Onegin da Monaco e le scuse non richieste.

 Nel giorno in cui il terzo canale della televisione pubblica italiana prestava opera di misericorde soccorso a un’implume bacchetta “inciampata” in una serata blandamente vecchio stile nel cosiddetto massimo teatro ambrosiano, l’Opera di Stato bavarese trasmetteva in diretta sul proprio sito internet, come già accaduto poche settimane fa per il Don Carlo, una rappresentazione lirica. La trasmissione era preceduta da un videomessaggio del sovrintendente Klaus Bachler, il quale non si limitava a presentare la trama dell’opera, ma si lanciava in una difesa d’ufficio (è il caso di dire) dello spettacolo, affidato al regista polacco Krzysztof Warlikowski, spettacolo che tanto in occasione del suo debutto, durante la stagione 2007-8, quanto nelle varie riprese successive non aveva mai mancato di suscitare sonore riprovazioni da parte di un pubblico, certamente meno avvezzo di quelli italiani a riprovare alcunché. La genialità, unicità e quant’altro della produzione monacense era poi ribadita dall’intervista al regista medesimo, proposta durante l’unico intervallo, collocato a metà del secondo atto. Aderendo in maniera piuttosto pedissequa e unidimensionale al dogma che impone di considerare le opere dell’ingegno un mero riflesso della biografia dei loro autori (dogma che per coerenza porterebbe ad ambientare Semiramide in una gastronomia e Lucia di Lammermoor in una clinica alienista), il regista ha posto al centro dello spettacolo la relazione omoerotica fra Onegin e Lenski, trovando in questo rapporto la vera ragione che spinge il protagonista a rifiutare Tatiana.

Peccato che le cosiddette grandi idee registiche vadano anche tradotte in pratica, e possibilmente con esiti teatrali che siano all’altezza della grandezza, vera o presunta, delle medesime.

Non abbiamo visto uno spettacolo eclatante, né scandaloso, men che meno profondo o innovativo. Bensì la solita ambientazione da socialismo reale, nebulosamente anni Settanta, tutta giocata in un décor unico che evoca una sorta di casinò sovietico, gestito da madama Larina, ora discoteca, ora casa di tolleranza con vocazione alle pari opportunità. Bandita ovviamente la poesia anche melensa, ma presente nel testo e soprattutto nella musica, della vita agreste, rimpiazzata da gare di karaoke e spogliarelli amatoriali alla Full Monty (ma senza l’ironia e la spigliatezza dell’originale), profusione di dettagli quali la torta di compleanno e il pinguino di peluche, regalati alla giovane Tatiana, che vorrebbero essere un simbolo di grettezza piccolo borghese e invece narrano solo la scarsa fantasia e la meschina opinione dell’intelligenza del pubblico, che si cela (spesso neppure troppo accuratamente) dietro queste regie cosiddette di rottura. Quanto all’affetto fra il baritono e il tenore, è circoscritto a qualche passo di danza alla scena della festa, un rapido bacio sulla bocca e ovviamente alla scena del duello, ambientato in una camera da letto (quella camera da letto negata alla protagonista alla scena della lettera, svolta peraltro senza che venga scritto un rigo della medesima) e risolto come una via di mezzo fra la roulette russa (appunto) e il gioco erotico finito male. La Polacca, che nelle dichiarazioni di sovrintendente e regista è descritta come un’orgia frenetica e disperata, si riduce, in scena, a sei avvenenti fanciulli vestiti, o meglio, svestiti da cowboy che ancheggiano, sistematicamente in ritardo rispetto alla musica e spesso anche in décalage fra di loro. Uno spettacolo parrocchiale, dove di indecente c’è solo l’assenza di professionalità, a qualunque livello. Al terzo atto compaiono, nella rada folla degli invitati del principe, alcuni femmenielli, ma a rubare la scena (si fa per dire) è Gremin, il quale, dopo avere tolto alla moglie le scarpe, le massaggia i piedi. Anche qui l’ironia critica nei confronti del mondo piccolo borghese è veicolata rozzamente, per non dire altro.

Così come rozza, oltre che incolore e poco meditata, è apparsa la condotta musicale della serata, affidata al maestro Pietari Inkinen, il quale si è distinto per i preludi lutulenti, alcune sottolineature ai confini della parodia involontaria (gli ottoni strombazzanti che enunciano il tema dell’amore di Tatiana alla chiusa della scena della lettera) e una generale incapacità di tenere assieme orchestra e cantanti nei passi concertati (quartetto e coro d’introduzione al primo atto, scena della festa e primo quadro del terzo atto).

Ancora peggio i solisti, capeggiati dal capofila dei cosiddetti declamatori in salsa british, Simon Keenlyside, che nella scrittura tutto sommato agevole di Onegin esibisce voce fibrosa, prossima al parlato nel registro grave (in cui talvolta “affonda” con esiti esilaranti, ad esempio all’ultimo colloquio con Tatiana), dura e malferma sui radi mi bem e fa acuti previsti dalla parte. Come possa questo cantante sostenere le parti verdiane, che insistono generalmente una terza sopra la tessitura di Onegin e sono ben altrimenti onerose quanto a magniloquenza espressiva richiesta e spessore orchestrale coinvolto, è un mistero che ben volentieri demandiamo ad altri e passiamo alla deputata Tatiana. Nell’aprile dello scorso anno così scriveva Domenico Donzelli all’indomani di una Turandot scaligera. Impresentabile, meritevole di protesta se la gestione artistica tale fosse, di fischi da parte del pubblico, se questo non fosse il medesimo che ha applaudito il feretro di Villazon, e di riprovazione della critica, se la medesima non preferisse da tempo criticare il comportamento del pubblico, la signora Ekaterina Scherbachenko nei panni di Liù. Non canta con il suono proiettato, non ha un timbro spontaneamente decente, appena sale emette pigolii in luogo della voce. Le frasi topiche di Liù “perché un dì nella reggia m’hai sorriso”, la chiusa di “signore ascolta”, il “principessa l’amore” e il “per non vederlo più” mostrano, infatti, suonini malfermi e fiato corto. Una autentica vergogna, altra e più significativa parola non si dà. Non facciamo i totocast, ma un paio di Liù di miglior qualità si trovano a pochi metri dal teatro, in teatri limitrofi. L’ascolto della Tatiana monacense conferma e rafforza quelle annotazioni, qui impreziosite da un bel bercio sul si naturale, al finale dell’opera.

Dolenti note anche dal Lenski, Pavol Breslik, già improbabile Alfredo e Gennaro al fianco della signora Gruberova, qui in costante affanno e impossibilitato a esprimere la tenerezza e l’elegia dell’infelice poeta, vuoi per le dementi scelte registiche, vuoi per la voce chévrotante e precaria specialmente nella zona del secondo passaggio, e per l’incapacità di esibire un legato degno di questo nome. Legato che è parimenti estraneo ad Ain Anger, tubato e gutturale, dal timbro precocemente senescente, che dopo avere rivestito i panni, o meglio, la canottiera dell’arbitro alla scena del duello indossa con eguale assenza di proprietà quelli dello stagionato consorte di Tatiana. Malferma e ingolata anche l’Olga di Alisa Kolosova, al pari degli altri comprimari, fra i quali spicca la balia di Elena Zilio, ormai votata al teatro di prosa.

Concludiamo questo resoconto con una ricetta di cosiddetta nouvelle cuisine, che sarà di sicuro apprezzata dagli estimatori della produzione bavarese, e con un frammento di storia del varietà italiano, altrettanto ammiccante rispetto ai balletti di ieri sera ma decisamente più riuscito, anche sotto il profilo della coordinazione tra musica e danza.

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2 pensieri su “Onegin da Monaco e le scuse non richieste.

  1. ho visto e ascoltato in streaming una recita di scarso valore voci improponibili,a parte un pò il soprano all’inizio e nella scena della lettera,per me penalizzata da una scenografia assurda,e scema,
    l’ambientazione delle scene sinceramente fuori luogo per la musica e trama dell’opera,ridicolo il balletto da discoteca sulla musica dell’opera,non sò se si può parlare di pari oppurtunità,a me certe scene erano da icona gay,comunque certi boy in mutante e perizoma avranno fatto felice le signore in sala(magari anche davanti al computer) l’orchestra per me pur non essendo stata ottima ha salvato la recita. Ma gli scenografi non fanno mai sciopero?

  2. Ho visto la registrazione a casa di amici. Una recita perfettamente rappresentativa dei tempi attuali. Ormai l’ ignoranza nel campo della vocalità regna sovrana..Nei teatri e nel web c’ è gente che gira da una vita con le fette di prosciutto sulle orecchie e l’ osso del medesimo al posto dei neuroni.

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