Verdi Edission – Macbeth

Pur al di fuori delle grandi sinergie novecentesche, musica e cinema sembrano andare serenamente a braccetto. Più volte capita di prendere atto che la dimensione del simbolico – quando si parla di arte e di vita – non conosce barriere. Tanto da poter rintracciare – in epoche e ambiti differenti – “variazioni sul tema” che svelano interessanti congiunzioni a capo di un medesimo sentire. Una sintonia ultratemporale che riguarda forse l’umanità intera più che la singola espressione. Così succede che alla perfetta distanza di un secolo, due grandi personalità come Giuseppe Verdi e Orson Welles si trovino alle prese con lo stesso, immenso testo, a firma di uno tra i più grandi drammaturghi che la storia del teatro abbia mai licenziato: Macbeth di William Shakespeare. Nel 1847 il bussetano trionfa al Teatro la Pergola di Firenze, nel 1947 il cineasta americano stava ultimando, tra mille difficoltà produttive, una delle sue opere più celebri. Nella capacità di dischiudere i segni incrociati tra i tre autori, Macbeth rimane un titolo che segna una sorta di ultimità nel corpus verdiano e wellesiano, una soglia che possiede tutti i crismi di una cesura, quasi evocata già dalla sua netta spaccatura sillabica: ultimo lavoro dell’iniziale carriera statunitense del regista prima dell’approdo in Europa, prima elaborazione delle nuove forme espressive del catalogo del compositore. In questo senso, non possono che apparire profetiche – oltre che rivelatrici di una precisa dichiarazione di intenti – le parole che Verdi allega a Piave insieme alla sinossi del’opera: «Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane! Se noi non possiamo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori dal comune». Così è stato. Vediamo, in breve, perché e in qual modo.
Per la stagione di carnevale e quaresima del 1847 del Teatro la Pergola di Firenze, l’impresario Lanari contatta Verdi con l’offerta di allestire una nuova opera. L’impossibilità di poter contare sulla partecipazione di Gaetano Fraschini fa slittare la composizione dei Masnadieri, dal momento che il tenore pavese sarebbe l’unico – almeno alle orecchie di Verdi – a poter offrire una valida resa del ruolo di Karl Moor (comunque non si opporrà, pochi mesi dopo, alla direzione dell’Her Majesty’s Theatre che gli offrirà Italo Gardoni per la stessa parte). Accantonato Schiller, Macbeth diventa l’unica alternativa possibile. E Verdi, che ha già sviluppato da tempo un particolare interesse per il drammaturgo inglese, accetta – con la garanzia di poter contare sulla classe di Felice Varesi nei title role, mentre non sembra particolarmente turbato dalla sostituzione di Sofia Loewe per indisposizione, già prima Elvira (Ernani) e prima Odabella (Attila), con Marianna Barbieri-Nini, già prima Lucrezia Contarini (I due Foscari) – dando inizio a un percorso compositivo che rappresenterà un unicum per la febbrile solerzia e l’intransigenza ossessiva verso sé stesso prima ancora che nei confronti di Piave e degli interpreti. Per la difficoltà di aderire ai dettati del compositore, che pretende una versificazione particolarmente scarna, stringata, asciutta al fine di rendere la situazione drammatica sempre più efficace e chiara, è proprio il librettista a ricevere le critiche più “appassionate” («T’assicuro che io non vorrei il tuo dramma per tutto l’oro del mondo»), tanto da finire allontanato – vengono adempiuti gli oneri economici, ma senza che compaia il nome dal frontespizio del libretto – non appena spedisce a Verdi il testo degli ultimi due atti: il coro delle streghe del terzo atto e la scena del sonnambulismo nel quarto sono infatti debitori della penna del cavalier Maffei. I sei mesi impiegati per venire a capo della partitura scorrono senza soluzione di continuità, mentre il massacrante numero di prove – oltre una centinaia, tra pianoforte e orchestra, per non parlare del duetto del primo atto, ripetuto all’incirca centocinquanta volte «per ottenere che fosse più discorso che cantato», almeno secondo i ricordi della Barbieri-Nini – rivela in modo inequivocabile la consapevolezza di Verdi nel voler lasciarsi alle spalle quei canoni rinascimentali che continuavano a relegare la scrittura orchestrale dell’opera italiana in un comparto secondario.
La rivoluzione di Macbeth – se vogliamo – appare quindi prima strumentale che vocale, così da giustificare l’interesse che questa partitura è riuscita a suscitare in direttori come De Sabata, Böhm, Muti, Abbado, Sinopoli, etc. Il ventennio aperto dai primi anni Trenta trovava nella voce la propria ragion d’essere, tant’è che gli stessi Bellini e Donizetti – nonché il primo Verdi – non nascondevano che nella loro logica compositiva l’orchestra non era altro che l’effetto di un processo creativo che partiva dalla voce, di cui era in fin dei conti un naturale accessorio. Con Macbeth invece lo strumento – inteso altresì come sezione separata – riconquista autonomia, sia all’interno del corpus verdiano che nel melodramma nostrano tout court. Un’acquisizione peraltro non fine a sé stessa – frutto di chissà quale “determinismo musicale” – ma determinata da un’urgenza che è prima di tutto teatrale e quindi espressiva. Per usare le parole del Budden, «qui la nudità spazzata dal vento della desolata brughiera shakespeariana penetra nel cuore stesso del dramma». Il principio imitativo che muoveva certe pagine della Giovanna d’Arco (la tempesta) o dell’Attila (il cielo che si rasserena) viene meno a favore di una generale verità drammatica che attraversa il testo nella sua integrità. È chiaro che questa nuova attenzione agli impasti timbrici e strumentali costituisca il contraltare perfetto al superamento – almeno in forma embrionale – dei tradizionali “numeri chiusi” che segnavano la successione tra recitativo e aria (o momento d’insieme). Valgano su tutti i due momenti culminanti del primo e del quarto atto, ovvero il duetto tra Macbeth e la regal consorte e la grande scena del sonnambulismo della Lady: il primo appendendo al chiodo il modello “simmetrico” dei duetti protoromantici, in cui le voci facevano il loro ingresso in successione con lo stesso tema, il secondo producendo sconquassi in una linea vocale che si fa più declamata che cantata, quasi discorsiva per dirla con la Barbieri-Nini; entrambi, immersi in un tessuto musicale cameristico, teso ad addentrarsi tra le maglie fini della psiche, e quindi di un privato che è al contempo personale e spaziale. Non stupiscono allora il tono esaltato e il rigore esibiti nelle indicazioni che Verdi dà ai cantanti, al maestro concertatore Piero Romani – amico di Rossini – e al direttore d’orchestra Alemanno Biagi, che – secondo quanto racconta Eugenio Checchi – sembrano subire a poco a poco «il fascino di quella volontà ferrea, di quell’indomita fantasia non mai contenta di sé, e che tornava ogni giorno a suggerire qualche nuova interpretazione, magari cozzante con quella del giorno avanti, ma più perfetta, più artisticamente efficace». Il trionfo pare così già segnato…
…proprio come il fiasco che incasserà Verdi poco meno di vent’anni più tardi. Perché bisogna dire che la partitura eseguita oggi per la maggiore non è quella che fa capo al successo fiorentino del ’47, ma la versione rivista nel ‘65 per il Théâtre Lyrique di Parigi, dopo che Leon Escudier – l’editore francese di Verdi – aveva promosso solo un anno prima l’idea di allestire l’opera in Francia con alcune modifiche, tra cui l’inserimento delle canoniche airs de ballet in numero di tre. In realtà l’eventualità di un “aggiornamento” francese non era del tutto nuova: già nel dicembre del ’58 Macbeth avrebbe dovuto debuttare al Théâtre Italien con Giulia Grisi nella parte di Lady Macbeth e i fratelli Francesco e Lodvico Graziani nelle rispettive parti di Macbeth e Macduff. Ma a poche settimane dalla première il periodico degli Escudier («France Musicale») ne annunciava la sospensione, causa cantanti non all’altezza – a quel tempo la parabola della Divina Grisi era già in pendenza discendente – per un’opera di tale levatura. Come appena accennato, non bastano il baritono Ismael (Macbeth), il basso Bilis Petit (Banco), il soprano Rey-Balla (Lady) e il tenore Montjauze (Macduff) ad evitare il fiasco a Verdi, che s’infuria per l’accusa, mossa da una rivista francese, di non conoscere Shakespeare, oltre che di aver musicato alcune scene – tra cui la marcia che accompagna il re Duncano – con sufficienza e grossolanità.
Fatti salvi alcuni cambi di tonalità e qualche variante nel duetto, il primo atto rimane pressoché invariato. La prima, vera novità arriva in apertura di secondo atto, con la sostituzione dell’originaria cabaletta di Lady Macbeth “Trionfai, securi alfine” – uno dei momenti più acclamati a Firenze e che strutturalmente ben si ricollega all’altra cabaletta del primo atto – “Or tutti sorgete” – con l’aria “La luce langue”, che attraverso una condotta orchestrale molto libera connota la terrificante sposa con tratti più sfumati e ambivalenti, così che la sua evoluzione psicologica possa procedere senza eccessive rotture fino alla scena del sonnambulismo: a Parigi troviamo insomma una Lady “invecchiata”, privata del fulgore ancestrale evocato dalla prima versione. Infine, la variante più significativa in chiusura di secondo atto riguarda la scrittura vocale di Macbeth, più elaborata nell’accompagnamento strumentale, più declamatoria e di tessitura più bassa. Il terzo atto, accolto piuttosto freddamente la sera della prima – nonostante, o forse proprio “a causa” della suggestiva forza teatrale, tale da far pensare a un’autentica incursione verdiana tra i meandri del romanticismo tedesco – è una sezione che subisce sostanziali modifiche, considerata nella sua nota brevità. Si inseriscono difatti qui, appena dopo il coro delle streghe, i tre movimenti dei ballabili, considerati dal compositore – prima ancora che da Escudier e Carvalho, l’impresario a capo del Théâtre Lyrique – momenti essenziali della nuova versione, tanto da risultare alla fine di gran lunga più raffinati della musica in cui si inserisce (e senza dubbio i migliori mai scritti da Verdi). Ma la potente logica interna della prima versione, che a conti fatti faceva convergere l’intero atto terzo in una grande, ininterrotta scena per il baritono, rimane creditrice in termini di coesione con la nuova revisione: se le sottili variazioni nella scena delle apparizioni e nel cantabile del protagonista (“Fuggi, regal fantasma”) non inficiano l’originale compattezza, la soppressione della cabaletta (“Vada in fiamme”), sostituita da un nuovo duetto coniugale, spezza appunto quella linearità che emergeva dall’edizione ’47. Una scelta che pare più dettata da esigenze vocali piuttosto che ispirata da ragioni meramente compositive: Ismael non è Varesi; risolvere un atto cantando senza interruzioni fino a una cabaletta che presenta una scrittura costante tra il La e il Fa sotto il rigo è impresa riservata ad autentici fuoriclasse. Al di là della versificazione rimasta invariata, il coro che apre il quarto atto (“Patria oppressa!”) – che in origine doveva elevarsi dichiaratamente a espressione di orgoglio nazionalistico, in piena continuità con la tradizione degli inni risorgimentali del Nabucco, dei Lombardi e dell’Ernani – nella revisione del ’65 non esplode mai in un’invocazione trascinante. I contrappunti nel coro e l’armonia più ricercata diventano gli appoggi con cui esprimere i sentimenti del dolore e della sofferenza più che l’ardore dell’amor di patria. Se l’assolo di Macbeth nella quinta scena non presenta particolari rimaneggiamenti, salvo una maggior finezza dell’accompagnamento orchestrale, la struttura musicale che chiude l’opera differisce in maniera radicale. La forte compattezza della prima versione – con Macbeth che affronta la morte circondato da solitudine e abbandono; dinamica già di per sé inconsueta, considerato che abitualmente l’eroe o l’eroina andavano incontro alla loro tragica fine subito dopo un duetto, un terzetto o una scena d’insieme – lascia il posto al protagonista che precipita nello scontro frontale con i suoi nemici. Una soluzione di indubbia efficacia che sembra tradire una concessione all’esigenza di spettacolarità delle ribalte d’oltralpe. Ma la vera questione posta dalla coesistenza di una doppia partitura rimanda all’annoso tema della coerenza stilistica. Perché da una parte abbiamo un’opera cardine del teatro romantico italiano, capace però di spazzar via i paletti – che sanno più di formulario – di buona parte della tradizione compositiva successiva agli anni Trenta, con una nuova vitalità della compagine orchestrale e una scrittura vocale più libera. Dall’altra una composizione più raffinata ma che proprio in virtù della stessa non riesce a livellare in maniera più compiuta la voragine aperta da vent’anni di evoluzione musicale. Rimane allora a dir poco indecente la scelta – da parte di alcune produzioni moderne, quelle che sulle carta dovrebbero possedere almeno un barlume di senso critico – di infarcire il Macbeth francese con la scena della morte del protagonista. Con buona pace della coesione formale e dell’esplicito desiderio dello stesso compositore.
Ma per quanto la maglia strumentale di Macbeth emerga con tutta la sua forza, Verdi rimane un esempio assoluto in fatto di scrittura vocale. Ancor più che altrove, nel titolo in questione, dove la calibrazione nell’uso delle corde si intreccia perfettamente con i topoi del teatro shakespeariano, e di riflesso con la cifra autoriale di Verdi, anche se di segno opposto. L’antitesi tra la decadenza morale e fisica della Lady –  marchiata in partitura attraverso l’esaltazione del canto fiorito che diventa via via sempre più spianato, fino a impaludarsi nell’eterno ristagno del sonnambulismo – e il processo conoscitivo che distingue Macbeth, sostenendolo e portando a un grado di consapevolezza sempre maggiore, segna evidentemente una distanza, che è prima di tutto un’anomalia – apparente, perché spostata di segno – nella relazione tra temi e psicologie della drammaturgia del compositore. L’opposizione insanabile tra ragion di stato e affetti personali viene a mancare, o meglio finisce per essere declinata secondo un’accezione più privatistica, che è poi quella tra razionale (Macbeth) e irrazionale (Lady). In questo senso non ci sono corde più calzanti se non quelle di baritono e soprano per dar vita musicale a un contrasto di questo tipo. Se mancano gli affetti, non ci può essere contatto tra soprano e tenore – non a caso, Lady e Macduff non si incrociano mai, se non nel finale del secondo atto, in cui la condotta vocale (da una parte la Lady e Macbeth, dall’altra Macduff e il coro) rimane scissa in due parti fino alle battute conclusive – tanto che Macduff rimane il personaggio più accessorio nella rosa dei primi tenori dell’intero catalogo. Lo dichiara senza mezze misure proprio Verdi in una lettera a Escudier: «La parte di Mucduff per quanto facciate non la ridurrete mai a grande interesse. Anzi più lo si metterà in vista più dimostrerà la sua nullità […] Egli ha però abbastanza musica per poter distinguersi se ha bella voce, ma non bisogna dargli una nota di più». In effetti l’assolo del quarto atto (“Ah, la paterna mano”), di impianto tradizionale, è di indubbia presa emotiva: attraverso una tessitura medio-alta – tocca il si doppio bemolle – affiora l’abbandono suscitato dal legato, dai passaggi in “piano” e “pianissimo”, dall’insistita presenza di note sul passaggio superiore. Ma Verdi, uomo di teatro, coglie le potenzialità musicali per distinguere sul pentagramma un’altra coppia di personaggi: la presenza di un basso grave, dal centro robusto e capace di scendere oltre il Do2, accentua la distanza prima morale – e quindi drammaturgica – poi vocale tra Banco e un baritono acuto come Macbeth, obbligato a destreggiarsi in zona Fa-Sol nella parte alta della chiave di Fa. La Lady invece è un soprano drammatico che deve possedere e saper gestire un registro grave corposo, ben sollecitato nel sonnambulismo, ma allo stesso tempo risolvere i pur scarsi approdi nella parte alta della tessitura, come il Do5 in fortissimo in chiusura di terzo atto o il Re bemolle dell’assolo del quarto atto.
Come ben indica l’autore, è chiaro a questo punto che i protagonisti dell’opera sono tre: le streghe, Macbeth e la Lady. Gli scambi epistolari di Verdi con Varesi e la Barbieri-Nini sono documenti preziosissimi per comprendere quanto fosse cruciale per il compositore la rifinitura del fraseggio e del valore espressivo della parola – fino ad elevare il “declamato” a principio fondante del’intera opera – mentre le indicazioni in partitura dedicate agli infernali coniugi non si contano: “misterioso”, “grave”, “fra sé, sottovoce, quasi con ispavento”, “con forza”, “marcato”, “leggero”, “poco ritenuto”, alcune non prive di una certa bizzarria – tanto da sembrar quasi presi alla lettera dai nostri “moderni” esecutori – come “assai mosso agitato”, “a voce aperta”, “con grido”, “con voce pianissima e un po’ oscillante”. Particolari che stanno lì a ricordarci come Macbeth sia un’opera che può sopravvivere solo se portata in scena da artisti che sappiano coniugare la classe e la precisione del perfetto musicista con quella teatrale del grande interprete. Solo così i grandi archetipi che sottendono il testo possono diventare davvero principi universali della natura umana. E solo così, ancora, è possibile onorare coloro che hanno dato loro forma. Si tratti di Shakespeare o di Verdi. Ma anche, perché no, di Welles…

Giuseppe Verdi

Macbeth

PreludioOrchestra del Teatro Comunale di Firenze, dir. Riccardo Muti (1975)

Atto I

Che faceste? Dite suCoro del Teatro Comunale di Firenze, dir. Riccardo Muti (1975)

Giorno non vidi mai…Due vaticiniCornell MacNeil & Bonaldo Giaiotti, dir, Nello Santi (1964)

Nel dì della vittoria…Ambizioso spirto…Vieni, t’affretta
Margherita Grandi, dir. Berthold Goldschmidt (1947), Maria Callas, dir. Victor De Sabata (1952), Birgit Nilsson, dir. Nello Santi (1964), Martina Arroyo, dir. Francesco Molinari-Pradelli (1973)

Oh, donna mia…Sappia la sposa miaGiuseppe Taddei & Leyla Gencer, dir. Vittorio Gui (1960)

Regna il sonno su tutti…Fatal mia donnaLeyla Gencer & Giuseppe Taddei, dir. Vittorio Gui (1960), Irene Dalis & Cornell MacNeil, dir. Nello Santi (1964)

Di svegliarlo per tempo…Schiudi infernoMaria Callas, Enzo Mascherini, Italo Tajo, Gino Penno, Luciano della Pergola, Angela Vercelli, dir. Victor De Sabata (1952), Birgit Nilsson, Cornell MacNeil, Giorgio Tozzi, Carlo Bergonzi, Franco Ghitti, Carlotta Ordassy, dir. Nello Santi (1964)

Atto II

Perchè mi sfuggi…La luce langue Christa Ludwig, dir. Karl Bohm (1970), Grace Bumbry, dir. Francesco Molinari-Pradelli (1973)

Chi v’impose unirvi a noi? Chicago Symphony Chorus, dir. James Levine (1981)

Studia il passo, mio figlio…Come dal ciel precipitaKarl Ridderbusch, dir. Karl Bohm (1970)

Salve, o re…Si colmi il calice Maria Callas, dir. Victor De Sabata (1952), Leyla Gencer, dir. Vittorio Gui (1960)

Tu di sangue…Va’, spirto d’abisso…Sangue a me quell’ombra chiedeMaria Callas, Enzo Mascherini, Gino Penno, Angela Vercelli, Mario Tommasini, dir. Victor De Sabata (1952), Grace Bumbry, Sherrill Milnes, Franco Corelli, Carlotta Ordassy, Rod MacWerther, dir. Francesco Molinari-Pradelli (1973)

Atto III

Tre volte miagola…Balletto Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Victor De Sabata (1952)

Finché appelliRenato Bruson, dir. Riccardo Muti (1983)

Vivran costor?Renato Bruson, dir. Riccardo Muti (1983)

Ove son io?Sherrill Milnes & Martina Arroyo, dir. Francesco Molinari-Pradelli (1973), Piero Cappuccilli & Ghena Dimitrova, dir. Claudio Abbado (1985)

Atto IV

Patria oppressaChicago Symphony Chorus, dir. James Levine (1981)

O figli, o figli miei…Ah, la paterna manoAnton Dermota, dir. Argeo Quardi (1960), Carlo Bergonzi, dir. Nello Santi (1964)

Vegliammo invan due notti…Una macchia è qui tuttora
Maria Callas, dir. Victor De Sabata (1952), Leyla Gencer, dir. Vittorio Gui (1960), Birgit Nilsson, dir. Nello Santi (1964), Ghena Dimitrova, dir. Riccardo Chailly (1984)

Perfidi, all’anglo…Pietà, rispetto, amoreCornell MacNeil, dir. Nello Santi (1964), Mario Zanasi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

E’ morta…Macbeth, Macbeth ov’è?
Giuseppe Taddei, Mirto Picchi, Franco Ricciardi, dir. Vittorio Gui (1960)




 

22 pensieri su “Verdi Edission – Macbeth

  1. Bellissimo post con un interessante resoconto delle differenze tra le versioni del 1847 e del 1865 (non avendo lo spartito del ’47 sono sempre stato curioso dei cambiamenti tra le due versioni) e con dei bellissimi ascolti: ho apprezzato risentire Maria Callas (bellissima in quel Macbeth con Mascherini e De Sabata), la brillantissima Nillson nel registro medio e acuto, Ridderbusch nella scena di Banco, bellissimo Levine e Chicago Symphony Chorus, oltreché trovare “La luce langue” un brano musicalmente stupendo.

    Mi ha sempre affascinato la figura di Marianna Barbieri Nini, che in seguito alla bruttezza cantava con una maschera finché non riteneva il pubblico pronto ad accoglierla, e che Verdi approvò la sua scelta in merito ai difetti che la voce della Lady dovesse avere.
    Quando si riferisce il fatto che Verdi non fu molto dispiaciuto di perdere la Loewe per la Barbieri Nini, credo che sia perché la Loewe avesse un bello strumento (nella ripresa del Nabucco veneziana fu Abigaille con la Granchi/Fenena) come d’altronde la Todalini, citata già da Verdi.
    Quanto al professionismo di vecchia scuola, la Barbieri Nini riporta che utilizzò 3 mesi per studiare la scena del Sonnambulismo 😉

    • Non sono convinta dell’adeguaguatezza della Nilsson al ruolo, fondamentalmente. Il canto è sempre quello, di scuola, ma si ha sempre l’impressione che manchi qualcosa, sopra tutti il gusto. Italiano.

  2. se posso dire la mia atteso che questi ascolti sono stati un autentico lavori di gruppo muovendo dalla fornitissima collezione di nourrit e fonte di riflessione è stata l’occasione per ricordare a me stesso per primo che la lady sia un pietra miliare della parabola artistica della callas. è il tipico per il quale si possa dire che in molte singole pagine qualcuna ha fatto meglio , ma che nel complesso la MARIA si leva sopra le altre. ma credo che la valutazione della lady callasiana sia di questo valore perchè sul podio abbiamo DE SABATA……… qui nonci sono parole

    • La cosa che mi colpisce maggiormente della Callas è l’estrema duttilità della voce e la grande capacità che dimostra (e si sente molto bene da questi ascolti) nel governo del mezzo vocale, nel saperlo piegare e controllare in modo incredibile. L’immascheramento del grave è impressionante (seppu esistano note di petto, evidentemente). Credo che in quest’incisione sia la rappresentazione più ficcante di quella che doveva essere la vocalità della Lady, pure secondo l’autore. Stupiscono invece i fischi (se odo bene, e se rivolti alla cantante greca) alla fine di “Una macchia è qui tutt’ora”.

      • No, Amelita, per favore, non cadiamo in questo equivoco delle note di petto e dell’immascheramento… La corda volgarmente detta di “petto” è un registro che tutte le voci femminili devono sfruttare, opportunamente saldandolo con la corda acuta di falsetto-testa. L’immascheramento non c’entra NIENTE con i registri, è un concetto (metaforico) che attiene solo alla qualità dell’emissione, alla posizione del fiato. Bisogna togliersi dalla testa che “petto” sia sinonimo di emissione sbracata! Il petto è un registro indispensabile perché la voce sia completa.

        • Allora le dico che alcune note emesse dalla Maria non erano immascherate nel registro grave: rileggendo, capisco la sua critica. Continuo ad essere stupita, ed era questo il concetto-base, dalla qualità dei gravi e della loro emissione, che solo poco dopo questa incisione era già intaccata.

          • E’ tipica della Callas una certa disuguaglianza della voce nella discesa alla zona grave.

          • In genere queste note sbracate, che certamente sono note di petto (e che non possono certo dirsi scorrette perché emesse di petto), derivano dalla tendenza a voler ostentare i gravi, pompandoli ed allargandoli, quando invece è regola fondamentale del belcanto addolcire ed alleggerire il petto per potersi inserire senza fratture nel registro successivo. Non è neanche questione di aperto/coperto… chi domina completamente il proprio strumento, deve poter giocare sui colori a proprio piacimento, il colore chiaro e aperto di per sé non è un errore, l’errore c’è se il suono è sguaiato, ingolato…

    • E la lettura della lettera? “(veloce) Nel di della vittoria io le incontrai (pausa) Stupito io n’era per le udite cose quando i NUnzi del RE mi salutarono (piccolissima pausa e poi scandito) SIR DI CAUDORE, (letto in crescendo e ancora veloce) vaticinio uscito dalle vegGEnti STESSE (piccolissima pausa) che predissero un SERTO (piccolissima pausa e poi scandito più lento) al capo mio. (più silenzioso e racchiuso) Racchiudi in COR questo seGREto. (con attes) Addio”.
      Splendida splendida slendida :)

  3. Sempre più meravigliato dalla bravura della Arroyo!!! Per caso esiste in commercio tutta la registrazione integrale? Sul Giudici non mi sembra che sia traccia.
    Grazie mille per lo splendido ciclo Verdi Edission, gli ascolti e il vostro costante impegno.

Lascia un commento