Seduzione al convento, ottava puntata. Le belle del Met

Il Metropolitan di New York ha sempre amato e proposto, negli anni, con congrua frequenza la Manon di Massenet. Ha ugualmente amato, sia pure non in via esclusiva, una tipologia di cantanti, che potremmo raccogliere sotto l’etichetta di “belle del Met”. Non intendiamo ovviamente parlare di una Steber o di una Leontyne Price, che erano grandi cantanti prima e più ancora che donne di grande fascino, ma di quelle cantanti, dal cursus honorum prevalentemente statunitense, che erano, oltre ogni considerazione canora, donne avvenenti, o almeno eleganti, capaci di ben figurare in scena e di applicare all’opera il glamour tipico delle star hollywoodiane: non a caso molte di loro, a partire dalla capostipite Geraldine Farrar (dolorosamente esclusa dalla puntata per mancanza di registrazioni del suo San Sulpizio, cantato a New York, fra gli altri, al fianco degli abati Caruso e Jorn) ebbero anche una carriera cinematografica. Un teatro, per storia e tradizione sempre attento alle ragioni del botteghino, non di rado parallele a quelle dell’arte, non poteva che riservare congruo spazio a queste cantanti, nella certezza di ottenerne adeguato riscontro anche pubblicitario. Come si vede, certe tendenze, o tentazioni, di marketing non sono certo un’invenzione del nostro presente. Predominava allora, in compenso, una maggiore onestà, una più spiccata prudenza, indubbiamente anche una diversa considerazione del pubblico, del rispetto che gli è dovuto e delle reazioni che un venire meno del suddetto rispetto poteva, e in alcuni casi ancora può, scatenare. Le “belle del Met” non erano insomma proposte in titoli, quali Anna Bolena, Puritani o Sonnambula, e non si sprecavano per loro recensioni allo sciroppo condite da improbabili paragoni con i fantasmi del passato, remoto o recente. Piuttosto, prediligevano, e con loro il pubblico, ruoli quali Mimì, Violetta, Gilda, Nedda, Margherita del Faust, qualche cauta Butterfly, l’oggi negletta Mignon e ovviamente, la Manon di Massenet, che scorciata della scena del Cours-la-Reine offre la sintesi perfetta delle caratteristiche richieste alle cantanti in questione: un timbro piacevole, se non di assoluta qualità, un buon registro centrale, magari a prezzo di qualche acuto un po’ al limite e, ovviamente, una congrua dose di temperamento scenico. Anche un discreto tonnellaggio vocale era comunque consigliabile, atteso che le signore potevano trovarsi ad affrontare una Bohème al fianco del suddetto Caruso, o magari di Gigli, Martinelli, e perché no Di Stefano, Bjorling, Corelli e Tucker.
Segnaliamo non senza una punta di soddisfazione come il presente appuntamento a San Sulpizio smentisca la fola che vorrebbe quelli del Corriere della Grisi intenti ad adorare ciecamente, e quel che è peggio sordamente, i cimeli del passato, esaltando e idolatrando i cantanti defunti in quanto defunti, e non in quanto cantanti. Ebbene, si ascolti Anna Moffo e si avrà la perfetta dimostrazione dei funesti risultati che produce una voce tubata in prima ottava: acuti ora calanti, ora crescenti d’intonazione, difficoltà nella tenuta del legato, incapacità di cantare piano e legato, suoni duri e striduli ove si oltrepassi il mezzoforte. E tutto questo a onta di una dote vocale di indubbia qualità, che permette comunque alla signora di spiccare sul suo partner, ugualmente in difficoltà dal punto di vista tecnico, con le salite al si bem acuto di “que le ciel n’avait fait durable” e “ainsi que de mon coeur” che si tramutano in altrettante repliche dell’ascesa al Calvario. Ascoltare per ogni opportuno confronto come la medesima scena venga risolta da cantanti di assai minore attrattiva timbrica, ma più salda quadratura tecnica, come Richard Tucker (che mai ebbe occasione di cantare l’abate Des Grieux al Met) e Dorothy Kirsten. Complice anche una maggiore castigatezza d’accento, la Kirsten riesce a trasformare fiati non sempre di esemplare lunghezza in una risorsa espressiva, enfatizzando all’inizio della scena la simulata timidezza e l’apparente sottomissione del personaggio, per poi scatenarsi alla successiva evocazione dell’amore passato, con abbondanza di smorzature in zona mi3-fa4, la più propizia della propria voce. Smorzature che appaiono tanto più notevoli, ove si consideri che la signora aveva in repertorio Tosca e Manon di Puccini, personaggi in cui, e il presente recentissimo ce lo ricorda, siamo ormai disabituati a udire effetti vocali, che non siano dettati dal caso e dall’imperizia. Quanto al tenore, al di là dell’ovvia sicurezza in acuto e dello squillo sempre impressionante, a colpire è una frase apparentemente anodina come “vous êtes sortie enfin de ma mémoire ainsi que de mon coeur”, in cui allo slancio dell’asserito oblio succede il “martellato” inserito sulle ultime tre parole, a rendere i singhiozzi repressi dell’abate, che ancora ama, a proprio dispetto, la sciagurata tentatrice.
Come una leonessa arriva al convento parigino Grace Moore, e ha pochissimo della penitente benché simulata, presentandosi fin dalle prime battute come una consumata mondana ben decisa a strappare agli altari quella che considera una propria preda. Eppure non udiamo nel canto della Moore le “svaccate” in prima ottava, che oggi vengono contrabbandate per temperamento e somma arte interpretativa. Sentiamo per contro un registro acuto di notevole impatto, per bellezza e capacità di penetrazione: la voce assume, in quella zona, un tonnellaggio quasi da lirico spinto, o almeno questa è l’impressione prodotta dal broadcast. Il limite di questa Manon è nella dizione, non cristallina: singolare per una cantante che aveva fatto di un ruolo da dine dicitrice come la Louise di Charpentier uno dei pilastri della propria carriera.
Fedeli a un’immagine meno aggressiva, e in ogni senso più prudente, del personaggio risultano Bidù Sayao e soprattutto Lucrezia Bori, qui proposta nel suo addio alle scene del Metropolitan, al termine di una carriera quasi trentennale, buona parte della quale trascorsa nella sala newyorkese. Entrambe dimostrano un controllo del fiato, oggi assolutamente ignoto alle signore e signorine che nei massimi teatri del mondo affrontano i ruoli principali di quello che fu il loro repertorio. Si prenda la Sayao, a tratti enfatica nel registro grave e in generale un po’ troppo civettuola per la circostanza drammatica, nella perorazione “N’est-ce plus ma main”: si ascolterà una voce capace di cantare piano e legato, dando senso alle frasi e caricandole di seduzione che si studia di risultare innocente e candida, ma lascia intravedere, quasi a malincuore, una femminilità debordante, anche perché la voce di soprano leggero (avvezza alla Rosina del Barbiere come a Norina e Adina) è davvero di qualità. Quanto all’esecuzione della Bori, impressiona in primo luogo per il tempo adottato dal direttore (di certo su richiesta della primadonna: era il galà di congedo dal Metropolitan e nessuno, verosimilmente, avrà osato opporsi ai desiderata della signora circa la condotta musicale della serata), bello comodo, quasi ostentatamente lento, e per la scelta di cantare tutto sottovoce, con abbondanza di rallentando e smorzature quasi a ogni frase, fin dal “moi” iniziale. Certo, alcuni suoni in alto risultano di peregrina intonazione, ma questa Manon “al tramonto” denuncia appunto solo nel registro acuto i propri anni, evidenziando per contro un timbro fresco e cristallino, che potrebbe facilmente essere scambiato per quello di una cantante in piena carriera, se non proprio esordiente. Una caratteristica comune, e lo abbiamo visto di recente, a molti soprani leggeri, che siano maturati in maniera ideale. Con la non trascurabile differenza che Lucrezia Borja in arte Bori aveva in repertorio, oltre a Mimì, la Manon di Puccini e Cio-cio-san!

 

Gli ascolti

Massenet – Manon

Atto III

Toi! Vous!…N’est-ce plus ma main

1936 – Lucrezia Bori, Richard Crooks

1940 – Grace Moore, Richard Crooks

1943 – Bidu Sayao, Charles Kullman

1955 – Dorothy Kirsten, Richard Tucker

1963 – Anna Moffo, Nicolai Gedda

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