Macbeth a Bologna

Il Comunale ha inaugurato la sua stagione 2013 con una nuova (ça va sans dire) produzione del Macbeth verdiano. Nuova produzione affidata al genio immaginifico di Robert Wilson, che per offrire al pubblico felsineo i parti della propria fantasia (di fatto identici a quanto già proposto altrove in titoli verdiani e non solo) ha di fatto dimezzato la capienza del locale loggione: il settore centrale è stato infatti occupato da numerosi e sonori (più di alcuni solisti) riflettori, cui spettava la definizione dei diversi ambienti della vicenda, non essendo presenti in palcoscenico arredi scenici o accessori propriamente detti. Abbiamo quindi assistito alla solita messiscena wilsoniana a base di cantanti dal viso di cera, ingessati in abiti/paramenti quasi identici, ingoffiti da maschere similferine e/o costretti a movenze stilizzate e diagonali, mentre la gestione o per meglio dire, la non gestione delle masse richiamava certi spettacoli egualmente passé di Pier’Alli, anch’essi caratterizzati da luci caliginose, tubi al neon, opalescenze molto arty ma inadatte a rendere il clima di fosca e sovrannaturale tragedia che dovrebbe caratterizzare il dramma dell’ambiziosa ascesa e rovinosa caduta dell’usurpatore scozzese. I fischi che hanno accolto la sera della prima (5 febbraio) l’apparizione al proscenio del regista e dei suoi collaboratori ci pare però francamente eccessiva, atteso che lo spettacolo, pur prevedibile e ripetitivo, in taluni punti oscuro e lambiccato, in altri bamboleggiante e innocuo (la sfilata, con tanto di giocoliere, che accompagna l’ingresso di Duncano o il balletto di Ondine e Silfidi, risolto con una coreografia che nulla ha da invidiare ai Teletubbies), ha comunque almeno un paio di momenti riusciti (l’assassinio di Banco e la scena delle apparizioni) e in generale non ostacola l’ascolto della composizione verdiana. O meglio, non più di quanto facciano in tal senso direzione musicale e solisti di canto.

Roberto Abbado, cui va dato atto di avere ottenuto da orchestra e coro (di quest’ultimo censurabile la sezione femminile in tutte le apparizioni delle streghe) una prova più compatta e solida rispetto al Trovatore dello scorso dicembre, al pari di Wilson non sa o non vuole cogliere la dimensione oscura e demoniaca della musica, anche e soprattutto con riferimento alla diabolica coppia protagonistica, e questo fin dal preludio: nessuna tensione nell’enunciazione del tema delle streghe, un clima da melopea pastorale per quello del sonnambulismo, che del dramma dovrebbe essere la chiave di volta. Le scene d’assieme sono gestite con qualche fragore di troppo e sporadici sbandamenti, specie nel terzo atto, mentre il coro “Patria oppressa”, pur con begli effetti nell’introduzione orchestrale, risuona un po’ troppo dimesso e privo della magniloquenza che dovrebbe essergli propria. In compenso al finale secondo (goffa e pesante la seconda strofa del brindisi, staccata con un tempo slentato, di un grottesco che ci auguriamo essere preterintenzionale) e in generale in tutte le scene “di colore” (interventi delle streghe, con la sola eccezione della chiusa della scena delle apparizioni, corteo di Duncano, coro dei sicari) la brillantezza risulta decisamente meccanica e non riesce a nascondere i limiti di un’ispirazione musicale non sempre all’altezza delle pagine migliori dell’opera. Del resto, a dispetto del massiccio impiego del coro, “Macbeth” resta un dramma dominato dalle figure solistiche, in primis quella della signora di Glamis e poi funesta Regina di Scozia. E qui sono venuti i veri dolori, per così dire, della produzione bolognese.

Nei panni della protagonista femminile si alternavano Jennifer Larmore e Anna Pirozzi. Alla prima va riconosciuta una sola attenuante, quella di essere giunta al penultimo minuto a sostituire l’annunciata (nel programma preliminare della stagione) Tatiana Serjan. Peraltro non si trattava di un debutto, perché la Larmore aveva già affrontato lo scorso anno a Ginevra la parte della diabolica consorte di Macbeth. Bis repetita iuvant: ecco un’occasione che smentisce il proverbio. Giunta al capolinea di una carriera principalmente dedicata al repertorio rossiniano (e la signora sembra volercelo ricordare al da capo della cabaletta “Or tutti sorgete”, proponendo parche variazioni che sono per lo più maldestri raggiusti, ad es. alle parole “non vegga il pugnal”), sempre affrontato con emissione poco stilizzata e quindi gravi caricaturali, agilità approssimative, dizione morchiosa e tutto il corollario di quella che un critico ebbe a definire “la scuola del farfuglio”, Jennifer Larmore approda a uno dei più aspri cimenti del primo Verdi con vocina da soprano di coloratura, ormai acciaccata e scorciata, rumorose riprese di fiato, incapacità di legare i suoni in fascia centrale, prima ottava sorda, acuti indietro, strillati e fischianti. Insomma, una vera e propria caricatura. Paradossalmente (ma forse no) la nota più sonora, sebbene del pari gridacchiata, è il re bem sovracuto che chiude la scena del sonnambulismo, rivelatrice della vera natura vocale della signora, scambiata (ma sarebbe più corretto dire: spacciata) per contralto in forza del gusto tipicamente moderno per le voci basse di posizione, ingolfate e artificiosamente oscurate a simulare il colore e la consistenza della voce grave femminile. Non stupisce che gli altri “pezzi forti” di questo estremo repertorio della Larmore siano la contessa Geschwitz e la Sagrestana, perché è ovvio come Lady Macbeth, ruolo scritto per una cantante famosa quale Borgia e Antonina del Belisario, sia sovrapponibile alle citate e al pari di quelle, riconducibile al novero dei ruoli da caratterista, che una tradizione deteriore designa come “da recitare” più che “da cantare”. A questo punto, sarebbe preferibile, laddove il budget lo consentisse, scritturare Glenn Close o altra attrice di prosa, capace di garantire, se non altro, una più puntuale aderenza al testo poetico.

Anna Pirozzi, reduce da un fortunoso Ballo in maschera a Parma e in procinto di affrontare, nello stesso e in altri teatri, il ruolo di Abigaille, ha generosa natura vocale, che, se correttamente impiegata e regolata da adeguato metodo, dovrebbe suggerirle un repertorio affatto diverso da quello verdiano. La signora ha una bella voce da soprano lirico, da Mimì Butterfly e Manon di Massenet, e la facilità con cui sale al do sovracuto nel recitativo d’entrata fa supporre che un adeguato e costante studio potrebbe consentirle di approdare a vertici anche più elevati del pentagramma. Al pari della Larmore, la prima ottava suona vuota e i maldestri tentativi di coprire il suono in quella fascia danno luogo a grotteschi suoni tubati, che finiscono per compromettere anche la tenuta del registro centrale. Ancora in zona media l’appoggio risulta insufficiente e, quando la cantante tenta un piano, compaiono suoni pigolanti e in difetto d’intonazione, mentre gli acuti sono regolarmente spinti, spesso anche berciati. Il peso specifico dell’autentica voce verdiana e la magniloquenza che solo il canto sul fiato riesce a conferire sono del tutto estranei alla giovane esecutrice, che pasticcia le parche agilità previste al brindisi e risulta incapace di “tirare” i concertati come si conviene all’autentica primadonna ed effettiva protagonista dell’opera.

All’eroe, o se si preferisce, antieroe eponimo prestavano voce rispettivamente Darío Solari e Angelo Veccia. A parità di scarso smalto vocale, frutto in pari misura di una dote naturale non eccelsa e di una tecnica di canto, che con sciropposo eufemismo potremmo definire rivedibile (il che si avverte soprattutto in acuto, una zona in cui il ruolo insiste per buona parte della serata), è risultato migliore il primo, che aveva dalla sua almeno una certa continenza nell’espressione. In difetto di cavata ampia, fraseggio nobile e al tempo stesso grandioso, gravi timbrati e sicuri i due interpreti di Banco, Riccardo Zanellato (già claudicante nei solenni paramenti del Mosè rossiniano) e Carlo Cigni, mentre le voci più interessanti del cast maschile, Roberto de Biasio e Lorenzo Decaro, ignorando in misura quasi eguale la necessità di eseguire correttamente il secondo passaggio di registro, conferivano al prode e sventurato Macduff, segnatamente nel recitativo “O figli, o figli miei”, accenti e singulti paraveristi, ben poco consoni a un nobiluomo, seppur così duramente provato dalla sventura. I comprimari, quasi tutti provenienti dalla locale e ormai tramontata (?) Scuola dell’Opera Italiana o dalla compagine corale del teatro, si adattavano perfettamente a quanto proposto dai principali solisti di canto.

Tutto ciò premesso, appare giusto, logico e doveroso che tanto la prima rappresentazione quanto la matinée domenicale con il secondo cast (10 febbraio), e supponiamo anche le altre recite di questo “Macbeth”, siano state precedute dalla lettura di un comunicato sindacale, che, deprecando futuri tagli della spesa pubblica nel settore della cultura e dello spettacolo, rammentava al pubblico lo status di eccellenza spettante al teatro felsineo. In difetto di simili proclami, sarebbe risultato arduo accorgersene.

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26 pensieri su “Macbeth a Bologna

  1. io ho seguito alla radio dalla grande scena delle apparizioni in poi e mi é sembrata una produzione imbarazzante e sgangherata. Qualcuno sa se su youtube si può o si potrà trovare la serata completa? Così per curiosità perché mi pare che la serata abbia dell’incredibile. Grazie

  2. gli estratti del Sig. Dino Crociani scaricati su youtube danno un’idea migliore di quello che dev’essere stato l’ascolto dal vivo perché su radiotre la ripresa era terribile. Il coro femminile, le voci soliste -così in primo piano- erano terribili. Certo la Larmore ci esce male cmq (stonate micidiali, prima variazione nel da capo della caballetta che sembrava una macchia di ketchup sul cravattino della prima comunione, ecc.) però l’orchestra la copriva quel tanto da rendere meno evidenti le sue disomogeneità (che peraltro ha sempre esibito), le asprezze e i bamboleggiamenti da sopranino più che da Lady. Ma chiedo a voi che ne sapete molto più di me (scherzo ovviamente), la Larmore ha sempre cantato nel primo decennio del duemila? E’ stata una riapparizione dopo un’interruzione di carriera? Tamburini riferisce due ruoli in cui si era “specializzata”. Mi sapreste dire qualcosa di più. La Larmore confesso, nella seconda metà degli anni novanta non mi dispiaceva e anche il suo Barbiere alla Scala non lo trovai male (disomogeneo ma vocalizzato discretamente. Il personaggio aveva un certo brio e l’artista una qualche disinvoltura). Poi in disco il suo Giulio Cesare mi parve buono e assai migliore di quello della Murray (correttino ma un po’ anonimo e insipido) che per anni in Germania é andato per la maggiore. Anche il suo Arsace tenuto conto di chi l’aveva preceduta (Horne, Valentini e Dupuy) era comunque ascoltabile. Insomma dopo tutto ‘sto tempo la ritrovo inaspettatamente nel Macbeth. Qualcuno ne sa qualcosa?

    • Certo la Larmore degli anni ’90 – quando affrontava il repertorio rossiniano – era cantante pure piacevole (soprattutto nelle incisioni discografiche), nonostante le palesi imitazioni de vezzi e dei vizi della Horne. La vocalizzazione era buona (anche io ho apprezzato il suo Giulio Cesare) e la verve nei personaggi rossiniani brillanti era innegabile. Non comprendo davvero perché si sia gettata in questo diverso repertorio, così faticoso per la voce.

    • Ciao Alberto,
      La Jennifer non ha mai interrotto la sua carriera teatrale e neppure quella discografica.
      Negli ultimi due anni ha debuttato la Gescwitz della “Lulu”, l’ Alcina dell’ “Orlando furioso”, la Dulcinée del “Don Quichote”,la Kostenichka della “Jenufa” e la Lady (a Ginevra, e ora a Bologna).
      A marzo a parigi debuttera’ in un lavoro di Hetzel “The fall of Fukuyama” e poi girera’ mezzo mondo con la “Sheherazade” e “Les nuits d’été”.
      Non mi sembra che ti piaccia molto, da come ne parli, e non piace neppure a me, anche se di lei ho una decina di Recitals ed una trentina di opere.
      La cosa piu’ convincente che ha fatto e’ comunque, secondo me, un disco inciso per la Teldec nell’Ottobre del 94 che si intitolava “Where shall I fly?”
      dove eseguiva arie tratte da opere di Haendel e Mozart. Ciao, un abbraccio.

      • Grazie Miguel ti ringrazio molto della risposta molto esaustiva. Io l’avevo conosciuta giusto in relazione a quel recital che non ho ma che avevo ascoltato da un mio amico di Padova appassionato di Hendel. Li m ero interessato alla Larmore per tre quattro anni, penso fino al 1998. Sai che io sono un uomo di parrocchia (teatro) più che di curia (cd e you tube) per cui non avendo più cantato in Italia o nelle vicinanze la persi di vista e…forse fortunatamente anche di orecchie.-

        • Per Alberto.
          Ciao, addirittura fortunatamente per le orecchie….ahahahahah, no dai porella.
          Non e’ mai stata una grande, non mi piace, ma secondo me i veri disastri, e sottolineo, i veri disastri vocali, sono ben peggio della Jennifer.
          Lei e’ una delle solite incolte di successo. Come ce ne son tantissime oggi e come ce ne sono state parecchie ieri.
          Sono una verza al pc, appena avro’ imparato qualcosa ti mandero’ il disco.
          Stammi bene.

  3. ma a questo regista ci va un intera centrale elettrica dietro alle sue fantasie ? 😀
    poi fare muovere i cantanti,e il coro come manichini viventi.
    dal punto di vista vocale da quel poco che si può capire dai veideo,non lo trovo cosi malvagio,l’orchestra mi piace molto.
    molto bello il momento della fine degli incubi “la vita rinasce”

  4. Trovo vergognoso che mentre vengono abbassati gli stipendi dei dipendenti ( mi risulta di quelli dei coristi …) un teatro paghi questo cialtrone senza idee per una nuova produzione che è l’ennesima copia conforme di altri suoi spettacoli, perchè wilson con uno spettacolo li ha fatti tutti. posso scrivere maiuscolo VERGOGNA VERGOGNA VERGOGNA????
    e’ ora che si statuisca per legge che teatri in bancarotta come bologna non possono più fare nuove produzioni ma solo riprese!

  5. Buongiorno a tutti. Ero presente alla prima e il mio giudizio è completamente opposto a quanto sopra letto. L’ho trovato uno spettacolo di certo in puro stile Wilson (vero e non contraffatto da ‘cinesi’, come capita di vedere in giro) quindi con tutti i pregi e difetti che caratterizzano le inconfondibili regie già viste recentemente in altre(ttanto) felici occasioni alla Scala e a Spoleto, e comunque mai fuori luogo! La direzione del maestro Roberto Abbado è stata leggera e snella ottenendo un ottimo suono dall’orchestra e perfetta nell’accompagnare le valide voci, compreso il coro. Dalla terza fila di platea in cui mi trovato, non ho udito nessuno buare nè tantomeno fischiare, all’indirizzo di alcun interprete; anzi, pieno e caloroso successo per tutti e in particolare per il maestro Roberto Abbado, che a mio (modesto) avviso ha diretto magnificamente. Molti sono stati gli applausi a scena aperta, soprattutto nella seconda parte, sia per Solari, sia per Zanellato.

    • All’uscita di Wilson i fischi sono stati una caterva. Ma ne avrebbero meritati ben di più i solisti, e in parte anche il direttore d’orchestra.
      L’applauso a scena aperta più “caloroso” (parliamo sempre di una manciata di secondi) l’ha ottenuto alla prima Roberto de Biasio dopo la sua aria. E con ciò ho detto tutto.

      • falso! non ci sono stati nè fischi nè contestazioni!!!!! possibile che non ci fosse nessuno altro presente che possa confermare la verità? a questo post ci sono ben 18 risposte oltre alla mia e nessuno, tranne il sig. Tamburini era presente?…davvero curioso…

        • tatiana, ma perchè mentire scusa? La recensione sarebbe stata identica per noi, fischi o non fischi. Smetti di insistere….non parliamo di qlche bu che puoi non avere sentito, ma di una sonora legnata, cosa a cui mr wilson è abituatissimo!

    • Gentile Tatiana, il suo giudizio è assolutamente legittimo e inoltre condiviso da molti. Ciò che è stato spesso rilevato e criticato da parecchi partecipanti alle discussioni in questo sito è l’uso pretestuoso delle partiture (ridotte praticamente a colonne sonore) al fine di costruire manufatti, a volte anche artistici, ma completamente avulsi ed estranei all’opera in questione
      .
      E’ opinione di molti di noi che ciascuna opera debba essere affrontata per quello che è, collocandola nel suo giusto clima culturale, e misurando (se ne si è capaci) la distanza più o meno grande che ci separa da lei e non ricorrendo ad attualizzazioni facili, volgarucce e spesso, oltre che pretestuose, anche irrispettose (i.e. un Nabucco con ebrei e Shoa, o un Vespri con Falcone e Borsellino).

      Ciò non è certo un invocare una filologia fine a se stessa, né un auspicare letture rigidamente univoche, ma semplicemente un rapportarsi alle singole opere senza sovrapposizioni né sopraffazioni.
      Di queste ultime l’ottimo Wilson è il miglior fabbro: da Monteverdi a Kurt Weill stesse scene, stessi costumi, stesse luci, stessi movimenti. insomma stesso universo, in cui i nostri poveri Maestri del passato si trovano, con un certo reciproco disagio, a convivere.

      Altro esempio lampante la Tetralogia della Fura des Baus, piena di geniali invenzioni visive ma completamente ignara delle tematiche e dei concetti tanto cari a Wagner (e sì che ce ne sono!): strepitosi spot pubblicitari di prodotti di lusso (Jacuzzi, Mercedes Benz, Derivati Bancari) più che lucide e magari poetiche analisi.

      Il Maestro Wilson è stato un grande protagonista delle avanguardie teatrali a partire dagli anni sessanta del secolo scorso e ci ha donato spettacoli indimenticabili quali The Deafman’s Glance, A Letter to Queen Victoria, Einstein on the Beach.
      Sono anni, però, che dal suo lavoro operistico si leva un forte sentore di soldi, a dispetto del proverbio secondo il quale quei medesimi soldi non dovrebbero puzzare.

      • come sempre grazie per l’excursus alla nostra insostituibile Lily.
        Quanto alla signora Gremin (anzi principessa) che difende non solo ciò che ha visto, ma anche quel che non avrebbe nè visto e nè sentito non se ne abbia a male, ma il peana innanzi lo spettacolo di Wilson, visto per il tramite del tubo lascia tanto pensare ad una difesa d’ufficio ossia ad un debutto operistico, con il logico e conseguente entusiasmo.
        saluti
        domenico donzelli

  6. Signora Grisi, di quale legnata parla? in primis, dai suoi interventi precedenti si comprende che non era in teatro, quindi…forse è lei a dover smettere di insistere; a seguire, ribadisco, che non si è sentita alcuna contestazione, e lo posso dire visto che ero presente. Riguardo al giudizio sulla regia/scenografia di Wilson, nessuno ha messo in discussione il giudizio del sig. Tamburini, ma per la cronaca, riportare falsità sulla reazione del pubblico solo per avvalorare la propria teoria, mi sembra alquanto fazioso.

  7. Io credo che non vi sia nulla di più lontano dal teatro musicale e dal teatro in genere, dell’approccio registico di Bob Wilson. E poco importa che sia considerato da molti un “venerato maestro”, in nome di chissà quale cautela e reverenza: perché questo traspare da molti commenti, ossia un certo giustificazionismo. Infatti, se lo spunto intellettuale può essere di un certo interesse almeno dal punto di vista astratto, il congelamento delle strutture drammatiche e l’implosione dell’intera drammaturgia, toglie al teatro la sua stessa essenza e vitalità. L’opera è teatro in musica, non un concerto per suoni e luci. E non è una questione di generi: Wilson “uccide” qualsiasi titolo gli venga sottoposto e lo trasforma in una catatonica installazione di manichini ed effetti luminosi. Così questa staticità è letale per l’opera barocca (che già di per sé attira noiosissimi concerti in costume – alla Pizzi – ignorando le enormi possibilità del teatro barocco), è letale per Monteverdi (che è prima di tutto teatro e poi musica), è letale per l’opera contemporanea (resa ancora più distante ed oscura ad un pubblico già prevenuto: ricordo il Doktor Faustus di Manzoni proprio alla Scala)…ma è soprattutto con l’urgenza teatrale e la concinnitas del mondo verdiano che Wilson appare del tutto micidiale. Privare Verdi del teatro significa svuotarlo e trasformarlo in qualcosa di diverso. E questo Macbeth per manichini ricoperti di biacca e luci di taglio azzurrine resta una vera e propria idiozia concettuale. Senza contare che il Sig. Wilson replica da decenni la stessa costosissima messinscena: trovo indecente continuare a scritturarlo.

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