Fidelio a Torino diretto da Gianandrea Noseda

Due giorni dopo l’esibita mondanità della prima scaligera (con tutto il suo carico di glamour, di gossip, di polemiche e di chiacchiericcio da salotto), inaugurava la propria stagione lirica, il Regio di Torino: due serate che non potrebbero essere più diverse, quanto a presupposti ideali ed esiti artistici. Inevitabile il confronto. Il teatro torinese apre quest’anno con il Fidelio di Beethoven (a conferma della sua vocazione più europea, rispetto all’analogo meneghino, dove ancora c’è chi si interroga sull’opportunità di rappresentare opere considerate “estranee” al repertorio della sua placida tradizione: e si parla del Rosenkavalier…), affidato alle cure del suo Direttore Musicale, Gianandrea Noseda e alla nuova produzione di Mario Martone. Proprio dal racconto dello spettacolo vorrei partire…con una premessa: la critica togata (che – guarda caso! – orbita intorno al teatro milanese e ai quotidiani cittadini) non lo ha apprezzato, anzi, con una certa spocchia lo ha liquidato come un prodotto di serie B. Non mi stupisce: alla nostra intelligencija musicale (parente povero, riciclato e provinciale di quella che andava di moda almeno 30 anni fa nel resto del mondo), uno spettacolo così non piace perché non può piacere! E non può piacere perché non può sopportare certe “intollerabili” provocazioni: un carcere che è un carcere; un cortile che è un cortile, i prigionieri che sono prigionieri e i guardiani che sono guardiani… Dove sono le “destrutturazioni” che tanto occupano la bocca e il cranio dei tanti esegeti del nulla che riempiono paginate di elucubrazioni per declinare a sistema l’assenza di idee (in esercizi di tale sterile virtuosismo che sarebbero “pane” per i “denti” di un qualsiasi rasoio di Occam di media affilatura)? Dove sono i significati nascosti, sovrapposti, esposti, riposti, trasposti…imposti? Dov’è il teatro nel teatro o il simbolismo più simbolico o lo specchio che non è uno specchio o tutta la consueta “fiera della banalità” che ci ammorba da anni con “novità” vecchie di mezzo secolo? Martone sceglie un’altra strada (coraggiosa in questi tempi): racconta una storia. E lo fa ponendo al centro l’autore e la sua musica. Non prende in prestito un palcoscenico per trasformarlo nel parco giochi delle sue personali frustrazioni e manie, imponendo al pubblico non già l’opera rappresentata, ma le proprie idee personali sui massimi sistemi del mondo (che solo nelle circostanze più fortuite, a volte, incrociano la vicenda narrata). E’ naturale che questo non piaccia alla disonestà intellettuale dei nostri critici provinciali e alle sedicenti élite culturali che ancora li stanno a sentire. Peggio ancora se a macchiarsi di un tale “delitto”, è un regista premiato e importante come Martone (per cui, non mi stupirebbe venisse riesumato il termine “tradimento” o qualche versione cultural nostrana dell’art. 58 del vecchio codice penale sovietico). Ma, bando alle polemiche, com’è questo Fidelio? Voglio partire dall’ultima scena: quando Leonore scioglie le catene del suo Florestan, e parte il corale che chiuderà l’opera (uno dei momenti più alti della musica beethoveniana), una donna lentamente, quasi con paura, raggiunge uno dei prigionieri, lo libera dalle catene e, dopo averle gettate al centro della scena, lo abbraccia (come se fosse una moglie, un’amante o una figlia che riabbraccia dopo anni di distacco il proprio caro); il suo gesto viene imitato dalle altre donne, prima con timidezza, poi con sempre maggior orgoglio, forza e anche rabbia, sotto gli occhi del ministro che lascia fare, di Rocco che percepisce la fine del suo piccolo mondo (perché un carceriere vive in simbiosi col carcerato), di Marzelline che pare sopraffatta dal dolore e dalla delusione per aver perso (per sempre) l’amato Fidelio e di Jaquino che, guardando la disperazione di Marzelline, capisce che non potrà mai averla (molto bella la caratterizzazione di questi ultimi due personaggio, spesso relegati a fare insulse macchiette). Una scena coinvolgente che è molto meno ingenua o “facile” di quel che si potrebbe credere (soprattutto a dar retta ai professionisti della masturbazione mentale): Martone spazza via, con un bel colpo di teatro, tutta la retorica “giacobina” che trasforma Fidelio in un oratorio sulla Libertà. Si è sempre visto di tutto nel finale (trionfi di bandiere e simboli, dal cappello frigio alla falce e martello alla croce o prospettazione di nuove violenze: a seconda dell’occasionale impostazione ideologica del regista), ma mai la realizzazione compiuta della visione beethoveniana. Alla fine è l’amore che trionfa sulla costrizione e sulla degenerazione di un sistema che si allontana dai valori della civiltà e dal diritto: non è l’Umanità che viene liberata dalle catene, ma, più semplicemente, gli uomini. Degli uomini. Ma in merito alla definizione dell’opera e alla sua evoluzione ideale e musicale, verrà dedicato spazio nelle prossime settimane, con un percorso critico tra le diverse redazioni di una partitura dalla storia complessa (e facile al farintendimento). Per il resto Martone adotta un’ambientazione realistica, senza stravolgimenti temporali: la scena, nel primo atto, rappresenta il cortile di una prigione con gli alloggi di Rocco sulla destra (molto curati: la porta semi aperta lascia intravvedere un interno cadente, dal sapore quasi dostoevskiano) e sul lato opposto, ma oltre il proscenio e la buca, la porta della prigione di Florestan (le cui mani spuntano dalle sbarre anche nel corso delle prime scene); il secondo atto è più cupo, Florestan canta l’aria dall’interno della sua prigione (lasciandosi a mala pena illuminare da una torcia) mentre il resto della scena rimane buia sino all’arrivo del ministro. Martone è molto attento alla recitazione del singolo, a caratterizzare ciascun personaggio in modo molto cinematografico senza che questo si traduca mai in posizioni innaturali per il canto o sconvenienti per l’acustica. Un grande spettacolo. Anche dal punto di vista musicale non delude le aspettative (pur con qualche problema nella compagnia di canto). A cominciare dalla splendida concertazione di Gianandrea Noseda alla testa della sempre precisa Orchestra del Regio: il suo Fidelio è certamente “romantico” nella scelta di sonorità piene e rotonde, ma senza indulgere in soluzioni retoriche ed enfatiche. Il tono predominante è il cupo del dramma, la cui tensione innerva tutti gli episodi (anche quelli più “leggeri” in un presagio di tragedia), in una visione che unisce pessimismo e speranza. I tempi sono generalmente mossi e il ritmo è incalzante: il coro dei prigioneiri evita ogni lentezza e ogni autocompiacimento, quasi a mostrare l’urgenza di luce, di aria e di un assaggio di libertà. Ugualmente trascinanti l’ouverture e il grande Finale II (a proposito, vorrei suggerire al critico del Corriere della Sera di verificare meglio le fonti: l’opera si apre normalmente con l’ouverture composta nel 1814 e non con la Leonore III, come, invece, si legge nel suo pezzo…ma evidentemente è entrato tardi e si è lasciato prendere in giro da un vicino burlone, giacché credo sia impossibile, oltre che squalificante per la professione svolta, confondere i due brani). Più ampio e spazioso il quartetto dell’atto I (tenuto sospeso in una mezza voce morbidissima e vibrante) e, soprattutto, l’apertura dell’atto II, forse il momento più alto della concertazione di Noseda: semplicemente magnifico nel passare dal cupo dramma dell’introduzione e del tesissimo recitativo all’oasi lirica dell’aria con l’intreccio di corni, fagotti e clarinetti, sino allo svolgersi incalzante dell’allegro finale. Ma è stata una direzione talmente ricca e varia che meriterebbe di soffermarsi su ogni singolo episodio: quasi un peccato, dunque, non aver ceduto alla tentazione (scorretta, lo so) di inserire la Leonore III…certamente un arbitrio, ma che resta un momento di musica sublime che con quell’orchestra e quel direttore sarebbe stata pura gioia per il pubblico. Più complesso il discorso in merito alla compagnia di canto (anche se l’intelligenza della concertazione non fa percepire nessun disastro). Il problema è il solito (ne ho già ampiamente parlato e ci sarà occasione per affrontare nuovamente l’argomento): il fraintendimento della vocalità di Fidelio che invece di essere considerata, correttamente, come evoluzione di quella mozartiana, viene declinata in senso prewagneriano, con la conseguenza immancabile – anche a patto di disporre di ugole provette – di rendere il canto poco fluido e impacciato. Intendiamoci: lo stesso discorso vale per la Nilsson o la Flagstad, solo che mentre loro supplivano alla scarsa agilità con un mezzo imponente (e superbamente gestito), i colleghi meno dotati evidenziano gli inciampi. Da questo fraintendimento nasce la “leggenda metropolitana” di un Beethoven “incapace” di scrivere per le voci…mentre, più semplicemente, si sono sempre utilizzate vocalità che poco o nulla avrebbero a che spartire con la sua scrittura musicale: purtroppo ancora si legge tale scempiaggine – anche sui maggiori quotidiani nazionali – di un Beethoven in difficoltà con l’opera… Tant’è: anche se credo si dovrebbe avere il buon gusto di non parlare di cose che semplicemente si ignorano. Ma torno allo specifico dello spettacolo torinese. Molto brava Talia Or nel difficile ruolo di Marzelline, sicura nelle agilità e capace di suggestive mezze voci (come nell’avvio del quartetto): apprezzabilissima, poi, la scelta di sottrarla alla caratterizzazione farsesca che molto spesso ci è capitato di sorbire (del resto in una chiave di lettura seriosamente wagneriana, il suo personaggio è difficilmente inquadrabile: a conferma – ulteriore – di come tale lettura sia sostanzialmente fuorviante), a favore di una malinconia più crepuscolare e rassegnata. Lo stesso vale per Jaquino – interpretato con voce salda e corposa dal bravo Alexander Kaimbacher – non più “servo sciocco” (ottuso come l’Alessio della Sonnambula), ma personaggio vivo e sofferente (anche nel fisico) per i continui rifiuti e carico di una rabbia che non riesce mai ad esplodere (e lo porta a servili “alleanze” con Pizzarro). Meno bene vanno le cose con il Rocco di Franz Hawlata: la voce tende a chiudersi negli acuti, i bassi sono faticosi e il fraseggio è talvolta incerto, tuttavia si riscatta nel centro ancora saldo, nella padronanza scenica e nell’evitare ogni eccesso (anche l’aria dell’oro è trattata con insolita leggerezza). Ancora peggio il Don Pizzarro di Lucio Gallo: il personaggio è ridotto a un furibondo orco nibelungico, ove la voce debordante di Gallo (di volume eccessivamente spinto) appare priva di ogni controllo e di ogni sfumatura (canta solo in forte o fortissimo), oltre ad essere caricata da effettacci poco gradevoli a sottolinearne l’indole malvagia, e a sconfinare – negli acuti più rabbiosi e a rischio di rottura – in una specie di “parlato” più adatto a Giordano che a Beethoven. Efficace, invece, la Leonore/Fidelio di Ricarda Merbeth: ad onta di una certa fissità negli acuti e di qualche difficoltà nel legato, mostra un buon centro e un buon controllo dell’intonazione. Certo la grande aria soffriva di un fraseggio un po’ anonimo, e una maggior saldezza nelle zone più alte della tessitura avrebbe aiutato, però, nel complesso, una prova abbastanza convincente: a parte la solita considerazione sul fatto che la scrittura di Leonore richiederebbe voci di tutt’altro genere (più vicine a Vitellia, a Donn’Anna o a Fiordiligi). Stessa contestazione va mossa al Florestan di Ian Storey, in serissime difficoltà con la sua pur ingrata parte! Inutile dire che i nodi vengono subito al pettine con l’aria dell’atto II: registro acuto sfasciato (i LA e i SI bemolle suonano strozzati), intonazione periclitante, debiti d’ossigeno. Meglio il terzetto, il quartetto e il duetto finale (saggiamente staccato da Noseda con un tempo ben sostenuto). Comunque prestazione non pienamente sufficiente (come del resto nel più abbordabile Tristan und Isolde scaligero) che solo la straordinaria concertazione in buca riesce a riscattare. Corretto il Don Fernando di Robert Holzer, mentre poco sonoro il I Prigioniero di Matthew Pena (molto meglio Vladimir Jurlin nei panni del II Prigioniero). Ottimo il Coro diretto da Claudio Fenoglio. Alla fine (pur con qualche personale riserva su certe scelte di cast), applausi meritatissimi: con buona pace del critico che nell’Anno Domini 2011 si aspettava un Fidelio elefantiaco a metà strada tra l’oratorio e la cantata rivoluzionaria, tempi da liturgia ed episodi leggeri risolti in farsaccia. Comunque basta attendere e magari il nuovo direttore scaligero (non pago di aver inciso la peggior edizione dell’opera), gli potrà fornire con gioia tutto ciò che così fortemente desidera ascoltare.

Gli ascolti:

Fidelio, Op. 72b: Ouverture – Fritz Reiner

Immagine anteprima YouTube

“Gott! Welch Dunkel hier!” – Giorgy Nelepp (1954)

 

62 pensieri su “Fidelio a Torino diretto da Gianandrea Noseda

  1. Grazie per questa analisi del Fidelio,Duprez; io vivo a Torino e mi ero permesso di segnalarvi la originale ed a volte entusiasmante esecuzione delle sinfonie beethoveniane del maestro Noseda. Pur non avendo i vostri strumenti di analisi chiedo: non ti sembra che la direzione del Fidelio da parte di Noseda si riallacci a quella di alcuni direttori che, pur in epoche e contesti diversi, hanno privilegiato “l’umanesimo” di questa opera, raccontando, come tu dici, “una storia” e non (o non soltanto) sbandierando ideali ?
    Penso anzitutto a Walter (quello dell’incisione del 1941): la frase “Es such der Bruder seine Bruder”(non trovo la dieresi sopra la u !) e’ l’epitome di tutta l’umanita’, o a Fricsay che mette in secondo piano i principi per privilegiare , appunto, la storia,o a Bernstein (significativa la frase sussurata dalla Janowitz “Ja,sieh hier Leonore”) ed infine , forse, anche Maazel ….
    Spero ti potervi incontrare al Regio per le altre produzioni

    • Sono completamente d’accordo: l’umanesimo di Beethoven. E’ questo, secondo me, il significato del Fidelio (come l’hanno colto Walter, Fricsay, Bernstein…e ti do ragione su Maazel, o meglio su quel Maazel). Il voler raccontare una storia di uomini e non parabole sull’Umanità è la grande forza della lettura di Noseda e dello spettacolo di Martone (a dimostrazione che si può fare del grande teatro senza lasciarsi andare ad esercizi intellettualistici).

  2. Questa mi vien voglia di stamparla e incorniciarla. O meglio spedirla ai triti soloni, quelli che giustamente chiami con un’espressione che non poteva essere migliore: esegeti del nulla.
    Sono felice poi che ancora una volta il Regio di Torino tenga alta la testa, pure in tempo di carestia.
    Detto questo, Fidelio. Non ho la tua cultura musicale, vorrei averla perché mi serve e mi piacerebbe capire da dove cominiciare per costruirmela; ma ritengo che in fondo basti un po’ di amore sincero per l’opera per capire che Fidelio è una gran cosa. Il potere evocativo della liberazione dalle catene, l’aria di Florestan che rappresenta uno dei vertici del canto tenorile e il “namenlose Freude”… Chi sostiene che Beethoven e l’opera furono un’infelice coniugio dovrebbe essere condannato a riascoltare anche solo questi frammenti per l’eternità, con in testa un cappello con le orecchie da asino.
    (Ian Storey era decente nelle Nozze Istriane riscoperte, per poi tornare nell’oblio, di Trieste di molti anni fa. Ma già allora emergeva tutto ciò che stacca il tenore di forza dal tenore di sforzo).

  3. A Torino, l’intervista radiofonica del direttore Noseda, ci spiega in modo disarmante ma precisa le motivazioni della scelta da lui operata di non eseguire la Leonore III e ci ha deliziato con pochissime frasi come è composta l’opera i suoi influssi, e le sue regole. Persino alla Rai di Roma ne sono rimasti stupefatti.
    Complimenti.

    • Scelta più che legittima…e che condivido (non ha senso l’inserimento). Il mio era un rimpianto esclusivamente “di pancia”, perche la Leonore III è un capolavoro assoluto e perché Noseda e l’orchestra del Regio avrebbero reso onore a quella musica.

      • Una domanda Duprez, se consente: non conosco Fidelio, e mi chiedevo se l’edizione berlinese del ’63 diretta da Rother con King e la Ludwig (mi sto documentando, curiosa) fosse come quella torinese, oppure si suonasse la Leonore III. Grazie.

        • Non conosco quell’edizione, ma non escludo che vi sia l’inserimento arbitrario della Leonore III prima del Finale.

          Una cosa vorrei precisare: l’edizione presentata a Torino non è una versione particolare – non lasciarti fuorviare da quel che si legge sui giornali – è la versione dell’opera così come l’ha scritta Beethoven nella sua ultima redazione. Quindi con l’ouverture di Fidelio e senza la Leonore III. La Leonore III era l’ouverture scritta per la versione del 1806, molto diversa dall’attuale e suddivisa in 3 atti. Nella seconda metà dell’800 – soprattutto in area viennese – nacque l’arbitrio di inserirla prima del finale…in realtà non ha senso, anche se è musica SUBLIME!

        • Ps: ma perché ti interessi a questa versione che – sulla carta – è ben poco interessante, a partire dalla bacchetta? King e la Ludwig possono essere meglio ascoltati (e molto meglio diretti) da Bohm…

          • Ma, guarda, solo per il fatto che sul tubo mi sembrava la versione migliore; se vuoi suggerire, invece, accetto volentieri proposte!

          • Mi inviti a nozze :)
            Direi queste:
            1) Fricsay 1957 (in studio)
            2) Kleiber 1956 (live da Colonia)
            3) Bernstein 1978 (in studio)
            Se vuoi ascoltare la coppia King/Ludwig direi l’edizione di Bohm 1969…
            Poi ci sarebbero i classici (Furtwaengler e Klemperer) ma non mi soddisfano molto…
            A me piace anche quella diretta da Knappertsbusch nel 1961: molto cupa e drammatica.

  4. Noseda e’ incapace di essere trombone, retorico, di atteggiarsi. Parla con la sempllicita’ di chi ha in testa idee chiare……e semplici. Alla radio era stpendo, quello che io intendo per neoclassiismo beethoveniano……

  5. Articolo bellissimo, non concordo del tutto, con i giudizi, a mio avviso, troppo indulgenti su alcuni cantanti. Premetto che ho sentito Fidelio alla radio ed ho apprezzato molto lo splendido suono dell’orchestra del Regio e la chiara e imponente direzione di Noseda. La parte di Florestan sarà anche ingrata ma ho trovato Ian Storey del tutto inadeguato: acuti strozzati, voce compromessa e ridotta di volume, traballante e affaticata, lontana e quasi irriconoscibile da quel, pur non perfetto, Tristano del 2007. Pure oscillante la bella voce di Ricarda Merbeth non salda nel registro acuto e insufficiente per il grande ruolo di Leonore, la Marzelline di Talia Or mi è sembrata, in più occasioni, urlante e fissa, sul resto del cast concordo con Duprez,. Ciononostante, la direzione ha reso assolutamente di pregio l’ascolto.

    • Storey era inadeguato, e su questo non ci piove: dico solo che grazie alla concertazione di Noseda (parlo dell’aria) passa quasi inosservato…del resto ascolta cosa è riuscito a fare Karajan con Vickers! La parte è ingrata. Molto più difficile di Tristan e qui – scusa per la pedanteria – torno alle mie solite argomentazioni. Affidare Florestan ad un cantante “wagneriano” è un suicidio: i nodi comunque vengono al pettine. Storey non era in condizioni peggiori rispetto al Tristan scaligero, semplicemente la sua voce resta inadeguata alla parte…intendiamoci non è colpa di Beethoven, ma colpa di chi si ostina a sbagliare prospettive. Del resto quanti Florestan non si impiccano con l’aria? Pochissimi, forse nessuno è convincente….pure eminenti wagneriani naufragano miseramente. Finché si insistera con gli “urlatori” o gli heldentenor dalle voci grosse e rigide…il “Gott” dell’aria assomiglierà sempre a un muggito… E’ matematica: “dal giallo con l’azzurro nascerà sempre il verde, e non il rosa o il marrone”.

      Stesso discorso per la Merbeth: non era affatto insufficiente…l’unico problema (a parte qualche acuto faticoso) era una certa inerzia di fraseggio, dovuta, forse, alla preoccupazione di “ingrossare”.

      La Or dal vivo era molto brava: sicura nelle agilità e per nulla urlante…e ha evitato di trasformare il suo ruolo in una Zerlina scema e petulante…(come da tradizione)

  6. Duprez, si vede eccome che hai un debole per Fidelio!
    Ma senti la versione che hai suggerito sopra ad Amelita, per caso è quella con Haefliger che si strangola nel finale dell’aria?
    Sulla vocalità di Florestan concordo doppiamente con te: in primo luogo, perché è vero che affidare ad un Heldentenor il ruolo di Florestan è un suicidio annunciato; tuttavia, stando al Tubo, Ralf e Svanholm secondo me se la cavano bene. In secondo luogo, anche io non ho trovato un tenore uno sul tubo che abbia affrontato questa parte senza incontrare difficoltà.
    Secondo te chi è il miglior Florestan?
    Poi qui ci stiamo limitando al tenore, però Fidelio è tutto un’impresa!

  7. Fidelio è opera complessa…ed è resa più complessa con scelte ad alto rischio. Questo a prescindere dalla bravura dei cantanti… Non conosco Florestan che non trovino difficoltà nell’aria e che non si strangoli.
    Ps: le edizioni che ho suggerito sono quelle che preferisco (considerate nel complesso)

      • Fa fatica pure lui. L’unico che sul Tubo paia tenere è Piccaver, anche se rende un Florestan un po’ freddino. Altrimenti Patzak, però nella prima delle due versioni reperibili sotto la bacchetta di Furtwangler (1948) sembra più in voce, ma scivola sull’intonazione – evidentissima – in “In des Lebens Frühlingstagen”. Nella seconda sempre con Furtwangler (1950) va meglio l’intonazione ma fatica un attimo di più.
        Un buon Florestan è Dermota… ma siamo sempre lì: il finale dell’aria è terrificante!
        (Però l’Haefliger di Fricsay s’impicca proprio…)

    • Completamente d’accordo! Immagino Florestan come una evoluzione di Tamino e di Don Ottavio (ovviamente non le loro controfigure candeggiate), con maggior corpo, ma con identica mobilità vocale e tenuta di fiati.

      • Jadlowker? Qualcuno ha sentito la sua versione dell’aria per lo meno? Secondo me è il tenore che più si avvicina a questa idea: strizza un occhio alle “bruniture” che Florestan suscita e all’evoluzione di un mozartiano. Insomma un Florestan ideale potrebbe essere un cantante adatto ad Idomeneo?

      • Non credo che le incisioni dei singoli brani – magari effettuate in ambito concertistico con il misero accompagnamento pianistico – possano costituire un qualche metro di paragone rispetto alla definizione della vocalità del personaggio (ad esempio: la Caballé canta benissimo i “Cieli azzurri”, ma non è certo un’Aida di riferimento). Preferirei, quindi, attenermi a chi la parte l’ha cantata davvero (tutta) e che ci ha lasciato testimonianze complete… L’opera non è una serie di brani solistici in sequenza: men che meno lo è il Fidelio, che ha una costruzione musicale molto più complessa. A me, personalmente, i Florestan più convincenti paiono Seiffert, Patzak e Nelepp.

        • L’ha fatto anche Nelepp? Mi manca… Devo recuperare l’incisione: è uno dei miei cantanti preferiti. Per Patzak ho un debole. E devo risentire Seiffert.
          Sì, concordo con te: non sono certo i singoli brani a dare la resa completa di una parte. Infatti il mio era un ragionamento intriso di immaginazione.

          • Ne sono felice… io ho La Dama di Picche di Melik – Pashayev: per me resta forse il miglior German.

          • Assolutamente Mozart! E in quel cast c’è anche Lisitsian, che per me è il Signore indiscusso di tutti i baritoni: quando ascolto la sua voce cado in trance… Sono riuscito a farmi l’intera tratta di treno di un’ora e passa da casa mia fino a Milano ascoltando e riascoltando la sola aria di Yeletsky. Veramente: quando lo sento attaccare quel “Ja vas liubliù” mi sciolgo… E più avanti sembra sia lui a sostenere gli archi con la sua linea di canto. E poi… che colore quella voce, che colore! E che tecnica… disarmante!
            Ok, torniamo a Fidelio sennò mi commuovo!!
            Scusate la digressione…

        • Non so se abbia fatto in tempo ad incidere tutta l’opera nella sua purtroppo breve vita, ma credo che abbia cantato le singole opere: Fritz Wunderlich. Se penso alle sue caratteristiche vocali e tecniche, mi sembra un cantante potenzialmente ideale per Florestan (e per diversi altri ruoli!)…

  8. su questo Fidelio che ho visto oggi pomeriggio posso dire quello che ho scritto in chat nella diretta radiofonica cantati bravini non di più,questo vale anche per i tre cantanti oggi del secondo cast,buona l’orchestra,forse qualche imprecisiono all’inizio tra palco e buca,ma poi Noseda ha preso saldamente in mano la situazione insomma un buon pomeiggio,teatro esaurito,a parte qualche poltrona nei posti a scarsa visibiltà.

    • Appena senttito. Assolutamente fantastico! Nelepp mi piace un sacco perché è limpido ed evidente cosa voglia dire cantare a gola aperta.
      Quest’edizione la voglio!! Grazie Duprez, non la conoscevo!!
      P.S. … ma un’aria che, finito il canto ha quelle frasi che sembrano (a me) quasi una introduzione… Ma dove la troviamo? il Ludovico era un genio!!!

  9. Cosa ve ne pare di Ben Heppner quale Florestano ? Ho riascoltato (sull’onda del piacere provato al Regio) l’edizione diretta da Colin Davis nel 1996: il suo sol acuto fa dimenticare gli stonarori di professione odierni.Ma poiche’ invecchiando si diventa malignetti,tra il lungo elenco di quelli che hanno cantato peggio nel ruolo di Florestano, propongo Ridder.Quanto a Nelepp penso che nel Sadko (1952) offra una delle piu’ emozionanti prestazioni tenorili di ogni tempo (sono un emotivo esagerato??)

    • Come Erik, Lohengrin e Walther ha dato prove splendide negli anni ’90.
      Piuttosto di Tristan e Siegfried (che ha giustamente subito abbandonato ed ad un età non più fresca) avrebbe dovuto cantare Siegmund e Parsifal, sempre restando a Wagner.

      Marianne

    • Infatti: negli anni ’90 è stato un ottimo interprete di certo Wagner (non a caso il più “romantico”, quello più legato alle suggestioni weberiane…ha inciso pure un ottimo Oberon). Procedendo con la carriera (e con l’età) ovviamente la voce muta e il repertorio andrebbe “aggiornato”. Heppner (a parte qualche azzardo…comune a tutti, anche ai più grandi) ha sempre mostrato una certa attenzione, non insistendo con ruoli fuori portata.

  10. Amo moltissimo la Flagstad. Per me la sua Leonore incarna quel lato neoclassico, aulico e distaccato presente nel neoclassicim. dirò di più, un neoclassicismo poco francese, cioè non urlato, e non gelido ma screziato di una sottile ma intenza dolcezza e malinconia, come nei paesaggi con architetture di Schinkel, più volte citato qua. Il timbro e il legato la fanno portatrice di un esprimere metaforico, mai realista, mai romantico, ma…classco appunto. Che non vuol dire inespressivo, ma composto, perfetto come in un’arte retta da perfetti equilibri e prorporzioni ( classica ), che parla secondo i propri codici sottili che noi oggi stentiamo a cogliere ( il lessico degli ordini…ad ex). Siamo noi che abbiamo perso quella sensibilità, quei modi per leggere l’arte. E’ inutile aspirare ad un Beethoven classicheggiante, pulito, nitido, meno romantico, se poi lo si affida a cagnacce latranti, con i chiodi in gola, cresciute sulla degenrazione espressiva del realismo e ineducate sul piano tecnico. Quel neoclassico distaccato delle orchestre che oggi darebbero vita alla migliore prassi esecutiva, corrisponde al canto della Flagstad. Anzi nemmeno….a ben pensarci è più espressiva lei di loro, meno monotona e candeggiata. Il suo mezzo ha un lirismo, una dolcezza, un tale dolce e serena maestà che può ben stare là con le migliori donne del Canova. Pr questo è assolutamente beethoveniana a mio modo di vedere

    • Io non sono per nulla d’accordo…trovo la Flagstad non neoclassica, ma semplicemente inerte espressivamente: un monolite di voce salda fin che si vuole, ma privo di quella morbidezza e agilità (e pure leggerezza) che la parte, a mio avviso, richiederebbe. La serena maestà proprio non dovrebbe aver nulla a che fare con Beethoven. La Flagstad – in tutte le sue incisioni devo dire – mi sembra sempre troppo imponente: non è mai stata tra le mie cantanti preferite.

      • Sull’agilità e leggerezza sono d’accordo (…se un soprano con il volume e la massa vocale della Flagstad avesse anche le agilità di una Maria Galvany mi sorprenderei un tantino)…Considero l’interpretazione della Flagstad nel Fidelio un’ottima interpretazione ma non è sicuramente il suo miglior ruolo…
        Sulla morbidezza non sono affatto d’accordo…Basti ascoltare un qualsivoglia Liebestod della Flagstad…
        Certamente posso capire i gusti…ma alcune interpretazioni della Flagstad non hanno a mio parere rivali…(eccezion fatta per frau leider e poche altre…)

        • Parli del Liebestod, infatti…ma Wagner è diverso da Beethoven…purtroppo, per anni, si è interpretato il Fidelio alla luce di quel che è successo 40 anni dopo: Fidelio non è un dramma musicale prewagneriano…

          • Questo è certamente vero…ma, in alcuni casi, a mio avviso, ci possono essere interpretazioni di riferimento per alcuni ruoli anche da parte di voci non proprio ideali per quel ruolo…come la Callas in Medea…o la Nilsson in Macbeth…
            Poi…è chiaro che se il signor Duprez non è un estimatore di “the voice of the century” sono gusti :-)

          • Il Sig. Duprez, semplicemente, non ama termini “assoluti” e non crede all’esistenza di fantomatiche “voices of the century”, semplicemente perché ciascun cantante ha peculiarità stilistiche e tecniche proprie che fan sì che eccella in un repertorio più o meno limitato (per un più o meno limitato periodo di tempo) e che, al contrario, in altri repertori mostri limiti evidenti. I cantanti “assoluti” sono solo un’astrazione, o meglio un’illusione di “fan” che sono passati dal comune ascolto alla fede vera e propria…

          • Non mi sembra di aver detto che la Flagstad sia la migliore cantante della storia (il mio accenno al suo “nomignolo” era meramente provocatorio)…o meglio…forse nella maggior parte del repertorio (peraltro non particolarmente esteso) che ha frequentato è stata una delle migliori…D’altra parte ci sono sicuramente dei ruoli che le erano meno congeniali (ma aggiungerei davvero pochi avendo davvero minimizzato i rischi nella sua carriera)…poi che possa piacere o meno è una questione di gusti…così come che il suo Fidelio possa piacere o meno…
            Ad ogni modo…considerando che il Sig. Duprez ritiene che in tutte le sue incisioni la Flagstad sia troppo imponente non mi sembra opportuno accusare altri di assolutismo…basterebbe constatare amichevolmente che abbiamo gusti differenti in generale riguardo questa artista.

          • Guarda, io non ho nessuno a cui rendere conto, tuttavia se la mera considerazione per cui, in molti ruoli, la Flagstad ecceda in imponenza (a mio gusto un piccolo difetto), passa per “assolutismo”, forse non ci intendiamo sul termine. Io, semplicemente, parto dal presupposto che non esiste nulla di assolutamente perfetto e, conseguentemente, mi pare normale muovere critiche a chiunque senza lasciarsi abbagliare da culti e passioni… Non è questione di gusti, ma di metodo… Non lo dico per fare polemica, ma sono davvero allergico a ortodossie e valori assoluti.

          • Concordo con ogni parola…Probabilmente non riesco ad esprimere bene il mio punto di vista…sono d’accordo sul fatto che la perfezione non esista…ma anche sul fatto che alcune interpretazioni di ogni ruolo possano comunque essere considerate, seppur non prive di difetti, di riferimento…Che poi i gusti abbiano la meglio a livello personale credo sia ovvio e lecito per tutti (il timbro non è qualcosa di quantificabile come oggettivamente più o meno piacevole…almeno in generale…è una questione di gusti)

            Tornando al Fidelio…non metto in dubbio che l’interpretazione della Flagstad abbia diversi difetti (le difficoltà nelle agilità per citarne uno) e come la sua voce non sia per sua natura la più adatta ad interpretare Leonore…Ma d’altra parte credo che la sua interpretazione, complessivamente, possa essere inclusa fra quelle di riferimento (non credo che anche Giulia Grisi sia tacciabile di assolutismo nei confronti della Flagstad).

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