dischi sono stati sempre ristampati in modo non perfetto, per cui in molte registrazioni la voce ha un timbro eccessivamente scuro dovuto alla velocità troppo lenta di rotazione del disco, e questo ovviamente determina abbassamenti di tonalità talvolta davvero inverosimili. Perciò questi ascolti vanno sempre presi con le dovute cautele.

        Dopo non mi è chiaro quello che scrivi, parli di falsettone e di mezza voce, non capisco se stai parlando di registri vocali o di pienezza/leggerezza d’emissione. Dovresti chiarire cosa intendi.

        Kraus sulla tecnica e soprattutto sui registri a mio parere diceva castronerie, la sua stessa tecnica di canto la trovo molto discutibile, con tutto quel ricorso al naso, difetto d’emissione aborrito dagli stessi trattati…

        Thill sul si naturale della Donna è mobile emette un suono pieno, e così nel Nessun Dorma. Certo passa di registro, non grida mica di petto!

        • So bene che De Lucia va solitamente alzato d’un tono rispetto ai riversamenti in commercio, e provvedo a farlo io stesso con Audacity ed altri software; ho anche avuto modo di udire di persona uno dei suoi primi dischi su di un grammofono coevo, alla velocità comune della meccanica. Ti sei mai chiesto invece perché subisca questi abbassamenti ingiustificati (si tratta di un’arbitraria alterazione di velocità lasciate corrette per altri cantanti)? Proprio perché, e questo è un parere che ho trovato condiviso da molti cultori di vecchie incisioni, la voce di De Lucia, con i suoi gravi marcati ed i suoi acuti chiarissimi in falsettone, caratteristica che non passò per nulla inosservata al pubblico inglese che così non a caso lo descrisse, è troppo poco “carusiano” e, quindi, troppo poco “tenore” per il gusto odierno. De Lucia non faceva gli acuti a voce piena, imparò a fare qualcosa a metà carriera per ragioni commerciali, ma quando gli veniva chiesto già un La acuto se capiva che l’effetto della sua tecnica era troppo diverso rispetto a quello di moda abbassava pesantemente i pezzi anche di tre semitoni. Del resto a Napoli c’è ancora chi, sottobanco, maneggia tecniche simili rimaste impermeabili alla deriva del canto tenorile; uno che canta in maniera per oggi inusuale è, ad es., Rosario Totaro (da non confondersi con G. De Vittorio con cui spesso compare).

          • Allora il problema del riversamento dei vecchi dischi non riguarda solo De Lucia ma tutti i cantanti registrati con il rudimentale procedimento acustico (la famosa collana The Record of Singing è in gran parte riversata male, con voci femminili stridule ed innaturali a causa dell’eccessiva velocità). Il fatto è che prima degli anni Venti e del miglioramento delle tecniche di registrazione, la velocità con cui i dischi venivano incisi non era standardizzata, per cui i dischi giravano tutti ad una velocità differente, che non era mai di 78 rpm esatti. Vengono chiamati 78 giri per convenzione, ma solo dagli anni Venti i dischi venivano effettivamente incisi a questa velocità. Naturalmente questo crea, oggi, difficili problemi nella riproduzione, poiché diventa impossibile sapere precisamente a quale velocità far ruotare il giradischi, senza aver mai ascoltato dal vivo il cantante (all’epoca la gente regolava il giradischi in base al timbro, riconoscendo quando il grammofono riproduceva lo stesso colore di voce che il cantante aveva a teatro).
            Uno dei modi per determinare la velocità, oggi, è la tonalità del brano, ma con i cantanti che erano soliti abbassare, come De Lucia, la tonalità non è un riferimento infallibile. Per non parlare poi del diapason, che a quel tempo era molto variabile da paese a paese.
            Quindi non so se De Lucia vada alzato esattamente di un tono, fatto sta che alcuni abbassamenti risultano davvero inverosimili, perché per quanto un tenore sia corto è difficile pensare che possa aver paura ad affrontare un Lab! Inoltre talvolta questo timbro io lo sento davvero troppo scuro e baritonale.

            Per quanto riguarda gli acuti, De Lucia li eseguiva a regola d’arte con il consueto passaggio di registro, certo era un tenore corto e non aveva un registro acuto molto esteso. Era un autentico virtuoso, padrone completo del fiato, e per questo sapeva sfruttare l’emissione leggera a mezza voce, amalgamandola con la voce integrale, senza fratture. E’ tutto un lavoro di fiato, non è affatto una tecnica diversa, è solo padronanza completa della voce.

  21. Secondo me, aldilà delle interessanti considerazioni tecniche, il problema odierno è l’ assoluta passività ricettiva del pubbllico.Oggi la gente, mentre ammira il cantante non riesce a non pensare, con un senso di straniamento, che sta guardando la star supergalattica, perché così i media hanno strillato fino all’ inverosimile. Insomma, proprio come fa il Narratore della Recherche quando finalmente è ammesso nel salotto Guermantes, e non fa che ripetersi: sono proprio qui, sono dai Guermantes, ci sono davvero, coi più strafichi del Faubourg. E non riesce a crederci

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