Verdi Edission: I lombardi alla prima crociata

Strana opera “I lombardi alla prima crociata”.
Spesso con i miei amici melomani ci siamo ritrovati a far battute sulla drammaturgia di questa quarta fatica verdiana composta appositamente per Merelli ed il Teatro alla Scala:
”Se si eseguisse al contrario o le scene venissero assemblate a casaccio, non cambierebbe assolutamente nulla nella trama!”.
A parte gli scherzi o la facile ironia, non dobbiamo dimenticare che è Verdi stesso con la sua musica a rendere credibile e immediato questo improbabile “gran bazar” di colpi di scena e di insistiti effetti teatrali, costruito, cioè, su omicidi, rapimenti, conversioni, crociate fratricide, cristiani infingardi e musulmani ragionevoli, cristiani ragionevoli e musulmani infingardi, morti che ritornano, apparizioni e sparizioni, scene di delirio, cori osannanti, cori belligeranti, etc.
Eppure  non è affatto un caso se Verdi scelse personalmente questa trama come canovaccio.
Dopo l’unanime trionfo del “Nabucco”, opera rivoluzionaria e di rottura, il compositore aveva bisogno di qualcosa che dovesse necessariamente cementare il suo talento, ma, con furbizia senza dubbio, non si discostasse troppo nei temi e nel linguaggio dall’opera che gli aveva portato tanta fortuna e aperto le porte dell’ambita vita culturale e mondana di Milano, rappresentata dal frequentatissimo salotto dei conti Maffei.
Ambiente questo che gli permise di essere accolto tra i grandi nomi della cultura e delle arti, ma anche, in maniera più frivola, di diventare intimo amico e confidente della cara contessa Clara Maffei e corteggiatore di certe gran dame della Milano mondana (la contessa Samoyloff, la Appiani, la Morosini) e di certe cantanti giovani e famose come la Tadolini, o la bellissima Erminia Frezzolini, destinata ad essere la creatrice di Giselda e Giovanna d’Arco, tanto da scatenare la gelosia del consorte, il tenore Antonio Poggi.
Non è un caso, dunque, se con l’aiuto del fidato librettista Temistocle Solera, Verdi prese in prestito la trama da un fluviale e bislacco poema di Tommaso Grossi “I lombardi alla prima crociata” del 1826.
Il Grossi possedeva il pregio di incarnare una figura molto cara a Verdi: ovvero l’intellettuale e  letterato antiaustriaco, anticlericale, liberale, ma innegabilmente intriso di spirito romantico, dotato di un linguaggio verace e immediato nonostante i non marginali peccati di ampollosità, incoerenza e annegasse nei non pochi rimandi al Manzoni ed al Tasso; possedeva però una grande potenza epicheggiante nella descrizione delle grandi masse corali, una intrigante gestione della trama politica in primo piano, che poteva complicarsi attraverso la persecuzione degli amorosi, ed un generale tono religioso non privo di una vena polemica, che tanto piacevano a Verdi.
Nonostante la trama potesse far storcere il naso alla censura, solerte nell’identificare le metafore antiaustriache ed i riferimenti risorgimentali contro un popolo invasore, l’ intricato, frammentario, iper-patriottico, a tratti macignoso libretto de “I lombardi” venne accettato a patto che Verdi sostituisse la parola “Ave dell’ “Ave Maria” del primo atto intonata da Giselda, in odor di scandalo e blasfemia perché pronunziata in un contesto teatrale, in un più morigerato “Salve Maria” che il compositore corresse di suo pugno (e che si prenderà tremenda vendetta con la medesima preghiera nell’ “Otello” qualche decennio dopo!)
L’11 febbraio del 1843 “I lombardi alla prima crociata” andarono in scena sul palcoscenico del Teatro alla Scala con il seguente cast: Arvino – Giovanni Severi,  Pagano – Prospero Derivis, Giselda – Emilia Frezzolini, Oronte – Carlo Guasco.
L’opera venne replicata per ben 27 serate, bissando il grande trionfo del “Nabucco”. Forse fu proprio la fama dell’opera precedente e le somiglianze dei temi trattati ad aiutare l’esito della serata e delle successive repliche; forse il crescente entusiasmo sia del pubblico risorgimentale, sia di Niccolò Tommaseo nei confronti del giovane Verdi contribuirono non poco; eppure la critica, sia italiana, sia francese, si dimostrò ostile nei confronti di Verdi accusando la musica di essere rozza e bandistica, oltre che ben poco originale. Felice Romani rimproverò aspramente la qualità e la scarsa compattezza del libretto di Solera, al quale dovette sembrare miracoloso l’essere riuscito, costandogli fatiche inumane, a condensare il poema del Grossi, saturo di avvenimenti e personaggi, in soli quattro atti.
Mentre il pubblico continuava ad applaudire, ascoltare, attendere la vendita dei biglietti con file interminabili, addirittura scatenando tafferugli pur di assistere a “I lombardi”, anche in altre piazze europee e americane dove l’opera ebbe immediata diffusione, e la critica era impegnata a demolire la nuova creazione del compositore, Verdi, su suggerimento della fedele Strepponi ormai ritiratasi e prossima a diventare sua compagna, riusciva a strappare al Merelli la stessa cifra che Bellini ottenne per la “Norma” per il pagamento della commissione, mentre la partitura veniva dedicata, per la seconda volta dopo l’ “Oberto” alla benefattrice Maria Luigia di Parma reggente del ducato.
Successivamente l’opera venne scelta da Verdi per il suo debutto all’Opéra di Parigi nel 1847: ne riadattò il soggetto per renderlo più omogeneo e credibile, e ricompose intere pagine dell’opera, offrendo un prodotto del tutto nuovo, con titolo diverso, “Jerusalem”; ma avrà solo un successo di stima.

 

Una breve introduzione, un Adagio, che nell’alternanza contrastata di legni, ottoni, archi e fiati disegna probabilmente certi temi legati alla ambigua figura di Pagano, ci porta in piazza S. Ambrogio nella Milano del 1095.
Accompagnati dal suono della banda, i cittadini assistono alla riconciliazione tra Arvino e Pagano di ritorno, quest’ultimo, dall’esilio; il tono generale della scena è sospeso, ricco di nefasti presagi e cadenzato dagli archi e dai racconti del coro, il quale spiega i retroscena dei crimini commessi dal fratello degenere e le motivazioni del ritrovato affetto familiare.
L’orchestra si frammenta: mentre Pagano complotta con il fidato Pirro su uno sfondo composto da cimbasso, ottoni e fagotti, il coro e gli altri personaggi in scena, per contrasto, vengono cullati da una alternanza di archi, dal suono dei corni e del clarinetto, sottolineando anche a livello strumentale e, con la riuscita differenziazione delle frasi del basso-baritono rispetto al contesto melodico e canoro, il clima sinistro che incombe sulle future azioni che questa pace causerà.
La decisione immediatamente successiva di partire per l’annunciata crociata reintroduce il suono tamburellante della banda, su un ritmo Allegro Vivace, unificando anche in tonalità il canto di tutti i personaggi e del coro, allontanandosi così dalla voluta e raffinata asprezza della scena precedente.
Cala la notte e dolcemente corni, clarinetti e fagotti, nel loro imitare il suono dell’organo, come prescritto dal compositore, sostengono le litanie fuori scena delle suore di clausura (“A te nell’ora infausta”) al termine delle quale irromperà Pagano accompagnato dalla sua aria “Sciagurata! Hai tu creduto” dedicata all’amata e perduta Viclinda: aria spinosa per il cantante che non possiede un ottimo controllo oltre che della linea vocale, della propria estensione, da basso-baritono più che da basso vero e proprio, ed una timbratura necessaria a coprire i salti verso l’alto e gli sconfinamenti nel registro grave, in più, a parte l’espressione, grande cura deve essere ottenuta dall’esattezza delle acciaccature e dalla musicalità visto il duello che la voce deve innescare con gli archi in orchestra non è cosa da poco.
Dopo l’arrivo dei seguaci di Pagano e la ripresa del coro delle monache sullo sfondo, il basso-baritono attacca la cabaletta “O speranza di vendetta”, quasi una visionaria, delirante polacca in cui la diabolicità del personaggio è resa ancora più esposta.
Intanto, nelle stanze del palazzo di Folco, padre di Arvino e Pagano, dopo un breve dialogo di saluto e di promesse tra Arvino, Viclinda e Giselda, quest’ultima intona la magnifica “Salve Maria”: l’organico è ridotto all’osso (archi, flauto, clarinetto), un sottile gioco di cadenze e armonie, di tremoli solenni e dolcissimi, mentre il canto tutto rigorosamente legato e coronato da forcelle che invitano ad assottigliare i suoni vorrebbero una voce pura, eterea, timbratissima che sappia giocare con il velluto raccolto del registro centrale, con un passaggio reso facile e con acuti cristallini e pieni di slancio.
Qui apriamo una parentesi: il personaggio di Giselda, così come Giovanna d’Arco, è stato composto, pensato, costruito in base alle strabilianti virtù vocali della Diva Erminia Frezzolini, avvezza ad alternare ruoli drammatici del calibro di “Beatrice di Tenda” (Bellini) Anna Bolena, Borgia (Donizetti) e più in la anche il secondo Verdi, a eroine dall’afflato più lirico e astratto come Elvira nei “Puritani”, Lucia di Lammermoor, alcuni ruoli di Mercadante e Catelani scritti appositamente per lei.
Giselda è parte pestifera come poche nel primo Verdi: l’estensione è riassumibile dal Re sotto il rigo al Re sovracuto, ma il baricentro è tutto spostato verso i registri centro-acuto; il passaggio di registro è costantemente sollecitato mentre la prima ottava, in cui la Frezzolini risultava vuota, viene destinata a poche frasi o a, determinati vocalizzi discendenti nei momenti più aspri.
La coloratura si fa fitta e complessa nel rondò del secondo atto e nella polacca del quarto, e guarda senza dubbio verso certe fiorettature donizettiane, le quali si arricchiscono nella componente espressiva per mezzo di continue richieste di declamare e legare, di smorzare i suoni grazie alle forcelle, o rinforzarli in fortissimi di grande impatto drammatico. Quindi è necessaria una voce sicuramente lirica, ma dall’accento incisivo, dall’emissione robusta, dotata di un ottimo controllo del fiato, ottima duttilità nella coloratura, ma anche capace di un canto a fior di labbro flautato e intenso nei momenti più lirici e raccolti.
Ma torniamo all’opera.
Nel finale del primo atto, con il ritorno in scena di Pagano l’orchestra torna ad essere spigolosa, sinistra nel consueto ondeggiare degli archi e delle trombe: l’uomo ha ucciso per errore il proprio padre e la stretta dell’orchestra nel concertato finale che conclude il primo atto lo condanna senza appello.

Nel secondo atto ci trasferiamo definitivamente in medio oriente, in Antiochia nel palazzo di Acciano.
Godibile risulta il dialogo tra il sovrano ed i suoi ambasciatori, soprattutto perché si sottolinea la condotta violenta e feroce dei crociati, che teoricamente dovrebbero essere i “buoni” con cui identificarsi. Una voluta ambiguità drammaturgica, che crea certamente confusione, ma ha il pregio di sollevarsi come feroce e autentica critica ecclesiastica e politica non da poco.
Musicalmente Verdi non separa il mondo dei crociati da quello dei musulmani; non padroneggia ancora la raffinatezza sofisticata che ascolteremo in “Aida, utilizza, come suggerisce Budden, ritmi tronchi e seste napoletano onde creare almeno una ambientazione più variegata.
Sgomberato il palcoscenico,  facciamo la conoscenza di Sofia, moglie di Acciano e convertita al cristianesimo, e del figlio Oronte: segue un breve dialogo tra i due che ruota intorno alla bella prigioniera Giselda di cui il ragazzo si è innamorato.
Su un Andante soffice, ma mai lezioso, Oronte ha il privilegio di cantare una tra le pagine più ispirate dell’opera: l’aria “La mia letizia infondere”.
Si tratta di brano in cui la voce si deve abbandonare ad una declamazione poetica, e nel contempo cadenzata, che insiste nel registro centro acuto coinvolgendo a più riprese il passaggio di registro, in cui le forcelle aiutano il canto ad essere poetico ed a sposarsi alla melodia dipinta dal flauto e dal clarinetto.
Segue la cabaletta “Come poteva un angelo” in cui è richiesta alla voce maggior forza d’accento, più espressività, maggiore passione; eppure la scrittura prescrive frasi maggiormente legate ed un uso fittissimo di forcelle onde sfumare il più possibile, le cadenze vanno risolte con grazia, mentre l’estensione non viene affatto superata (il limite è il La naturale) e l’orchestrazione diventa più incisiva grazie ad un utilizzo più frizzante degli archi.
Cambia la scena e veniamo catapultati sui monti dell’Antiochia nei pressi di una caverna.
Ritroviamo Pagano, divenuto eremita per espiare le proprie colpe.
Attende di unirsi ai crociati o un segno dal cielo e lo spiega nel lungo recitativo in cui Verdi riprendendo alcuni temi legati a Pagano e già ascoltati nel preludio o nel primo atto, li associa allo sfondo musicale fino ad intonare l’aria “Ma quando un suon terribile”schematicamente gemella di quella del primo atto quanto a difficoltà nel reggere gli slanci melodici eppure più solenne e composta.
L’arrivo di Pirro prima e di Arvino ed i crociati poi, che ovviamente non riconoscono Pagano, fa cambiare tutto il tono della scena attraverso chiare allusioni a certe grandiosità tipicamente rossiniane, soprattutto per la ricchezza armonica degli archi e la maestosità dell’accompagnamento della marcia militare che sfocia in un concertato dall’esito più effettistico che veramente marziale.
Torniamo nel palazzo di Acciano.
Giselda è prigioniera nell’Harem, attorniata da un coro di schiave che si prende gioco della sua
disgrazia ne “La bella straniera”, brano cadenzato da una serie di acciaccature e di trilli dei legni ma gestito con la leggerezza e la levità di un balletto.
Abbandonata dalle schiave Giselda ripensa alla madre defunta in “Se vano è il pregare” aria che si estingue nel melismo, ma soprattutto nelle cadenze della prima parte e della ripresa piuttosto impegnativa nel sollecitare il registro acuto e sovracuto, fino al Re naturale, per poi discendere alle note sotto il rigo.
Con l’arrivo di Arvino, giunto per salvare la figlia, e la notizia che Sofia ha visto i suoi cari trucidati dai crociati, la situazione precipita.
Giselda,“come colpita da demenza”, prorompe in un rondò “No!.. Giusta causa, non è d’Iddio” su un tempo Allegro Moderato, da esordire sottovoce declamando, fino ad esprimere la propria follia a voce spiegata rinforzando il suono e marcando l’accento. Con la seconda strofa i salti verso l’acuto si fanno più fitti, le cadenze più martellanti, il passaggio è sollecitato costantemente, per poi affievolirsi nella ripetizione di una nota soltanto durante la profezia terribile sul destino dei crociati, per poi ripetere seguendo lo schema precedente la ripresa, ma con la richiesta di essere più mossa e varia. Una autentica maratona vocale per testare la robustezza ed il controllo del fiato della primadonna, che culmina in un breve concertato in cui la voce deve ancora svettare come una lama.

Con commozione si apre il terzo atto grazie al grandioso coro dei pellegrini che attraversano la valle di Giosafat e inneggiano, colmi di fede, a Gerusalemme mentre un tessuto fatto di oboi e clarinetti sostiene l’eleganza strumentale del canto fino alle battute finali in un continuo dialogo tra palco e golfo mistico.
Alla scomparsa del coro, finalmente i fuggiaschi e amanti Giselda e Oronte, creduto erroneamente morto ed ora in veste di crociato, si ritrovano per la prima volta ed intonano finalmente un appassionato e disteso duetto d’amore su un tempo Allegro che si tramuta in un affettuoso Andantino e culminante nella doppia cabaletta “Sol morte nostr’alme divida”  dal bel virtuosismo.
Un’orchestra plumbea e dal colore drammatico definisce lo stato d’animo di Arvino il quale maledice la figlia poiché fuggita con Oronte e l’Eremita/Pagano.
Segue a questo punto il magnifico assolo per violino suddiviso in tre momenti: un preludio cadenzato, un andante cantabile, una coda più elegante e fiorettata, brano dal virtuosismo fosforescente che getta una patina carezzevole e malinconica preparando lo stato d’animo dell’ascoltatore alla scena seguente.

Il terzetto che segue è introdotto dal violino che accoglie il canto nervoso e pieno di spasimi di Giselda e quello più franto e sofferto di Oronte ormai morente.
Giselda intona “Tu la madre a me togliesti” con l’accompagnamento di archi mentre la scrittura si spezza in schegge di disperazione verso l’acuto.
Entra Pagano interrompendo il canto del soprano e introduce la scena del battesimo di Oronte sostenuto dalle evoluzioni e dalle cadenze del violino solista, che di fatto genera il magnifico terzetto “Qual voluttà trascorrere” in cui in un crescendo continuo, e nell’ardito accavallarsi architettonico di voci, archi, fiati e violino solista, si giunge al climax dell’atto con il risultato di una tensione larga commossa, magniloquente.

Giselda, nel quarto atto, rievoca il perduto Oronte attraverso una visione mistica.
Due arpe ed il coro invisibile accompagnano l’introduzione alla scena per poi lasciare spazio al canto di Giselda sul tremolo degli archi. Entra la voce di Oronte declamando “In cielo benedetto” mantenendosi su un cantabile disteso che predilige il registro centrale ed il passaggio, mentre il coro e le arpe cercano di mantenere un’atmosfera vaporosa e sospesa.
Al termine della visione Giselda può scatenare la propria gioia grazie ad una polacca di trascendentale pirotecnia –  “Non fu sogno” – in cui Verdi non ha fatto mancare nulla alla sua primadonna: fioriture, scale ascendenti e discendenti, salite all’acuto, salti, accompagnamento poderoso in orchestra con flauti oboe e archi clarinetti e tromba, il tutto portato su un tono vivacissimo.
“O Signore, dal tetto natio” rappresenta un momento di sospensione prima del finale: i crociati, i pellegrini e le donne sono allo stremo delle forze a causa della siccità e intonano una preghiera rivolta a ciò che hanno abbandonato in patria.
Il tono è sommesso, il coro deve cantare piano e quasi sussurrando fino a illuminarsi lentamente, impercettibilmente inseguito dagli archi e dagli strumenti a fiato, assottigliandosi in un sospiro che esplode inaspettatamente assieme all’orchestra solo nel finale.
Con l’arrivo di Arvino, che si aggiunge al coro, inizia la battaglia finale: grande intuizione da parte di Verdi far duellare le bande e l’orchestra in una struttura dal sapore beethoveniano attraverso l’alternanza di fortissimi e toni più lamentevoli, fino al termine dello scontro che vedrà vincitori i crociati: non senza un pegno di sangue però. Pagano viene trasportato ferito mortalmente e delirante sul campo, Giselda lo calma e finalmente rivela a tutti la sua identità; e su un cantabile attorniato da fagotti, ottoni e archi, tornano i temi delle preghiere, si aggiunge il coro, appare accompagnata dalle arpe e da un crescendo degli archi una visione lontana di Gerusalemme.
Pagano, perdonato, trova la pace.

Giuseppe Verdi

I Lombardi alla prima crociata


Atto I – La vendetta

Oh nobile esempioCoro dell’Opera di Roma, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

Qui nel luogo santo e pio…T’assale un tremito!
Mario Petri, Aldo Bertocci, Miriam Pirazzini, Maria Vitale, Mario Frosini, Bruno Franchi, dir. Manno Wolf-Ferrari (1951)

A te nell’ora infausta…Vergini! Il ciel per ora…Sciagurata! Hai tu creduto…O speranza di vendettaRuggero Raimondi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

Tutta tremante l’anima…Te Vergin Santa, invoco!…Salve MariaMaria Vitale, Miriam Pirazzini, Aldo Bertocci, dir. Manno Wolf-Ferrari (1951), Renata Scotto, Anna Di Stasio, Umberto Grilli, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

Vieni!…Mostro d’averno orribile…Va’ sul capo ti grava l’Eterno!Ruggero Raimondi, Renata Scotto, Anna Di Stasio, Umberto Grilli, Mario Rinaudo, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

Atto II – L’uomo della caverna

E’ dunque vero?
Coro dell’Opera di Roma, dir. Giananadrea Gavazzeni (1969)

O madre mia, che fa colei?…La mia letizia infondere…Come poteva un angeloLuciano Pavarotti, Sofia Mezzetti, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969), Carlo Bergonzi, Leslie Richards, dir. Maurizio Arena (1979)

E ancor silenzio…Ma quando un suon terribile…Ma chi viene…Sei tu l’uom della caverna?…Stolto Allah! Nicola Ghiuselev, Michael Langdon, Ezio Di Cesare, dir. Lamberto Gardelli (1976)

O madre dal cielo…Se vano è il pregare…No, no, giusta causaRenata Scotto, Umberto Grilli, Ruggero Raimondi, dir. Giananadrea Gavazzeni (1969), Christine Deutekom, Rico Serbo, Paul Plishka, dir. Maurizio Arena (1979), Aprile Millo, Dino di Domenico, Paul Plishka, dir. Eve Queler (1986)

Atto III – La conversione

Gerusalem…Gerusalem…Coro dell’Opera di Roma, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

Dove sola m’inoltro…O belle, a questa misera
Renata Scotto & José Carreras, dir. Eve Queler (1972), Aprile Millo & Carlo Bergonzi, dir. Eve Queler (1986)

Che vid’io mai?Umberto Grilli, Coro dell’Opera di Roma, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

Qui posa il fianco…Qual voluttà trascorrere
Renata Scotto, Luciano Pavarotti, Ruggero Raimondi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969), Aprile Millo, Carlo Bergonzi, Paul Plishka, dir. Eve Queler (1986)

Atto IV – Il Santo Sepolcro

Vedi e perdona…Componi, o cara vergine…In cielo benedetto…Qual prodigio!Paul Plishka, Rico Serbo, Carlo Bergonzi, Christine Deutekom, dir. Maurizio Arena (1979)

O Signore, dal tetto natio
Coro del Teatro dell’Opera di Roma, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

Il cielo ha le preghiere….Questa è mia tenda…Dio pietoso!Renata Scotto, Umberto Grilli, Ruggero Raimondi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1969)

8 pensieri su “Verdi Edission: I lombardi alla prima crociata

  1. Viste le carenze musicali e drammaturgiche di quest’opera – come ben sviscerate dalla solerte Marianne – preferisco di gran lunga Jerusalem, opera che meriterebbe una maggiore presenza nei cartelloni dei teatri.

  2. caro davide, ma jeruselem ,che mi piace moltissimo, ha un difetto capitale la parte di gaston scritta per il declinante duprez, che prevede la grandiosa scena di degradazione oltre al resto e quella la sapevano cantre solo i 78 giri tipo esclais, dalmores, affre, tamagno!

  3. Jerusalem è musicalmente superiore, certo, ma I Lombardi sono più ruspanti e coinvolgenti. Cioè, il foie gras è una delizia paradisiaca, ma ogni tanto vien voglia di un buon culatello! E poi – a dirla tutta – le origini “umili” di Jerusalem, pur se nascoste da spezie raffinatissime, saltan fuori spesso… Una gran dama col trucco sbavato, che fa rimpiangere la fresca e semplice contadinetta.

  4. Concordo con tutti voi, poichè anche io amo moltissimo Jerusalem, ma, come dice Duprez, i Lombardi sono più coinvolgenti. E’ altresì vero che i teatri, come dice Davide, sembra conoscano di Mozart solo le Nozze e Don Giovanni, di Verdi solo Aida, Don Carlos e Traviata e di Puccini solo Turandot e La Boheme, per carità, immensi capolavori, ma credo che bisognerebbe allestire anche opere e compositori “minori” (solo di conoscenza), come ad esempio un bell’ Axur re D’Ormus di Salieri, di gran lunga musicalmente superiore alla noiosissima e banale Europa Riconosciuta, e del quale abbiamo solo una misera registrazione con la Mei…vi lascio dedurre il resto.

  5. Come sempre, grazie per questa VERDI EDISSION.

    Ma ho due problemi con gli ascolti. Non posso ascoltare:

    1) E ancor silenzio…Ma quando un suon terribile…Ma chi viene…Sei tu l’uom della caverna?…Stolto Allah! – Nicola Ghiuselev, Michael Langdon, Ezio Di Cesare, dir. Lamberto Gardelli (1976)

    2) O madre dal cielo…Se vano è il pregare…No, no, giusta causa – Christine Deutekom, Rico Serbo, Paul Plishka, dir. Maurizio Arena (1979)

    Sarebbe fantastico poterlo fare. Grazie e saluti da Barcellona.

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