Opera napoletana III. “La Cecchina, ossia la buona Figliuola” di N. Piccinni.

Piccinni, chi era costui? Oggi il nome del compositore barese, è citato – tutt’al più – in riferimento alla querelle (più immaginata che reale) con Gluck, che intorno al 1780 “scosse” il bel mondo teatrale parigino: da una parte i piccinisti a tutela della tradizione italiana, dall’altra i gluckisti fautori del rinnovamento dell’opera. Ovviamente le cose non stanno esattamente così e la suddetta vulgata ha mero valore di aneddotica da salotto (difficile e rischioso tracciare confini certi in una materia così sfuggente come le categorie musicali: basti pensare che il Nostro era grande ammiratore del Gluck e, certamente, a lui si ispirò in molti dei suoi lavori). Ma questa è un’altra storia. Piccinni – oggi pressocché dimenticato – conobbe nel secolo XVIII, un successo straordinario: in Italia e, soprattutto, in Francia (che era il punto d’arrivo di ogni carriera di prestigio). Autore di più di 100 opere (tra serie e buffe), è ricordato soprattutto per quello che fu il suo primo e più straordinario trionfo. Cecchina, ossia la buona figliola (su libretto di Goldoni, tratto da una propria commedia, a sua volta ispirata ad un fortunato romanzo di Richardson), vide i suoi natali a Roma, nel febbraio del 1760 (con un cast interamente maschile, poiché ancora vigeva il vecchio divieto per le donne di calcare i palcoscenici): scritta, si dice, in 18 giorni appena. Suddivisa in tre atti, la vicenda è una variazione sul tema della brava trovatella – di animo gentile e puro, ma di natali umili e oscuri –  che si invaghisce (ricambiata) del giovin signore, peraltro suo “datore di lavoro, costretto, noblesse oblige, a nascondere la relazione, in virtù della differenza di rango: ovviamente equivoci, cameriere invidiose e cattiverie assortite, “ingarbugliano” la situazione (la povera Cecchina viene pure arrestata, una volta scoperta la tresca – e non si sa bene per quale motivo: forse all’epoca il licenziamento avveniva manu militari – e liberata da un gruppetto di terricoli), sino allo scontato lieto fine, dove un soldataccio tedesco spuntato dal nulla, rivela casualmente le nobili origini della sventurata. Ristabilito, dunque, l’ordine tra le classi sociali, sopiti i dissapori e restaurata la moralità, il Marchese può sposare l’ex sempliciotta, la quale – a dimostrazione della sua nobiltà (non solo in quarti) – perdona i suoi calunniatori. Il tutto è organizzato da Piccinni in una sequenza di 29 numeri musicali (di cui 24 sono episodi solistici), preceduta da una sinfonia in tre tempi e inframmezzata dai consueti recitativi al cembalo, con l’aggiunta di due brevi duetti e tre pezzi d’insieme come chiuse d’atto. La scrittura è garbata e fluida, la strumentazione è trasparente e delicata. Il successo fu travolgente, tanto da far nascere una vera e propria moda in tutta Europa (ci si vestiva “alla Cecchina” e ad essa si intitolavano locali e caffè) e da assicurare al compositore l’invito della regina Maria Antonietta a Parigi. Da quel momento in poi la carriera del compositore fu una continua ascesa: Roma, Napoli, Lisbona, Londra fino a Parigi, dove compose i suoi titoli più innovativi e maturi (anche se fermi ad un marmoreo classicismo di marca gluckiana – suo preteso rivale – non avendone, però, l’inventiva e la robustezza). Pochi anni dopo, tuttavia, di Roland, Atys, Iphigénie en Tauride, Didon, non sopravvisse neppure il ricordo, e solo oggi – nell’ambito di quei festival votati, quasi sempre, alla riscoperta del superfluo – possiamo avere un’idea della complessità di queste ultime partiture, che pure non riusciranno (e non riescono ancora) ad eguagliare il fascino della Cecchina. E dunque dove sono le ragioni di tale successo? Non me ne vogliano gli eventuali lettori “piccinisti”, ma non va certamente individuato nella mera qualità musicale (che pure non manca).

Ciò che in realtà – ora come allora – colpisce l’ascoltatore, è la sua immediatezza e la sua cifra caratteriale. Innanzitutto il compositore abbatte il rigido confine, sino ad allora invalicabile (salvo le più felici esperienze del recitar cantando), tra opera seria e buffa, inaugurando – di fatto – la moda della comédie larmoyante: Piccinni fa muovere (e cantare) i suoi personaggi con naturalezza e realismo, senza indulgere negli eccessi caricaturali della farsa più sfacciata o nel vuoto spinto della mera esibizione virtuosistica (come stava degenerando l’Opera Seria, ormai chiusa in sé stessa a celebrazione della propria decadenza: non a caso di lì a poco, si sentirà l’esigenza di un profondo rinnovamento, come ben interpretarono Gluck e Mozart, seppure da presupposti e con risultati molto diversi). E lo fa senza ricorrere alla mera giustapposizione di generi (nobile/plebeo, ricco/povero, tragico/buffo), ma piuttosto intrecciando i diversi livelli, facendo interagire tra di loro personaggi che apparterrebbero (almeno così è sempre stato) a mondi separati, con uno sguardo di profonda e umana solidarietà. Una commedia di carattere, dunque, giocata sulla psicologia di personaggi veri (per la prima volta), comuni, in cui il pubblico ben poteva identificarsi. Pur tra le inevitabili concessioni ad una struttura formalmente convenzionale (l’alternarsi di arie e recitativi e lo scarso numero di brani d’insieme), Piccinni si emancipa dall’obbligo dell’aria tripartita (le frequenti “siciliane” che suggeriscono malinconie allora sconosciute o i mesti canti popolareschi in tonalità minore, scardinano la sequenza dei da capo), o dall’ornamentazione funambolica e finalizzata a mero esibizionismo: solo ai due personaggi “seri” (Lucinda e Armidoro) sono concesse arie di coloratura (ma intese in senso fortemente parodistico). L’orchestra è chiamata a dipingere con garbo e leggerezza gli stati d’animo dei protagonisti, con spumeggiante vivacità e grande finezza: in tal senso emblematiche sono le introduzioni alle arie, ricche di inserti concertanti ed obbligati. Gli episodi più interessanti vanno ricercati proprio nelle arie dei personaggi “bassi” (Cecchina, Paoluccia, Sandrina) piuttosto che nella parte più convenzionale del tenore o, soprattutto, negli ingombranti sfoghi virtuosistici della Marchesa Lucinda e del Cavalier Armidoro. E’ tuttavia chiarissimo, per questi ultimi, l’intento parodistico di una scrittura eccessivamente fiorita e assolutamente fuori luogo, estranea allo spirito dell’opera: questo contrasto di caratteri (anche musicali) rende irresistibilmente comici i personaggi “seri”, mentre commuove la semplicità e la serietà (intesa come verità) di quelli “comici”. Un discorso a parte va riservato al brano divenuto, suo malgrado, il più famoso dell’opera: quel “Furie di donna irata” che la Sutherland trasformò in una straordinaria esibizione da primadonna. In realtà l’aria – se inserita nel suo giusto contesto – non può e non deve essere presa sul serio, anzi, sembra “mettere alla berlina” proprio l’atteggiamento con cui la Sutherland affronta il pezzo. Quello che è lo sfogo stizzito di un’acida invidiosa (e in cui Piccinni vuole mostrare, con raffinata ironia, i capricci delle viziatissime divine attorno alle quali “girava” il mondo dell’Opera Seria) diventa, per  “colpa” della Stupenda, esattamente l’oggetto della parodia: un’aria di bravura in cui è bandita ogni concessione al sorriso. Senza contare l’effetto collaterale di condizionare pesantemente ogni successiva rappresentazione dell’opera, costituendo un ingombrante precedente, tale da far dipendere l’esecuzione tutta da quei 7 minuti di musica. L’opera, rappresentata con regolarità sino alla fine del XVIII secolo, non sopravvisse al cambio di gusto del nuovo secolo ed ai suoi trasporti passionali, poco inclini a concedersi il disincanto del sorriso: oltretutto la mancanza di elementi esibizionistici la rendevano poco interessante per le dive di turno (provvisoriamente riappropriatesi di un ruolo centrale nell’estetica musicale del tempo). Anche se non venne mai dimenticata (contò Verdi tra i suoi ammiratori), fino alla riscoperta del XX secolo, dove cominciò a circolare di nuovo in tutta la sua dignità, accanto ai tanti capolavori dell’opera napoletana, fino ad allora messi in ombra dalle tinte forti del melodramma, prima, e del verismo, poi. Tra le non molte incisioni, amo ricordare – più che le registrazioni di Martina Franca (Campanella 1990) o di Paternoster a Bari nel 2000 (in una partitura criticamente revisionata): tutte molto corrette nella ricerca e nell’attenzione ad uno stile autentico – la splendida versione della Rai di Napoli (di cui è disponibile anche il video), risalente al 1969, dove il garbo di Caracciolo e il gusto di Bruscantini, Panerai e Mirella Freni, riescono a ricreare quel clima di leggerezza, malinconia, nostalgia e umanità, quella “civiltà del canto” che nessuna ricerca musicologica può, da sola, restituire.

L’ascolto: La Cecchina, ossia la buona Figluola (Napoli 1969 – video integrale)

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