Don Carlo alla Bayerische Staatsoper di Monaco

“Paulatim autem Germanos consuescere Rhenum transire et in Galliam magnam eorum multitudinem venire populo Romano periculosum videbat; neque sibi homines feros ac barbaros temperaturos existimabat quin, cum omnem Galliam occupavissent, […], in provinciam exirent atque inde in Italiam contenderent”. Cesare aveva paura dei Germani nella penisola italica, ed aveva ragione da spendere. Barbaro, colui al quale la lingua greca era sconosciuta; barbaro, lo straniero estraneo alla civiltà latina, spesso aggettivato come “ferus”, feroce, animalesco, violento. La storia si ripete, non cambia più di tanto, ed il Don Carlo che và in scena in questi giorni alla Bayerische Staatsoper più che a Verdi fa pensare a Cesare ed al timore delle orde barbariche …….canore quelle odierne!
A Monaco brilla lo star system teutonico. Tre prime parti su cinque o sei previste dal titolo  (soprano, tenore e basso) vengono affidate ad ugole teutoniche, di stile teutonico, di tecnica teutonica, la reputata “haute couture” del canto verdiano del momento. Con il loro successo trionfale, colto con gli altri quattro ancor peggiori protagonisti della serata se ci mettiamo  bacchetta e regista  tramonta il canto verdiano di scuola italiana, quella capacità di dire che i neolatini chiamiamo “fraseggiare”, esprimere cantando tutte le sfaccettature del sentire umano, che la travagliata ricerca di Verdi sulla  rappresentazione della psicologia dell’uomo aveva finalmente messo a punto. Le frasi arrivano alle nostre orecchie una dopo l’altra da parte di questa compagnia di marziali cantatori “di sforzo”, di conato, con la stessa arte con cui si danno pugni in faccia. Solo fatica e sforzo, nessuna espressione.
Cominciamo dai pugni visivi. La scena allestita dal team di Jurgen Rosen è una sorta di piccolo antro oscuro (il teatro bavarese è piccolo..), una scatola triste, con tanto di prosaiche porte, maniglie e serrature da palestra, che racchiude il dramma storico della famiglia imperiale e della Valois, moglie deportata. La magia del bosco notturno di Fontainebleau, come lo squarcio dell’assolata popolatissima piazza di Nuestra Señora de Atocha, il manierismo dei chiostri e degli appartamenti privati di Filippo divenuti claustrofobica cella senza architettura, i vestiti regali di una modestia e di una povertà inimmaginabili anche per un nobile lombardo in miseria dopo la peste di San Carlo,  Filippo II in “pataja” ( per usare un termine, che Verdi ben conosceva ) e babbucce con il rotondo polpaccio di fuori, il portamento  barcollante  e l’imperatrice scalza ed un po’ isterica, pure lei in una camicia da notte miserrima, senza vestaglia, come l’ultima delle donne di basso stato del suo regno. Non parliamo di Posa, con occhiali e orologio ( a dire il vero anche il signor Pape non si era curato di togliere i braccialettini dal polso) ed l’improbabile coltello a serramanico esibito in chiusa alla scena del giardino, o, ancora, Eboli, che da principessa di altissimo rango appare come una goffa ostessa nella scena del velo, che continuamente le cade dalle mani, per non parlare poi dei poveri mantellucoli rossi di Filippo ed Elisabetta, che parevano di cartone disegnato e  le regali corone degne dei vestiti di carnevale dei bambini. Il ridicolo è il vero re della scena, con i due innamorati a Fontainebleau seduti per terra a giocare con i cerini accesi in mano, i frati ( monaci consacrati alla castità.. ) che arrivano e vestono inopinatamente la Valois contro tutte le regole monastiche e  della liturgia, o il frate – Carlo V, che sorge dal pavimento con un teschio in mano; la scena del terzetto Posa – Eboli – Valois al giardino di San Giusto che pareva quella del ritorno dal funerale di “In casa di Bernarda Alba”, con la signora Harteoros, seduta sulla modesta seggiolina, l’aria interrogativa e spaesata mentre Carlo viene a domandar grazia alla sua regina, che pareva davvero Bernarda Alba! Da ultimo, l’autodafè, “parodia” di quello monumentale e leggendario scaligero di Ronconi-Damiani, miserrimo anche questo, spoglio e davvero mal realizzato come mai un autodafé è stato nella storia, perché gran teatro della giustizia divina sulla terra: gli arrosti ignudi al centro della scena (perché il nudo fa teatro di regia) davanti ai quali  sfilano carretti, che nemmeno nell’ultima processione del più remoto angolo della Sicilia verrebbero fatti sfilare. Il tutto per elidere o ridicolizzare quelle che sono le indiscusse peculiarità del Grand-Opéra, forse estraneo alle attuali cognizioni e convinzioni di registi sovrintendenti dei teatri tedeschi, e con essi il loro pubblico.

Del resto, se non lo pretendono dal canto, perché dovrebbero pretenderlo dalla scena? In più di tre ore di musica, infatti, non ho sentito un solo momento in cui si sia fraseggiato con adeguatezza e pertinenza al genere musicale in questione, e prima ancora al vero significato della scrittura vocale. La sola che, forze  ci avrebbe provato è stata  la signora Harteros, che, però, essendo assai sottodimensionata quanto a tonnellaggio vocale, ha dato vita ad una regina che non era né regale, né lirica. Questo perché, in primo luogo, non dispone al centro della voce piena, che impone la scrittura Falcon di Elisabetta. La mancanza dell’ottava inferiore costringe a suoni aperti e sgangherati, comunque  poco regali, mentre al registro superiore accede con una voce intaccata da fissità, cali di intonazione, inadeguato sostegno e proiezione con  conseguenti sensibili oscillazioni.  L’unica possibilità per il cantante  inferiore per dote vocale  al ruolo  è  la  saldezza tecnica. In assenza di tali caratteristiche ci si arrabatta, spesso gridando, come nelle frasi concitate della seconda parte della scena con Carlo al II atto ( “…corri allor del suo sangue macchiato..”), o ricorrendo al forte, come nelle salite verso l’alto di “Non pianger mia compagna” , senza rispetto della dinamica prevista dall’autore (forcelle). Peggio ancora il secondo momento solistico  “Tu che le vanità”, con i gravi tutti aperti e mal emessi, il centro poco coperto, acuti flautati o oscillanti: si ascolti la ripetizione del fa diesis di “TU che le vanità”, più che sufficiente a metterla in difficoltà, oppure la voce fuori fuoco del “Ma lassù ci vedremo..” al successivo duetto. La parola fraseggio è inapplicabile alla prestazione della cantante.  Nessuna meraviglia che tutto sia piatto o appena sufficiente.
Del resto a fianco a lei accade ben di peggio. In una sala piccola rispetto a certi “teatroni” americani, il signor Kaufmann ha cantato il Don Carlo più barbarus e ferus, che abbia mai udito. “Affonda” il tenore tedesco a più non posso, la voce spessa, sempre spinta, fibrosa e sforzata: piace perché dà l’idea della fatica, dello schiavo che issa  macigni, rappresenta la maschia potenza dello stress. La concezione italiana del suono libero, senza peso, dove la voce in alto “gira” per esplodere squillante ed elegante sotto la volta della sala, insomma la “civiltà vocale” del nostro canto e quella dei cantanti (anche tedeschi di nascita e formazione) applicati a tale repertorio è sconosciuta. Basta guardare i primi piani del volto dell’ “atleta” con la lingua, che  si alza nella bocca, incollata al palato, e la voce le risuona sotto, schiacciata perchè è nelle fauci e non fuori dalle fauci. Il biglietto da visita è al primo atto, prima scena, al passaggio si-la “..BEnedici un casto amor”, un berciaccio, seguito dalla   ripetizione in piano abortita nella strozza, mentre il resto dell’aria è eseguito interamente sul forte. Perché ormai Kaufmann può cantare soltanto sul forte. Gli sono precluse le altre gamme di intensità. La scuola all’italiana ha sempre saputo che in questo modo la voce si irrigidisce,  è solo stentorea, la gamma dei colori nulla perché la duttilità sparisce e gli acuti si fanno urla belluine …persino in una teatro di limitate proporzioni. Tanto per esemplificare la prestazione sono frasi (centrali naturalmente) catatoniche in un mare di suoni ghermiti,  acuti urlati, come il  “Ei sua la fe” in chiusa al duetto con Posa a San Giusto sino  a quelle, che seguono il “Chi rende a me quell’uom” in chiusa di atto IV. Come per la protagonista femminile:  assenza di fraseggio ( il canto della scena di Fontainebleau è lo stesso di quello al duetto del II atto e al V con Elisabetta ). E’ un personaggio epico ed idealizzato il cui canto è realistico e verista nel senso atecnico del termine. Barbarie.
Il divo René Pape nel ruolo di Filippo è parso una stella smorta. Un ingresso privo della minima autorità e regalità scenica, che ha ben preconizzato quanto al duetto con Posa. La voce per nulla ampia, spesso è parsa afonoide al centro, “buca” e stimbrata; tanti i suoni aperti in   applicazione della tecnica dell’ “affondo”,  gli acuti indietro e piccoli, con l’aggravante che in natura non si tratta della voce di autentico basso. A questo stato vocale si è unita l’assenza di fraseggio, di intenzioni espressive e sopratutto di aristocratico porgere, come compete ad un sovrano tanto onnipotente quanto intimamente distrutto. Mai una frase allusiva necessaria alle grandi scene con Posa e l’Inquisitore; mai la potenza per le frasi autoritarie e irate ( per tutte, “Nel posar sul mio capo la corona” alla scena della piazza..); mai un’espressione dolente per il tradimento della sovrana. In compenso il cantante si è impennato grazie a gigionate come “ Io voglio averti a me d’accanto!”, abbaiato in faccia a Posa, l’invenzione straordinaria di Verdi di un imperatore dolente che attacca “Sei troppo altier…Osò lo sguardo tuo penetrare il mio soglio..” distrutta da un canto ingolato e muggito. Ovvio che la grande scena di Filippo  sia costellata di acuti latrati ( “No, Amor per me non ha..” da perle nere ), difficoltà di articolazione e scansione, falsettini vari, ed un duetto con l’Inquisitore tutto forte ed incolore. Nel quarto atto Filippo può essere piatto a patto di esibire una grande voce di bel timbro. “ Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altar” mi rimarrà impresso per sempre nella memoria, perchè qualcosa di simile non avrei mai potuto immaginarmelo. Anche qui la barbaria di un sovrano realisticamente barbaro con l’ascia in mano e l’osso nei capelli.
Questo per ciò che concerne i divi di casa, osannati dal pubblico locale. Degli altri, pure essi molto apprezzati dal pubblico, dirò in breve. La signora Anna Smirnova ha cantato da par suo come già in passato. Rispetto al funesto e criticato Don Carlo del Met la voce appare meno fresca e voluminosa ed  anche un poco accorciata in alto. Più della Canzone del velo, eseguito grazie a numerosi suoni falsettati e privi di appoggio misti ad altri di petto emessi senza il minimo aplomb stilistico, mi ha colpito la Scena del Giardino, in particolare “Trema per te falso figliolo”, che vi invito a “provare” di persona !  Questa Eboli non esprime nei modi vocali e scenici , alcuna magia seduttiva, alcun fascino nel canto legato e brunito del Giardino, solo una  tragicità esteriore e per nulla composta al “Don fatale”. E non c’è nemmeno il mezzo poderoso e bellissimo per “sbragiare” Elena Obraztsova modo!
Sul signor Daniel, sostituto last minute di Markus Kwiecien, non voglio insistere. Sembrerebbe di sparare sulla Croce Rossa. Non possiede i requisiti di base per questo straordinario ruolo, a cominciare dalla natura, insufficiente per Verdi ( gli basta il terzetto dell’atto II per sparire coperto dalla Harteros e dalla Smirnova ), nè la tecnica del canto sul fiato per cantare legando anche in alto come la parte richiede. Se la cava come può in alcuni passi, come l’ingresso al terzetto del II atto, ma soccombe al carattere epico del duetto con Carlo, per non parlare della latitanza espressiva nel duetto con Filippo, cantato, anche lui come gli altri, senza la varietà di accento che la dialettica della conversazione politica e nobiliare tra i due richiede. La scena della morte è stata portata in fondo con fatica sua e di chi ascoltava, perchè la sezioen conclusiva richiede una facilità e morbidezza in zona acuta ignote.
All’Inquisitore del signor Halfvarson non fatto difetto il mezzo naturale, invece. Una voce poderosa, senile e spaventosamente oscillante, usata sempre sul forte: anche per lui vale l’adagio: il fraseggio, questo sconosciuto. Il suo aspetto scenico, però, straordinariamente simile al Papa Innocenzo X di Francis Bacon, mi è parsa la sola suggestione valida dell’intero spettacolo, ma sono piuttosto propensa a pensare che sia stata una casualità e non una citazione consapevole del regista.
La bacchetta, il signor Asher Fisch, ha dato prova di considerare Verdi un compositore di musica da banda e di misconoscerne il canto. Gli spartiti di Verdi sono densi di segni di espressione, forcelle, pause, indicazioni dinamiche, prescrizioni di accento: la difficoltà è eseguire interamente il volere dell’autore che non ti lascia mai dire due frasi uguali, non molla mai l’esecutore, ma lo costringe nei percorsi che lui ha pensato. Il maestro Fisch immagino si sia servito di uno spartito “emendato” dei segni di dinamica ed agogica, invece, perché ha supinamente accettato il “non dire” dei suoi cantanti, il canto forte e monocorde, senza nemmeno moderarne la volgarità di tante frasi. Del resto ha diretto in modo rumoroso, incolore ( la scena di Nuestra Señora de Atocha, un affresco ridipinto da Verdi con l’orchestra, che descrive analiticamente i gruppi che sfilano, l’ambiente loro circostante, il clima della festa etcc.., vale ad esempio di tutta la inerte serata ), senza raccogliere mai le suggestioni continue dello spartito, i cambi di atmosfera, i colori.  Tutti i grandi momenti, dall’alba che introduce la scena di Filippo, al Giardino, col suono brunito degli archi, la scena del Velo, tipica del Grand-Opéra, la scena Filippo – Inquisitore etc ha sempre e solo battuto il tempo. Insomma, la “Civiltà” verdiana, ed uso la parola nel senso in cui la usavano gli uomini dell’Ottocento, è parsa misconosciuta ad Asher Fisch. Mai sentito un disco di Karajan o di Abbado? Mai sentito un Gran Operà? Direi proprio di no.
La barbarie vocale cala sull’opera italiana, sui nostri compositori, sulla nostra tradizione vocale e ci invade per forza dei rappresentati dalle majors. Eppure loro sarebbero gli eredi di Maria Mueller, di Heinrich Schlusnus, di Franz Voelker, di Elisabeth Rethberg etc.. una scuola di canto straordinaria ed italiana nell’imposto vocale, la prima, però, messa in crisi nel dopoguerra. E’ il gusto per il rozzo che influenza le scuole di canto o è la mala didattica diffusa che finisce per plasmare il gusto nuovo del pubblico a furia di urlatori? O le due cose vanno, come sempre, di pari passo?
I teatri tedeschi da decenni sono in grado di metabolizzare qualunque cantante, perché le loro platee sono facili da accontentare. Oggi esportano ed impongono i loro beniamini, anzi, sono divenuti ciò che non erano più da decenni, un punto di riferimento in fatto di “gusto” e “tecnica”: si canta tutto forte, di sforzo e si fraseggia in modo marziale, e questi modi stanno trovando sempre maggior consenso anche da noi. E’ evidente che siamo nel Basso Impero: Teodosio ed il vescovo Ambrogio, ultimi difensori della penisola italica sullo scorcio del IV secolo, sapevano bene che l’estrema baluardo di quel che rimaneva del mondo latino dai barbari era Milano. Caduta la capitale, sarebbe caduto di lì a poco un mondo intero.
Ieri come oggi la storia si sta ripetendo: oggi è la civiltà dell’opera e del canto all’italiana che sta soccombendo sotto le invasioni barbariche dei Germani non di passaporto ma di gusto e cattiva tecnica.

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Heinrich Schlusnus: 20 Don Carlo, opera- Schon seh’ ich den Tag erscheinen

Übersetzung von Selma Kurz:

Schon Cäsar fürchtete die Germanen – die Gefahr, die dem latinischen Volk heutzutage aus dem Norden droht, ist mehr gesanglicher Natur. An der Münchener Staatsoper ging ein Don Carlo über die Bühne, der mit Verdis Oper nicht mehr viel zu tun hatte, sondern mehr mit gesanglicher Barbarei…

In München regiert das deutsche Star-System: Sopran, Tenor und Bass wurden mit deutschen Sängern besetzt. – die aktuelle „hot couture“ im deutschen Verdi-Fach. Unter tosendem Applaus führen sie zusammen mit den weiteren Protagonisten – Dirigent und Regisseur inkludiert – die italienische Schule des Verdi Gesanges dem Untergang entgegen. Was man im Allgemeinen unter Phrasierungskunst versteht – die feinen Gefühlsregungen und vielen kleinen psychologischen Facetten, die Verdi so genial auf den Punkt gebracht hat – das dringt hier völlig verroht und mit martialischer Gewalt an unsere Ohren.

Das Team um Jürgen Rosen hat die Bühne in ein finsteres Loch verwandelt, in dem die königliche Familie hausen muss, ihre Kostüme sind von einer unvorstellbaren Ärmlichkeit. Die Königin erscheint in einem Nachthemd, das nicht einmal einer Dame untersten Ranges in ihrem Königreich würdig ist. Posa zeigt sich mit Brille und Armbanduhr und Eboli – eine echte Prinzessin präsentiert sich während des Schleierliedes als Hostesse. Im Autodafé finden sich die unvermeidlichen Nackten auf der Bühne – Markenzeichen des Regietheaters. Überall regiert die Lächerlichkeit.

Die Monumentalität einer Grand Opéra, der geschichtliche Hintergrund, die dramaturgische Größe des reifen Verdi – all das wurde weggeworfen für eine Produktion, die nichts ist, außer hässlich. Ein einziges Missverständnis dieses Meisterwerkes. Die Figuren in diesem Königs-Drama haben sich königlich und würdevoll zu verhalten: das gebieten die Musik, der Text und die Charaktere selbst. Werden sie zu Alltagfiguren reduziert, gehen sowohl der musikalische als auch szenische Effekt verloren.

Die Einzige, die ansatzweise so etwas wie eine Rollendarstellung erfüllte, war Anja Harteros. – Obwohl sie stimmlich überfordert war und ihre Elisabetta weder königlich, noch lyrisch war. Ihr fehlt die satte Mittellage für diese Rolle. In der unteren Lage behilft sie sich mit offenen, hohlen Tönen, so gut es geht, in der Höhe wird sie steif und hat Intonationsprobleme. Wo blühende Leichtigkeit gefordert wäre und unterdrückter Schmerz einer Königin ausgedrückt werden sollte, wie in den aufsteigenden Passagen in „Non pianger, mia compagna“ muss sie forcieren, weil sie technisch überfordert ist. In „Tu che le vanità“ singt sie die tieferen Noten offen und schlecht fokussiert, die Mittellage ist schlecht gedeckt, die hohen Noten neigen zum tremolieren. Wie soll eine Stimme, die in der Mittellage derart blass ist königliche Würde ausstrahlen? Und wer könnte von dieser Sängerin erwarten, dass sie sich um sorgfältige Phrasierung kümmert, wenn sie mit ganz anderen, elementaren Schwierigkeiten zu kämpfen hat?

An ihrer Seite geht es noch viel schlimmer zu:

In einem vergleichsweise eher kleinen Haus wie der Bayerischen Staatsoper hat Jonas Kaufmann sich als Carlo durch den Abend gebellt. Noch nie habe ich diese Rolle derart unkultiviert singen gehört. Er verkörpert geradezu als Prototyp das, was in Italien als „affondare“ bezeichnet wird. Das Singen am tiefen Gaumen, das Pressen und Hinauf treiben der Bruststimme durch die Übergangslage (passaggio) bis in die Höhe. Er singt nicht auf dem Atem, sondern mit den Eingeweiden – das gefällt dem Publikum, weil es „Anstrengung“ und totalen „Einsatz“ vermittelt. Das künstliche dunkle Einfärben der Stimme sorgt für den „männlichen“ Klang. Seine Visitenkarte liefert er bereits in der Fontainbleau-Szene ab: in der Phrase „BEnedici un casto amor“ bellt er beim ersten Mal, die Wiederholung im piano würgt er aus dem Hals heraus. Die Arie singt er im Einheits-forte, weil die Stimme anderenfalls kaum mehr trägt. Eine andere Klang-Intensität als das konstante voll Aussingen ist ihm kaum mehr möglich. Dadurch wird alles, was stimmliche Gestaltung betrifft zum monotonen Einheitsbrei. Durch diese Art des „gesanglichen Gewichtstemmens“ ist es kaum möglich der Stimme Farben und Nuancen zu entlocken – ganz zu schweigen von klarer Phrasierung und Wortdeutlichkeit. Der Charakter des unglücklichen Infanten geht unter in einem Meer von  Schluchzern, gequältem Stöhnen, kleinen Kicksern und heraus gebellten Spitzentönen – angefangen bei „Ei la sua fè“ am Ende des Duettes mit Posa bis „Chi rende a me quell´uom“ am Ende des vierten Aktes. Kaufmann klingt immer gleich, er entwickelt den Charakter musikalisch so gut wie gar nicht – weil er nicht kann. Das Publikum aber verwechselt die gequälten Spitzentöne mit strahlender Schallkraft und „italianità“ und ist hingerissen.

Der Stern des Stars René Pape strahlt alles andere als hell. Schon seinem Auftritt fehlt jede Autorität und königliche Würde auf der Bühne. Die Stimme hat wenig Körper, in der Mittellage klingt sie hohl und farblos. Er singt offen und presst um einen breiteren Klang zu erzielen. Die Höhen wirken eng und halsig, mehr nach Bariton als nach Bass. Dazu gesellt sich eine nicht vorhandene Sorgfalt was Phrasierung, differenzierte Ausdruckskraft und aristokratische Tongebung betrifft. Sowohl in den Szenen mit Posa als auch mit dem Großinquisitor blendet er nur mit vermeintlich großem Ton, bleibt aber als Charakter eine Fassade. Alles klingt gleich, egal ob „Io voglio averti a me d´accanto!“ oder der von Verdi so großartige Einfall des schmerzlichen „Sei troppo altier… Osò lo sguardo tuo penetrare il mio soglio“, das er heiser herauswürgt. Auch in seiner großen Arie erweist er sich nicht als großer Gestalter. Nachlässige Artikulation und auch hier ein nur Einheitsforte oder aber Falsett-Töne, die im Hals stecken. Dazwischen fehlt eine ganze Palette an Farben, Nuancen und dynamischen Schattierungen. Verdis großer, einsamer König – zerrissen zwischen seiner Pflicht als Herrscher und seinem privaten Unglück bleibt bei Pape ein verrohter Barbar mit der Axt in der Hand.

Eine kurze Zusammenfassung die restliche Besetzung betreffend:

Anna Smirnova klang in der Met-Produktion stimmlich etwas frischer, auch die Höhe klang in München etwas verkürzt. Das Schleierlied singt sie mit einer Mischung aus falsettierten- und Brust-Tönen, häufig ohne korrekte Stütze und ohne Stil-Gefühl. Ihre Eboli hat nicht die geringste Würde, keine verführerische Ausstrahlung, auch nicht zumindest das betörende Timbre einer Elena Obrastzova.

Mit Boaz Daniel, der in letzter Minute M. Kwiczien ersetzt hat, soll nicht allzu hart verfahren werden – es wäre als ob man auf das Rote Kreuz zielte. Ihm fehlt es an den erforderlichen Voraussetzungen für diese großartige Rolle – einmal abgesehen von der stimmlichen Dimension. Selbst im Terzett des zweiten Aktes verschwindet seine Stimme hinter jenen von Harteros und Smirnova. Mangelhafte Atemführung für die großen legato-Bögen auch in der hohen Lage. Hier und dort schlägt er sich tapfer wie zu Beginn des Terzetts im zweiten Akt, für das Duett mit Carlo fehlt ihm die epische Breite, im Duett mit Philipp läßt er wie auch alle anderen jegliche Akzentuierung und Einfallsreichtum als Interpret vermissen, wie es Verdis Partitur vorschreibt. Die Sterbeszene brachte er mit derselben Mühe zu Ende, die er dem aufmerksamen Zuhörer verursacht.

Der Inquisitor des Herrn Halfvarson klingt mächtig, tremoliert aber erheblich und wird immer nur im forte eingesetzt. Auch für ihn gilt: Phrasierung nicht vorhanden. Seine äußere Erscheinung erinnert stark an Papst Innozenz X in dem Film von Francis Bacon – für mich die einzige bemerkenswerte Detail in dieser Produktion. – Möglicherweise ist es aber bloßer Zufall und keine bewusste Anspielung auf den Regisseur.

Asher Fish nimmt die Partitur Verdis offenbar nicht ernst. Sie ist voll von ausdrucksstarken Anweisungen, dynamischen Angaben und Akzentuierungen. Die Schwierigkeit besteht darin, den Anweisungen des Komponisten vollinhaltlich gerecht zu werden. Keine Wiederholung soll gleich klingen, nie lässt der Komponist den Ausführenden von seinen Vorgaben abweichen. In der Partitur, die Fish verwendet hat fehlen wohl all diese Anweisungen, denn nicht nur er selbst missachtet sie, er lässt es auch zu, dass seine Sänger alles im Einheits-Forte herunter plärren, sich nicht die Mühe machen, ihr vulgäres offenes Singen zu mäßigen. Ob er sich je eine Aufnahme von Karajan oder Abbado angehört hat? – Wohl kaum.

Das Publikum huldigt seinen deutschen Stars. Seit Jahrzehnten sinkt in Deutschland das Niveau der Sänger, die dort auftreten, weil das Publikum dort allzu leicht zufrieden zu stellen ist. Nach einer längeren Durststrecke werden nun wieder deutsche Sänger in die Welt exportiert und setzen neue „Standards“. – Da wird gebellt und forciert, auf Phrasierung keinen Wert gelegt. Diese Art zu singen findet auch hier in Italien mehr und mehr Zustimmung – oder besser gesagt es wird nicht kritisiert. Stimmliche Barbarei fällt in die Welt der italienischen Oper ein. Ist es der verrohte Zeitgeist, der die Gesangs-Schulen beeinflusst oder liegt es an den Lehrern, die mit dieser derben und ungehobelten Art des Singens, das hauptsächlich auf Volumen und gutturalen Klang abzielt, den Geschmack des Publikums formen und ihm Rechnung tragen? – Wahrscheinlich beides.

59 pensieri su “Don Carlo alla Bayerische Staatsoper di Monaco

  1. Che brava, hai già scritto la recensione del Lohengrin scaligero prossimo venturo!

    Quanto alla barbarie teutonica e alla difesa della cultura italiana, comincia a scrivere ‘va’, terza persona indicativo del verbo andare, senza accento, come insegnano nella scuola dell’obbligo.

    Bobby

    • se tutti i tuoi argomenti di obiezione sui contenuti sono questi, allora…….Mai sentito parlare di refusi ed errori di stampa caro Bobbuccio maestrino? dimostraci che hanno cantato bene e sul fiato prima di rompere le scatole…

      • Con un cast del genere: Kaufmann (crogiuolo di falsettini, muggiti e sbadigli già sentiti a Monaco e Bayreuth), Harteros (gelida, corta e ingolata già a Monaco), Herlitzius (altro coacervo di urla, acidità e rantoli da vittima dell’ inquisizione, già uditasi a Bayreuth e presto contestata a sangue dal pubblico unanime e giustamente sostituita), Pape (allo stato attuale vedi Kaufmann), Barenboim (macignoso, lugubre, svogliato, luttuoso, noioserrimo) si fa presto a fare la recensione. Basta conoscere e vivere nel presente usando “l’emozzzzzzione” e magari le orecchie collegandole al cervello 😉

        Marianne

      • Ti sbagli, perché, per quanto riguarda il recente Don Giovanni, anche io sono rimasto molto, molto deluso dalla prestazione di orchestra e direttore, al quale imputo la maggiore responsabilità. Dei tre cantanti che dovremmo ritrovare a Milano, sono felice di riascoltare Pape.

        Bobby

        • lo riascolterai se la sua voce arriverà al loggione….e ne dubito assai…questo può essere spacciato per voce nella sale di 0onacoe 8erlino ma non in teatri grandi….la proizione si ha con la voce da un’altra parte

          • Guarda che la Scala non è il centro del mondo! Non avrai mica le stesse ossessioni narcisisticamente provinciali di Lissner? Sai bene che Il Piermarini ha un’acustica difficile soprattutto in caso di scenografie ‘aperte’.

            Bobby

          • mi pare lo sia per te, che sei venuto subito a parlare di ùohengrin. Nessuno ci ha pensato a quello…..mancano mesi e le corde vocali possono atrapparsi in un attimo a sforzarsi a quel modo….Magari ci ribeccgiamo il cast di quello con Gatti!

          • Quindi fatemi capire: una buona prova di Jessica Pratt, per fare un esempio… a caso, alla Fenice o al Ponchielli non ha alcun significato? Non credo proprio.

            Bobby

          • Questo però lo dici tu!
            Non abbiamo MAI scritto nulla di tutto questo, anzi se, una a caso, la Pratt ha fatto bene abbiamo dato il giusto risalto alla cosa a prescindere dal palcoscenico o dal luogo!
            Se sai leggere…

            Marianne

          • Caro Bobby, Shalva Mukeria (tanto per anticipare il prossimo nome che tirerai/tirerete in ballo), notoriamente una vocina, si sente perfettamente tanto nei teatrini italiani (cui è relegato dalla solita, illuminata, avveduta e soprattutto competente classe dirigente stanziata nei teatrini, ma soprattutto nei teatroni italiani) quanto nell’immensa sala della Staatsoper viennese… La parola chiave è sempre la stessa: proiezione.

        • “questo può essere spacciato per voce nella sale di Monaco e Berlino ma non in teatri grandi…”

          questo non l’ho scritto io alle 11.34. Per fare l’esempio di una cantante che ho ascoltato dal vivo alla Scala: Maria Agresta ha cantato molto bene Donna Elvira, ma ha dovuto forzare qua e là a causa delle dimensioni della sala.

          Bobby

          • infaati in scala nell’oro si sentiva meno di 3oun che è una vocina….idem nel 1equiem. Si sentiva mooolto diu’ ramey di pape, non parliamo di bassi come ghiiarov
            Caro bobby, ma smettile di scrivere pistolate provocatorie…abbiamo @capito il tuo scopo…..

          • La Scala ha, in effetti, alcuni piccoli problemi d’acustica (certi angoli di risonanza e taluni settori che, storicamente, hanno un riverbero fastidioso): in parte dovuti all’ampiezza della sala (ma è normale) e del palco (soprattutto con scene “vuote”, che tanto vanno di moda ultimamente), in parte – così si dice – ai lavori di restauro. Però la Scala è così dal 1778 e, nella sua non breve esistenza, ha ospitato – senza grossi problemi – repertori diversi e cantanti di ogni genere. Se il problema dell’ampiezza si pone, in termini così gravi, solo negli ultimi tempi (pur considerando gli interventi di restauro, che possono aver modificato leggermente l’acustica, ma non i volumi della sala), forse è dovuto ad altri fattori. Forse una maggior attenzione agli equilibri orchestrali sarebbe opportuna (e invece, da Gatti a Barenboim, si ha la sensazione di una gara a pestare sempre più forte, con una marea di archi che saturano ogni angolo sonoro), forse la proiezione di taluni cantanti lascia molto a desiderare…
            Devo dire, però, che tutti questi problemi non si sono mai posti nella tanto vituperata “era Muti”, e neppure quando ad aprile ho gustato il meraviglioso concerto di Pappano e dell’Accademia di Santa Cecilia.

          • Maria Agresta era costretta a forzare (cioè a emettere suoni duri e non a fuoco) nella tessitura bella centrale di Gemma di Vergy (nel non immenso teatro di Bergamo)… immagino che cosa possa essere avvenuto alle prese con la più acuta Donna Elvira. che poi fosse meglio della Frittoli può pure darsi, anzi lo credo senz’altro.

  2. Udite uditeeeee! Squillino le trombeeee!!! Grandi notizie per i fans del nostro caro Jonas Kaufmann. A dicembre aprira la stagione alla Scala come Lohengrin con la Harteros, Pape, Barenboim, regia di Claus Guth. Il debutto in Manrico al Met. Esordi alla Wiener Staatsoper nei ruoli di Parsifal, Turiddu e Canio. È in uscita l’ incisione dell’ Aida per la EMI con la Gheorghiu e la bacchetta di Pappano.
    Colmo della goduria, il doppio debutto di lui e Anna Balena Netrebko (ho scritto proprio così, non è un refuso…) in una nuova produzione di Manon Lescaut a Monaco nel 2015.
    I vari Bobby Sordo avranno di che esultare.

  3. Mah. Onestamente ho seguito parte di questo Nonno Carlo e che dirne?
    Sicuramente non che mi sia piaciuto, che mi abbia conquistato, che mi abbia fatto seguire l’evento prezioso in diretta via web tenendomi incollato al monitor per vedere e ascoltare.
    Vedere c’era ben poco, ascoltare ancor meno.
    Una piattezza esecutiva spesso colma di cianfrusaglie e conferme in brutto di quanto si potesse ipotizzare prima della levata di sipario.
    Che dire dei cantanti? Non pervenuti. Fuor di battuta caustica. A volte avrei voluto salvare alcuni frammenti della Harteros, a volte un paio di momenti di Pape ma onestamente non più di questo, anzi, a volte mi intenerivano e provavo imbarazzo per conto loro. E salvare tre/quattro minuti di tutta la recita è già essere buoni e buonisti. Forse all’eccesso.
    Ho torvato tuttavia molto divertente il duetto Don Carlo / Rodrigo, una fiera di inascoltabilità per la quale il parossismo del brutto diventa genio.
    Ho trovato il personaggio di Don Carlo immobile, letargico, piatto, noioso, deficitario di ogni possibile idea e chi ne vestiva i panni credo abbia sì messo in fila (spesso male) delle parole, ma senza dare un significato ad una singola frase. Di Rodrigo preferisco tacere, cosa che consiglio anche a chi ha dato prova in quella recita di come NON si debba fare NULLA. Serata sì serata no, questa si vede essere una serata mai più. Una mesta serata, una realizzazione mesta, un’Opera che mesta non è e che sarebbe ora iniziasse a reclamare giustizia o quanto meno una soglia della vergogna decisamente più alta sotto la quale un certo repertorio debba essere supervisionato (non da sordi e ciechi) ed eventualmente proibito a una certa risma di ugole onde evitare scempi.
    Anche qui, comunque, sarà poi colpa di Verdi. Beppe.
    Che amarezza.

  4. Ma perché Youn è un grande cantante solamente quando si esibisce a Torino e un cantante modesto a Milano? Perché gli danno da mangiare la bagna càuda? Mattei invece è bravo anche alla Scala, ma solamente se suona un’orchestra diversa!

    Bobby

    • Non è proprio così la questione, Bobby: ci sono repertori diversi e, come ben sai, un bravo Gurnemanz può essere un cattivo Figaro e viceversa. Anche l’apporto dell’orchestra influisce sulla resa complessiva, e cantare con un grande direttore permette, all’interprete, di fare cose (o di sviluppare aspetti) altrimenti impraticabili. Se il suono dell’orchestra copre la voce e, di conseguenza, il cantanta aumenta gli sforzi per “bucare” la massa sonora, è ovvio che la qualità scade. Infine ci sono anche i gusti personali da tenere in considerazione.

    • Caro Bobby Kwangchul Youn è un grande Gurnemanz, Fasolt, Hunding, Re Marke, Langravio come ha dimostrato a Torino, Bayreuth e in qualunque teatro in cui ha cantato.
      Come Commendatore è completamente anonimo e traballante.
      Può succedere di essere ottimi in un repertorio e mediocre in altri, capita a TUTTI i cantanti, questo è la sola cosa da capire: non tutti i cantanti possono padroneggiare stili e compositori diversi.
      Che poi la Scala abbia un’orchestra che suona in maniera mediocre, diretta in modo mediocre (non sempre, ovvio) è un dato di fatto!
      Mattei, che non appoggia un suono, l’ho trovato abbastanza incolore.
      La Agresta sforzava già nella Gemma a Bergamo e come Elena a Torino, nonostante cercasse di essere corretta e dignitosa.

      Marianne

          • Non, non è così. Anche io sono parecchio deluso. Gli ultimi spettacoli della Scala che mi sono veramente piaciuti sono stati la Valchiria, la IV di Mahler diretta da Temirkanov e ll ritorno di Ulisse e direi anche anche il Flauto Magico diretto da Boeer. Sul Rosenkavalier mantengo sospeso il giudizio.

            Bobby

          • e allora Bobby perchè vieni a polemizzare?
            questi non sono i cantanti che si vorrebbe che fossero, e il fatto che magari kaufmann abbia la voce grossa, che vuol dire? qui li abbiamo recensiti in Alcina e Boccanegra, Requiem, Carmen, Tosca ( i il signor tenore è stato buato spesso e volentieri a cominciare dalla traviata ), in Oro del Reno . Fughe sparse, malattie, ma nulla di nuovo sotto il sole dal loro apparire.
            Abbiamo a che fare con una questione culturale, ossia che la voce ha da essere grossa e gonfia, in alto si può spingere, legare non serve, e la duttilità neppure, tanto la voce no si deve piegare ai segni di espressione.
            Cantare non è stare su un albero ad urlare, ma esprimere con un mezzo sonoro, flessibile, omogeneo, il suono libero e mai forzato, per dare senso drammaturgico ai personaggi. Questi signori sono convinti che il canto sia un gesto atletico e senza arte, che il suono grosso e quello proiettato si equivalgano, che la fibra e lo sforzo si debbano far sentire e non attutire, e la prova l’ha data Kaufmann nella sua metamorfosi vocale ( repferisco di gran lunga il primo ). Qui si canta per gli acutomani, anzi per i beceri, perchè anche su questi acuti c’è molto da dire. E la cosa dilaga, perchè pure i francesi hanno un culto antico per la fibra, lo sforzo, il latrato, dalla Crespin ad Alagna seconda maniera. peccato che con le voci poco duttili lo spartito verdiano non possa essere rispettato, il progere le frasi magari a fior di labbbro pure, la dialettica del canto di conversazione come pure la psicologia sfaccettata dei personaggi distrutte. ed i direttori d’orchestra no dicono nulla, a cominciare da quel signore che sta alla direzione musicale della Scala.
            questo è un fatto culturale, culturalissimo caro mio, perchè la voce fuori libera, il fraseggio, la nobiltà, sono quelle dei Bergonzi e dei Tucker, che infatti hanno una tecnica di canto opposta a quella di questi conan della scena, nbasta vederli come respirano e muovono il torace nei video e come la pancia di kaufmann non lavori contrarimente alla loro.
            e adesso correggi l’ortografia!

          • E’ una voce modesta…..si. Pergiunta cantava da basso vero, che nonè esattamente la sua cifra, perchè è un cantabile in realtà.

          • Deve salvare il buon nome della Scala ed il prossimo 7 Dicembre 2012…
            Forse anche tutta la stagione attuale 😀
            Ma di parlare dell’opera in questione forse gli pare brutto e quindi va OT 😉 e questo la dice lunga…

            Marianne

  5. “Don Carlo” è, fra le opere di Verdi, una di quelle che più amo, in tutte le sue possibili versioni (tranne, forse, quella che ripristina il compianto sul cadavere del neocreato duca di Posa; aveva ben ragione Verdi: musica meravigliosa, ma rallenta tanto l’azione). Per questo motivo, ho seguito l’allestimento bavarese via internet (iniziativa di per sé bellissima) solo fino alla scena della canzone del velo: una vera sofferenza, sia per la vista sia, soprattutto per l’udito. Il divo Kaufmann è tanto grazioso e la prestanza fisica gli viene in soccorso non solo nel distrarre gli ascoltatori, ma soprattutto nel sopportare lo sforzo incredibile che cantare gli costa. Così non può andare avanti per molto ancora. E poi che fastidio tutti quei suoni medioacuti e acuti sulla “i”, regolarmente strascicati in una sorta di “ei” che faceva pensare a una caricatura di Sherril Milnes. Poi sarò passatista, ma la voce di tenore nell’ottocento è la voce della giovinezza: deve suonare giovane e fresca sempre (immagino che tutti qui si ricordino di Kraus e di Pavarotti: ancora in tarda età la loro voce aveva trent’anni meno di loro). Se suona vecchia, tutta la psicologia del personaggio è compromessa, prima ancora di affrontare i sacrosanti problemi di fraseggio, come giustamene è stato fatto nella recensione.
    La concertazione era, almeno fino a quando ho ascoltato, non più che generica e distratta (ma dov’erano le bellissime frasi ascedenti dei violini all’inizio di “Sotto i folti e immensi abeti”?). Sugli altri cantanti che ho sentito non mi va neppure di scrivere perché non mi piace accanirmi e preferisco pensare e ripensare alle cose belle.
    Non ho sentito il Filippo di Pape, ma la sua incisione del grande monologo nel disco “Dei, Diavoli e Re” (il titolo è l’unica cosa veramente bella) suonava talmente fiacca, generica, stimbrata che difficilmente posso immaginare una migliore prestazione dal vivo.
    E tengo a sottolineare una cosa e parlo per me sola, naturalmente: io non provo alcun piacere nel parlar male di ciò che ho visto e sentito; lo stato del teatro musicale oggi mi rattrista moltissimo, perché anche se ho una montagna di dischi, penso ancora che il melodramma sia da vedere e sentire in teatro. Però, chi me lo fa fare di spendere soldi sapendo cosa mi aspetta? Perché sì, le previsioni si possono fare: non si tratta di avere la sfera di cristallo; se si hanno cognizioni di fonazione corretta e esperienze d’ascolto di lungo corso e di alta qualità, si può ben presagire come canterà il divo di turno. Io poi non vedo l’ora di essere smentita; di andare a teatro una sera e uscire entusiasta e afona e con le mani che mi bruciano per gli applausi. D’altra parte, temo che, visto come stanno le cose nel mondo del canto, ciò sia ben difficile.

  6. Non si tratta di fare delle anticipazioni ma di saper ascoltare, che Kaufmann abbia voce dura ed ingolata lo dicono le orecchie, ascolta in Don Carlos Labò (che non e’ Bjorling ne’ Bergonzi o Corelli etc..) e potrai avere un’ idea di cosa e’ la proiezione di cui parla la Grisi, con un cantante come Kaufmann le anticipazioni non sono impossibili, diventano scontate. Il problema e’ che qualche tenore ancora in grado di cantare la parte si potrebbe trovare ma e’ che alcuni “vanno” spinti altri no….Dicono essere la legge di mercato, mi domando quale………..

    Carlo

    • Caro Heidelberger,

      credo che capisci benissimo anche tu che qui non si tratta di avere il passaporto italiano o no, ma di un linguaggio del canto che si chiama universalmente “Italianità” e che, quale linguaggio, appartiene sia a un Schlusnus che a una Steber o ancora ad una Gencer. Se guardi gli ascolti aggiunti alla fine, vedrai di che “nostro canto” e di che “italianità” si parla. E’ ovvio che questo linguaggio è stato esportato nel mondo dall’Italia e trovo perfettamente naturale che qualcosa che fino ad oggi pure gli americani chiamano “italianità” susciti un sentimento di identità ed appartenenza in una italiana. Ma per favore, di che leghismo parliamo? E’ subito leghismo dire che i tedeschi (in questo caso si che si tratta sia di un paese sia di uno stile di fare cultura particolari) stanno distruggendo l’arte del canto da 60 anni ormai? E che l’esuberante quantità di performances e teatri lirici in Germania non sta facendo altro che moltiplicare esempi di malcanto e generare per motivi economici degli “star” che poi sono con successo esportati anche in altri paesi? Se è qualcosa di politically uncorrect, allora lo sottoscrivo pienamente.

    • Hai capito bene che non c’entra con i tedeschi e che germani è metaforico. Prima ho scritto anche sul gusto francese per questo canto in risposta a Bobby.
      In fondo all’articolo è così scritto: “…….canto all’italiana che sta soccombendo sotto le invasioni barbariche dei Germani non di passaporto ma di gusto e cattiva tecnica.”…….NON DI PASSAPORTO MA DI GUSTO E CATTIVA TECNICA”.
      Non far finta di non capire ed non venire a fare sterile polemica, anche se capisco che voi tedeschi su questo tasto siete un po’ suscettibili. Noi, proprio perchè italiani, di pensiero e tradizione italiana, assai poco, e non temiamo di essere fraintesi.
      Cantare all’italiana, come i cantanti tedeschi di cui abbiamo fatto nome ( solo alcuni esempi ), o americani o spagnoli. Cantare all’italiana fraseggiando sulla parola, la grande invenzione di Verdi, come Tucker o la Steber, come la Schlusnus ed Urlus etc..IL concetto è chiaro. ed oggi la Verdi Edission, il BAllo in MAschera in tedesco

  7. Ma cosa vi è di specificamente tedesco nei difetti di Pape, Harteros e Kaufmann rispetto, per esempio, a quelli di Cura o della Machaidze, camtanti che purtroppo conosco, o a quelli della Carosi, che non conosco? Se la tecnica è UNA, lo sono anche i difetti senza distinzioni geoetniche. Ciò che distruba nelle tue parole è l’impulso essenzialista di attribuire allla contaminazione, cioè al contatto, con il ‘mondo di fuori’ l’origine della decadenza del proprio mondo.

    Bobby

    • La tecnica italiana sarebbe una, quella per cui tra la Leider e la Sutherland non vi è differenza di imposto, tanto per capirci. Ci sono modi che nascono dal gusto che hanno attecchito più in certi paesi o su certi repertori che in altri. Il cantare forte, piatto, senza duttilità, cercando il volume appartiene in origine più a loro che a noi, ad esempio, perchè è sopratutto nel percorso che il canto wagneriano ha fatto, ove prima ancora che nel repertorio italiano sono comparsi cantanti di questo tipo. E questo è passato poi anche in altri repertori.Certa stentorieità in Wagner è passata subito, ad esempio, così come il declamare monotono entra prestissimo in quel repertorio per poi trasferirsi in altri come il nostro, ove risulta ancor meno adeguato. Tu hai parlato di Lohengrin, che peraltro abbiamo già sentito dai due in questione. Ti pare cantino come la Mueller e Voelker? con il loro porgere le frasi, il loro legare, il loro esprimere? O, successivmanete, come la Steber e Windgassen ( e ritengo Voelker assai preferibile a questo )? Non mi pare. Quella babarie vocale è già nel Lohengrin, ma in Verdi si sente assai di più, in don carlo è evidentissima.
      Di specificamente tedesco c’è il gusto, nei due uomini soprattutto: a loro questi cantanti piacciono e tanto. e piace sentire cantare forte, la potenza, il suono stentoreo è nel loro gusto dal dopoguerra….da noi no, è fenomeno più recente.Ma adesso è in atto,a furia di propinarci questi modelli.

  8. Oggi esce il BAllo in MAschera in tedesco. Lì sono tutti cantanti di area tedesca che cantano all’italiana, ossia nell’unico modo in cui si è sempre cantato. Non c’era differenza geografica nella definizione tecnica, prorpio perchè la tecnica è una. In tedesco cantano Verdi, con il sensodi Verdi e di come il compositore vuole che il cantante si esprima. e sono in grado di eseguire i segni di espressione, ciascuno con la prorpia voce, con ipropri pregi e difetti. E con quell’impianto eseguivano Wagner alcuni di loro. MA quanto tempo è che da loro non si produce un baritono come Bruson? o un soprano come MAria Chiara? o un tenore ..come Pavarotti o anche Domingo ( che sentito dopo Kaufmann è un balsamo per le orecchie) ? Io direi da molto tempo di questi cantanti….e perchè mai, scusa? mica sono cambiati i geni? ……..son cambiate le scuole, ma c’è anche una questione di gusto oggettiva, ossia che al loro pubblico da decenni vanno bene cantanti che a noi non sarebbero mai andati giù….

  9. ora che pure noi come pire gli spagnoli etc non produciamo più nulla, perchè la realtà è questa, che cantanti da Verdi non ne abbiamo, ma abbiamo ” voci ” nude e crude, che fanno ogli acuti senza avere il legato al centro oppure hanno il centro di natura ma gli acuti non li fanno, con tutte le conseguenze del caso ( Verdi festival docet ), chi arriva come KAufmann a cantare verdi in quel modo pare un grande cantante senza esserlo. e si afferma l’idea che quello sia il modo esatto di essere tenore epico da Verdi…e diventa a sua volta modello….perchè si afferma la sua concezione del canto e del modo di essere cantante, fa “gusto”….mentre il suo gusto è figli odella sua tecnica, che no è quella unica di cui sopra. Dischi, potere delle majors, gusto di chi li sceglie etcc….sono tutte componenti che agiscono nel creare modelli di canto per il futuro…che non c’è. Chi allestisce Verdi oggi e con chi? Con quali successori a Bruson? o anche al criticabile ma ferreo Domingo ? o a MAria Chiara? o a Ilva Ligabue????? …………

  10. In Germania piacciono i cantanti stentorei. Da noi….si e no, direi, stando alle persone con cui parlo. Ma è certo che nessuno scambia questo modo di cantare per quello di Bergonzi o di Tucker. Per loro invece paiono equivalenti, stando a fori, riviste etc…

  11. Quanto “all’impulso essenzialista” che ti distuberebbe ( e non so bene che sia , ma credo una tua idiosincrasia, stando a come scrivi )….non so che dirti. Neghi che ci siano gusti diversi tra le platee del mondo? che ci non ci siano diversi gusti intepretativi?
    Direi proprio di se, e provarlo basta vedere la geografia delle carriere, cantanti che fanno successo in certi palcoscenici non piacciono in altri…..più nitido di così.Quanto alla geoetnia, vale la risposta data ad Heidelberg.

  12. Ma sì Giulia hai ragione su tante cose scritte in questo thread(si chiama così?)( anche se a me ad es. Bergonzi non fa impazzire, trovo il suo modo di cantare troppo estetizzante, rindondante !)
    Ero a Monaco domenica a sentire questo Don Carlo: Kaufmann ancora una volta si dimostra inadeguato nel repertorio italiano, ingola sempre di più, al limite del disturbo e soprattutto è un interprete penoso: sempre la solita aria di bello e dannato, sempre con quello sguardo fisso nel vuoto, incapace di un minimo di gestualità genuina e naturalista.Ha sempre la stessa insopportabile faccia in qualunque ruolo! Ho sempre affermato che lui è grande cantante di Lieder e può andare nel repertorio tedesco: in Lohengrin e soprattutto in Valchiria e forse Parsifal, ma repertorio Italiano NO, e glielo anche detto, fra le righe.
    Ha grande successo per i tanti motivi ben enunciati dalla Divina e poi, inutile nasconderlo, perchè piace e assai sia a donne che uomini per la sua indubbia avvenenza fisica e lui ci marcia.
    Per la Germania non par vero di aver tra le mani tal tesoro!
    Deutschland uber Alles , finalmente: grazie Jonas!
    Ma che dire del Posa, terribile! Eboli, peggio altre volte(a padova in Trovatore!), ma ora,in Europa, la si considera l’Eboli di riferimento !Ma siamo pazzi!
    L’antipatico Pape mi è piaciuto, come anche L’Harteros, a voi indigesta, ma mi è sembrata l’unica decente verdiana.
    Devo dire che la cosa che più mi ha impressionato di quella recita è stata la direzione di Asher Fisch: il suo Verdi l’ho apprezzato molto, tempi giusti, continua ricerca di un unicum nella partitura verdiana, con una grande coerenza e armonia in tutte le varie parti dell’opera e soprattutto belli mi sono apparsi tutti i meravigliosi e difficili concertati dell’opera.
    Se penso al Don Carlo di qualche anno fa a Londra con Pappano e Villazon,in piena crisi, ma col direttore fracassone più che mai, con conseguente maldestra e pasticciata esecuzione dei concertati: fu un’esperienza terribile! Come del resto in Tosca lo scorso Luglio, e Hydin e Rossini a Salzburg.Sto rivedendo il mio giudizio su Pappano, per me assai sovrastimato, anche se amo molto il suo Tristan in disco.
    Cara Giulia tu ami molto Pappano e ti ho detto come io la penso: avresti dovuto esserci, però, in quei posti!
    E ami anche Harding, ma davvero amasti Cavalleria e Pagliacci?
    E Chailly? ma cosa ha mai fatto di così travolgente!Lo volevi alla Scala!
    Un amico a Monaco mi ha riferito che alla Fenice ci saranno 2 tuoi beniamini in Sonnambula . Ebbene Martedì mattina ho comprato subito un biglietto per sentirli!
    Ti chiederei, quando scrivi, di essere meno furente e scapigliata: a volte le frasi sono incomprensibili!
    Cordialmente.Cap.
    P.S.
    Vedo che 2006 è vivo, vegeto, pimpante, sempre il primo a rispondere; ma GB Mancini dov’è finito? e Carlotta?

  13. Non capisco il senso della tua risposta! Non mi pare di aver detto cose così scorrette nei tuoi confronti, anzi..!
    Io non assumo nessuna pillola e non corro il rischio di sbagliare.
    Sono assai sereno. Mi dispiace per questa tua risposta, per me, ma anche per te! Il tuo cervello pare proprio già saltato!
    Molto amareggiato… Cap.

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