Sorella Radio. Donizetti paralleli: Fille dal Met, Linda dal Liceu.

Durante le festività natalizie, nei giorni pigri e sonnolenti, consacrati alla ricreazione del corpo e dello spirito, le emittenti radiofoniche si trovano più spesso del solito nella necessità di colmare i vuoti dei rispettivi palinsesti e si cavano d’impaccio proponendo un poco di quella che viene tautologicamente definita buona musica. Ecco quindi che negli ultimi giorni dell’anno la radio, anzi, Sorella Radio ha recapitato a domicilio ben due dirette consacrate a Donizetti: “La fille du régiment” dal Metropolitan e “Linda di Chamounix” dal Liceu.

Spettacoli natalizi, allestiti da due dei massimi teatri del mondo, richiedono e impongono cast composti da interpreti di chiara, anzi chiarissima fama. Requisito ampiamente soddisfatto nei casi in questione. Alla trasmissione radiofonica spettava invece, come sempre più spesso avviene, l’ingrato compito di sostanziare non già le fondate ragioni di tale e tanta fama, ma i dubbi e le perplessità che vieppiù s’impongono circa i meccanismi che regolano le fortune e i progressi delle carriere artistiche.

Nino Machaidze, che già aveva proposto al Met la sua Gilda, vi ritorna come Marie nel celebrato allestimento di Laurent Pelly. Il medesimo che Natalie Dessay non era, malgrado gli sforzi, riuscita a imporre in Scala ormai un lustro fa. Ora che il teatro ambrosiano è stato – così ci dicono – felicemente riconsegnato al suo ruolo di amico ostello dello star system mondiale, gli sforzi della signora troverebbero forse più fausta accoglienza, benché non si possa dire che lo spettacolo sia migliorato rispetto alla ripresa televisiva viennese. Permane la descrizione greve, naturalistica e a dir poco caricaturale della protagonista, lontana anni luce dalla poetica dell’opéra-comique, e persiste il tentativo di trasformare l’aria della lezione in una sorta di scena della pazzia in cui urla, lamenti e rumori assortiti prendono regolarmente il posto del canto. Siffatte modifiche, sostanziali e non solo formali, trovano puntuale corrispondenza nel canto della Machaidze, perfetta espressione dell’illustre scuola che l’ha istruita e lanciata. Una voce emessa in modo aleatorio, e quindi traballante al centro, incapace di legato, sorda in prima ottava, più sonora (perché la natura è, se non generosa, ancora non del tutto esausta) e sistematicamente fissa in acuto, è il marchio di fabbrica dell’Accademia scaligera, atteso che le voci femminili dalla medesima sfornate cantano tutte con il medesimo imposto, o meglio, con la medesima assenza d’imposto. Di suo questa malcerta erede di Lily Pons (cui fa però difetto la sicurezza in acuto, che garantì alla cantante francese tre decenni di dominio pressoché assoluto della parte di Lucia di Lammermoor al Metropolitan) aggiunge una pronuncia francese ai limiti dell’incomprensibile. E anche di questo, forse, deve essere grata alla più internazionale delle scuole di perfezionamento italiane (lo diciamo avendo ancora nell’orecchio i faticosi dialoghi parlati della Carmen di un paio di stagioni fa).

Transitato anch’egli per l’Accademia del Piermarini, sia pure in qualità di ospite (e magari prossimo a tornarvi per qualche masterclass, stante il successo riscosso in quell’occasione), Lawrence Brownlee sarebbe un Tonio ideale, non fosse per l’emissione tutta nel naso e un’applicazione a dir poco casuale del passaggio di registro superiore, che rendono la voce chévrotante al centro e producono, dai primi acuti, suoni schiacciati, rendendo fibrosi e sistematicamente prossimi alla stecca i do della prima aria e limitando fatalmente, nella seconda, il gioco dei colori e le intenzioni musicali, pur numerose e lodevoli.

Poco da commentare sui comprimari, se non per rilevare la riconversione della celebrata mozartiana Ann Murray come caratterista (viene da rimpiangere l’onesto mestiere di un’Anna di Stasio) e la preterintenzionale pietra del paragone proposta da Kiri Te Kanawa, ormai prossima alla settantina e ben oltre il quarantesimo anno di carriera, che interpolando nel secondo atto un passo dell’Edgar pucciniano mostra, pur con le inevitabili offese del tempo, una saldezza e una sonorità ignota alla protagonista, che per età anagrafica potrebbe esserle figlia, se non nipote.

Piatta e metronomica, al solito, la direzione e concertazione di Yves Abel, ormai assurto, il cielo sa perché, al rango di bacchetta specializzata nel titolo.

Più felice la condotta musicale della “Linda” catalana, affidata a Marco Armiliato. Come ormai regolarmente avviene, è stato esplorato con maggiore efficacia il lato umoristico dell’opera (pur con un’orchestra in difetto di leggerezza, soprattutto nel duetto fra Linda e il marchese), mentre l’aspetto patetico e sentimentale, che a tratti sconfina nel tragico, non ha ricevuto dal concertatore e direttore l’attenzione che avrebbe meritato. Del resto mancavano voci in grado di sostenere nella maniera più adeguata scrittura e peso orchestrale da opera seria, e ciò a partire dalla protagonista, Diana Damrau, debuttante nella parte. Che la cantante acclamata come il maggiore soprano di coloratura attualmente in attività incespichi e vacilli sulla scrittura non certo impossibile della cavatina, e che la medesima proponga, in tutta la serata, variazioni assai circospette e parche, è cosa che dovrebbe imporre seri interrogativi e sulla fondatezza di tali acclamazioni, e sull’attuale stato dell’arte canora, sopranile e non solo. I veri problemi emergono però nel secondo atto, nella già citata scena con il marchese e soprattutto nella pazzia: la voce al centro è priva di appoggio e larvale, dal fa acuto in su non si contano i suoni malfermi, gridacchiati e stonati (su tutti il mi bemolle che chiude il secondo atto). Quel che è peggio è che la cantante, costantemente a corto di fiato perché in difetto di una corretta tecnica di respirazione, tenta di rimediare proponendo una lettura bamboleggiante e leziosa del personaggio, consona più a un’Olympia già prossima a spezzarsi che a un’eroina del genere larmoyant. Sospiri e smorfie trovano ovviamente il loro acme nella pazzia, condita da risatine. La Damrau propone insomma una lettura sulla falsariga di quella maniera che una Gruberova ha sempre (e maggior ragione negli ultimi anni) applicato al repertorio italiano, ma lo fa senza il controllo tecnico della più matura collega slovacca. Si può forse tollerare il gusto caricato ed estraneo alla musica e al carattere del personaggio, ma diviene difficile farlo se tale gusto (o assenza di gusto) si palesa nel contesto di un’esecuzione a dir poco claudicante. Eppure la Damrau passa, oggi, per un esempio preclaro e di canto e d’interpretazione.

Modello e metro del canto contemporaneo è, ovviamente, Juan Diego Flórez, che trova nel genere di mezzo carattere, finalmente, una scrittura maggiormente consona alle proprie potenzialità , in senso lato. Purtroppo, come nel caso di Brownlee, l’insistere della parte sulla zona dei primi acuti sembra causare più di una tensione al tenore peruviano, che non sfoggia sui do e do diesis anche generosamente interpolati quella lucentezza che i suoi più fervidi seguaci indicano come sua cifra caratteristica. Al centro la voce ha maggior giro, pur rimanendo – ma questo non è certo una sorpresa – comune nel timbro e povera di smalto. Mille volte meglio qui, a ogni modo, che non nella scrittura eroica delle opere del Rossini napoletano, e lo stesso può dirsi del Pierotto di Silvia Tro Santafé, già improbabile Arsace, sempre contrassegnata, anche come giovane orfano savoiardo, da un’emissione becera e verista, oltre che dalla sistematica incapacità di cantare piano e legare due suoni (specie nella sortita).

Le tre voci gravi maschili, considerate nel complesso, evocano diversi adagi lombardi riferiti a tempi, come l’attuale, di profonda crisi materiale e spirituale. Delle tre la più dissestata risulta quella di Pietro Spagnoli, soprattutto per la scrittura schiettamente baritonale della parte di Antonio, ma Simón Orfila non appare certo più rifinito e soprattutto più saldo nel meno oneroso ruolo del Prefetto (specioe nel duetto con Carlo al terzo atto). Bruno de Simone, qui nelle vesti per lui consuete del caratterista o fine dicitore che dir si voglia, si disimpegna senza infamia e senza lode, con la voce legnosa di sempre, retta unicamente da un’articolazione della parola che risulta ignota al resto della compagnia.

Gli ascolti che seguono non hanno bisogno di presentazione o di commento. Ci limitiamo a precisare che Margherita Carosio è stata la protagonista della prima ripresa di “Linda” a Barcellona nel XX secolo e che la scelta delle Variazioni di Proch è dovuta al fatto che il brano veniva interpolato da Frieda Hempel, protagonista della “Fille du régiment” al Met nel 1917, nella scena della lezione. Oggi abbiamo diritto, al massimo, a una pestata di tasti sul pianoforte, al momento del “Salut à la France”. Pestata che risulta più piacevole, in molti casi, dei sopracuti emessi nella suddetta scena della lezione.

 

Donizetti – Linda di Chamounix

Atto I

Ah, tardai troppo…O luce di quest’anima – Margherita Carosio (1953)

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19 pensieri su “Sorella Radio. Donizetti paralleli: Fille dal Met, Linda dal Liceu.

  1. Grazie a Tonio per il resoconto sulla stato vocale della mia diletta microbarritrice Nino :).
    Per ciò che concerne la Damrau, ho ascoltato la diretta di cui si riferisce e agggiungo che nel primo atto attaccava tutte le note alte con la spinta da sotto, a imitazione della Gruberova attuale che però lo fa adesso, dopo aver passato i sessant’ anni.
    Aggiungo che nei Contés d’ Hoffmann monacensi la signora cantava i couplets di Olympia mezzo tono sotto, cosa ben poco consona a una cantante che passa per maestra di virtuosismo…

  2. Ho sentito entrambe le trasmissioni e se sono del tuo avviso per la “Fille”, lo sono meno per la “Linda”. Non contesto quanto tu dici sulla diretta da Barcellona, le argomentazioni sono in parte corrette e vere ma riduttive. Mi pare, ci siano stati anche momenti di buona musica, Florez ha sfoderato una delle migliori prove degli ultimi tempi, la Damrau ha avuto problemi è vero, mi sembra che cercando di ampliare il centro abbia abbassato la posizione della voce, ma a tratti è stata precisa, musicale, interprete del personaggio con accenti ed espressioni, magari a te sono parsi bamboleggianti e inappropriati o di cattivo gusto, eppure l’osannata Gruberova anche in tempi felici era più generica. Il Pierotto della Tro Santafé era corretto, Bruno de Simone ha classe da interprete ma voce no, buona la direzione d’orchestra. Sono trascorsi diversi giorni dall’ascolto, troppi per me, posso solo riferire impressioni generali e nel complesso il mio bilancio è positivo.

    • La prova di Florez è una delle sue migliori, concordo, ma i problemi in zona medio-acuta che si sentivano nella Donna scaligera (acclamata da alcuni come la seconda venuta del Messia) sono ancora tutti presenti, e già sul do (ricordiamo che nella Zelmira di meno di tre anni fa Florez saliva, non senza difficoltà ma vi saliva, fino al mi bemolle). La Gruberova non è mai stata un modello di espressività e di gusto italiano, ma la saldezza tecnica le evitava almeno i suoni gonfi e berciati di questa sua modesta emula. Non mi sembra neppure il caso di paragonare la Damrau ad Antonietta Stella, autentica voce d’oro e interprete non travolgente ma tutt’altro che stucchevole o manierata. Quanto al Pierotto della Tro Santafé, era meno inappropriato del suo Arsace, ma quell’emissione bassa e ingolata (di schietta matrice baroccara) toglie al personaggio tutta la sua poesia. Ascoltare per ogni opportuno confronto la ballata proposta dalla signora qui a fianco!

  3. Non ho ascoltato la Fille, ma solo la Linda, dove comunque mi sembra che il livello dei protagonisti principali si sia attestato su un livello più che dignitoso (avresti per caso dei link da mandare? Vorrei approfondire ascoltando ex novo in un caso, riascoltando nell’altro). Ho appena ascoltato la Stignani e concordo: siamo davvero su un altro pianeta, non fosse altro che per la corposità del timbro e la qualità dell’emissione.

    Mi fa piacere leggere le tue considerazioni sul fatto che un opéra comique non debba necessariamente essere interpretato come si trattasse una comica: non ho visto la performance della Machaidze, ma se penso ai frammenti che conosco della Dessay nella stessa produzione mi viene il nervoso. A parte il fatto che interpreta Marie e Amina allo stesso identico modo (la Sonnambula che vidi al Met nel 2009 resta uno dei ricordi più irritanti della mia esperienza di spettatore), non capisco perché per avvicinare i gggiovani o il grande pubblico all’opera si debba cadere in interpretazioni sciocche e caricaturali del tutto estranee alla poetica ottocentesca. L’aggettivo “comique” serve solo a differenziare il genere di opera in questione, tant’è che anche la Carmen lo è, ma per il momento nessuno si è ancora sognato di mettere in scena una Carmen tutta moine e tic e zompettante come una pazza isterica per il palcoscenico!

    • …..che poi oggi come oggi abbiamo i nostri bei problemi di gusto anche con l’opera comica, trasformata troppe volte in farsa ordinaria e volgare da interpreti che il pubblico pane e salame ama per le caccole che mettono in campo.Niente di eccezionale che si ecceda su certi versanti in un ‘opera come la Fille dunque. Questi cantanti hanno una personalità”artistica” (scusate l’abuso terminologico ) educata sui format tv dunque…

      • Parole sante, come sempre. Ho avuto la fortuna e l’onore di partecipare alla produzione di Fille al Met nel 72 (Sutherland, Pavarotti, Resnik, Corena, 25 minuti di meritatissimi applausi alla fine) e l’ascolto per radio di questa nuova versione mi ha gettato in depressione per tre giorni. Qualcuno dovrebbe spiegare al Met – in passato teatro di voci per eccellenza – che non sarà una cura massiccia di sguaiataggine a rimetterlo in salute. Per quanto riguarda la Signora Dessay – prima destinataria di questo allestimento – il suo urlo aggiacciante da Non Aprite Quella Porta nella pazzia di Lucia (stesso teatro) resta uno dei momenti più detestabili della mia carriera di spettatrice. Grazie per aver rimesso le cose a posto. L.B.

        • Beata te Lily!

          Tra l’altro, poco fa stavo riflettendo a una frase che l’utente Morax, moglie del direttore d’orchestra della Linda di Barcellona, scrisse in chat proprio mentre si stava ascoltando la produzione in questione.

          A chi criticava uno dei suoi beniamini, Jonas Kaufmann, la Morax rispose: “se non mi deve piacere Kaufamann, chi mi deve piacere? I morti, come a voi?”

          La frase mi è rimasta dentro per un po’, ma sono giunto a una conclusione -banale senza dubbio- che può servire anche da risposta a un detrattore del CdG che ultimamente insiste spesso su questo fatto dell’essere tutti morti, passatisti, etc…

          E’ un discorso che non ha senso: anche Rossini e Donizetti sono morti, ma le loro opere sono ancora ascoltate ed eseguite. Morti sono pure Dante e Manzoni, ma non per questo non li si legge più, come si continua ad ammirare la cappella Sistina anche se Michelangiolo è morto e sepolto da un bel pezzo. Non si vede perché l’arte canora e scenica di grandi artisti del passato non dovrebbe essere ancora ammirata (e rimpianta) e ci si dovrebbe accontentare, il più delle volte, di squallidi epigoni…

          • E’ inquietante la parola “DEVE” associata a “piacere”, e poi madame Morax conosce almeno le voci de “i morti”?

            Marianne

          • veramente ero anchio in chat non mi sembra che la moglie del maestro Armiliato si sia espresso in quel modo,comunque dopo un iniziale polemica ci ha fatto una piacevole compagnia,tessendo anche qualche lode ai frequentatori della chat,e dopo un paio di giorni ci ha fatto pervenire un link dove si poteva ascoltare la Linda

          • Come dissi in chat quella sera, a me piacciono i morti, per usare l’ espressione della signora, e me ne vanto anche. Avevo diciannove anni quanto feci un viaggio in treno di otto ore all’ andata e altrettante al ritorno, per ascoltare a Genova la Linda di Chamounix con la Rinaldi, Kraus e Bruson. Per sentire l’ esecuzione trasmessa da Barcellona pochi giorni fa, non avrei fatto neanche otto minuti di viaggio.

          • Il nome utente era Marox , anche chiamata Malox in chat :), in effetti, ha detto qualcosa di simile a quanto riportato da Nicola, è stata molto cordiale come riferito da Pasquale, non ha fatto cenno di conoscere “i morti” e i suoi vivi mi pare si limitassero a quelli che lavorano con il marito.

  4. Pasquale, ricordo che c’eri… e confermo che la compagnia della signora fu piacevole, e che il giorno dopo ci mandò pure il link della Linda. Una cosa non esclude l’altra, comunque… e ricordo molto bene una sua allusione ai cantanti morti! Le parole non saranno esattamente le stesse, ma il concetto quello era… ciao ciao

    • comunque è vero sui cantanti morti,ma fisicamente,perche le voci sono belle vive.

      A meno che chi critica si riferisca ai cantanti morti dell’800,in questo caso non basta un giradischi,ci vorrebbe un lettore medium,ma dubito che esista,o sia in attesa di essere inventato..hi hi

  5. Yo estuve en el estreno de “Linda” en Barcelona y en la función del día 27. En ambos días, el éxito fue moderado, aunque hubo algunas ovaciones cerradas importantes.
    Para mí, el mejor del reparto fue Juan Diego Flórez, el cual negoció muy bien la escritura central de la parte. En efecto, el centro aparece más ensanchado que en otras ocasiones y, a su vez, el agudo menos fácil y brillante. Además, como era de esperar de un tenor contraltino (y de voz muy limitada en cuanto a volumen), el fraseo fue bastante monocorde y el sentimiento transmitido a través del canto casi nulo. Cabe destacar también que Flórez ha incorporado a su canto el uso del portamento para atacar ciertas notas a partir del centro-agudo, cuando el ataque no resulta directamente defectuoso.
    El día del estreno, Diana Damrau, se mostró muy cautelosa vocalmente. La salida fue cantada con las mismas variaciones que en el día 27, pero sin que ninguna de las notas resultara liberada del todo y percutiente. En los números siguientes siguió en una tónica similar, de modo que la voz de Flórez parecía grande en comparación. Sin embargo, coronó una notable escena de la “pazzia”, a pesar de algunos problemas en las escalas y de afinación, pero con un importante mi bemol. En la función del día 27, Damrau cantó con más seguridad toda la ópera, pero falló el ascenso al mi bemol. De todos modos, en ambas funciones, como bien señala vuestra crónica, Damrau tomaba aire con más frecuencia de lo deseado y los sonidos dudosos fueron habituales.
    Simón Orfila intenta oscurecer el sonido, lo cual lo constriñe a casi sólo poder cantar en forte y sin ninguna dinámica (cuando intenta cantar piano la voz pierde proyección de manera alarmante). Pietro Spagnoli está claramente incómodo en el papel, con más de una rozadura a lo largo de ambas funciones. Nada más que añadir respecto a Bruno de Simone y a Silvia Tro Santafé.
    Asistí también a la primera función del reparto alternativo del día 28. Mi sorpresa fue constatar el estado vocal de Mariola Cantarero: el centro se ha ensanchado y el vibrato que antes había ha casi desaparecido, pero el registro agudo y sobreagudo resulta casi siempre abierto, chillado y estridente. Ismael Jordi cantó su particella con una voz bastante grata en el centro, menos seguro en la respiración y en el legato que Flórez, pero quizá de forma algo más expresiva. Sin embargo, el grave problema de Ismael Jordi es que el registro agudo está por resolver, siendo algún tipo de falsete reforzado sin brillo y sin proyección. Para mí, mejor Mirco Palazzi como Prefecto. El maestro Marco Armiliato aligeró 10 minutos la representación.
    Sólo una pregunta al aire: ¿Con qué criterio se explica que en una representación supuestamente íntegra de la ópera, se corte toda al obertura (o quede reducida a cinco compases de introducción)?

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