Roma: “Rienzi”, il tribuno era di destra

Il Teatro dell’Opera di Roma ha avuto il buon senso di celebrare il bicentenario wagneriano non con “l’Olandese volante”, che ha saturato ogni teatro italiano (con esiti patetici), ma ha pensato in grande, rendendo omaggio alla città e proponendo per la prima volta in lingua tedesca in Italia il Grand Opéra “Rienzi, der Letzte der Tribunen” così come Wagner lo aveva ridotto dopo le trionfali, e interminabili, recite di Dresda.
Opera fascinosa, che riassume  le esperienze di Beethoven, Bellini, Weber, Spontini, Rossini, la riforma di Gluck, Mendelsshon, e guarda, superandoli per certi versi nella struttura musicale più unitaria e mai scontata, i modelli di Halevy e di Meyerbeer.

Parte malissimo il direttore Stefan Soltesz, già ascoltato lo scorso anno in una buona “Elektra”.
La struttura dell’Ouverture del “Rienzi” possiede un suo equilibrio proprio per la fitta presenza di segni espressivi e suggerimenti preziosissimi per regolare i volumi delle masse e la loro velocità, che ne variano continuamente i connotati nonostante la ripetizioni di certi temi, come le marce oppure quelli legati alla figura del protagonista ed alla splendida preghiera del V atto: tali variazioni consentono l’introduzione degli snodi narrativi della tragedia che l’orecchio dell’ascoltatore saprà riconoscere ed identificarli con l’azione del momento. Una soluzione, questa, che Soltesz disattende totalmente.
Ignora, e permette all’orchestra di ignorare, il “Molto sostenuto maestoso” iniziale distruggendo l’evocativo effetto drammatico della tromba, che scivola miseramente nell’intonazione ed incappa in attacchi sporchissimi; tale sciatteria aumenta nel prosieguo con archi dalle sonorità talmente secche e dilavate da non riuscire ad andare a tempo con gli altri strumenti nel soavissimo cantabile successivo.
Gli ottoni che riprendono il tema e lo trasformano in qualcosa di sacro, non si armonizzano tra loro, così le indicazioni ad alleggerire, rinforzare il suono, le forcelle, i forti, i fortissimi, i legati sono polverizzati di fronte ad un suono tenuto sul forte e di monotonia esasperante.
Evita di esaltare gli embrioni musicali, già presenti e riconoscibili, di quelli che saranno i temi delle tre opere romantiche successive con colpevole superficialità e non curanza.
Terribile anche tutto il finale dell’Ouverture in cui all’Allegro che dovrebbe nuovamente variare i temi introdotti trasformandoli in una marcia trionfale, si sostituisce un andamento bandistico sciatto e ripetitivo che travolge anche il colore più tenue della fanfara ed annulla la delicatezza della polacca.
Peggiorano le cose nel I e nel II atto: il primo è diretto con gli stessi toni che si darebbero ad una farsa comica, così l’ingresso di Rienzi, il racconto della tragica morte del fratello, il fervido duetto tra Adriano ed Irene hanno l’andamento di una smancerosa commedia borghese, mentre il finale d’atto sbanda pericolosamente a causa dei continui scollamenti tra golfo mistico e palcoscenico.
Nel secondo atto Soltesz prova ad essere ancora più insipido e pasticciato nel gesto e nella resa complessiva o nella continua cecità di fronte alle prescrizioni wagneriane (“Con anima” che apre il secondo atto sostituito cinicamente con “Senz’anima”) e conduce l’orchestra su fastidiosi e faticosi fortissimi: devo dire che l’impegno dona i suoi frutti… già marciti.
Dopo la pausa del secondo atto, pensavo già agli orrori con i quali Soltesz avrebbe sollazzato il suo pubblico, già molto provato da due atti calamitosi, e invece ho dovuto ricredermi: l’orchestra sembrava completamente rinnovata.
A parte qualche lieve inflessione negli ottoni, l’orchestra finalmente suonava bene, all’unisono, compatta e omogenea, soprattutto espressiva; Soltesz, finalmente ispirato e fidandosi di Wagner, riesce a creare un crescendo inatteso di tensione.
L’agitazione degli archi con l’alternanza di piani e legature, i forti improvvisi dei fiati e degli ottoni, le scale cromatiche, i diminuendi contribuiscono ad aumentare il clima sospeso della partitura ed il ritmo belligerante delle masse corali ( l’inno di guerra con il famoso “Santo spirito cavaliere!”)e delle marce che incalzano; l’aria di Adriano splendidamente diretta con il trascolorare dall’agitato iniziale alla febbrile eccitazione finale; tutto il grandioso concertato che suggella l’atto risolto attraverso una commozione asciutta ed il volume orchestrale che sostiene le voci senza coprirle.
Tenebroso poi il clima incombente del IV atto con quell’orchestra che improvvisamente richiama alla mente i cori di S.Giusto del verdiano “Don Carlo” durante la terribile maledizione “Vae, vae tibi maledicto!”.
Bellissimo poi il V atto: Soltesz riesce a legare il lento incipit dell’aria con il “Maestoso” che ripercorre il tema dell’Ouverture, rispettando l’andamento animato ed in crescendo del brano, fino ad un finale quasi sussurrato e lasciato sfumare, ben confacendosi alla sacralità di un momento assolutamente intimista; riesce ad essere appassionato nel duetto successivo tra Rienzi ed Irene, nel quale infonde l’amarezza dell’addio tra i due fratelli; mentre l’incontro tra Irene e Adriano e la successiva catastrofe che chiude l’opera sono diretti con un nervosismo spinto fino al parossismo legando i destini di tutti in un filo rosso di disperazione e rinuncia.

I cantanti: a questo punto dovrei dilungarmi sull’elenco dei difetti, dei problemi, sulle inadeguatezze del cast scelto per questo fiero cimento, e lo farò, ma c’è da premettere un piccolo discorso: i cantanti scelti per queste cinque recite romane, non hanno nulla, ma proprio nulla, di diverso nella vocalità, nel bene e nel male, rispetto ai cantanti che interpretano i medesimi ruoli in qualsiasi teatro dell’estero e con nomi ben più blasonati.
Kerl, Bronder, Vinke, la Merbeth, la Schoenberg, la Kampe, la Breedt, la Sindram, la Mahnke, la Pieweck, la Chauvet, (attendendo i cast scelti da Thielemann e Jordan) sono cantanti che nei difetti e nella tenuta eguagliano gli artisti scelti per questo “Rienzi”, sintomo pesantissimo che le voci wagneriane e per il primo Wagner  più di questo non possono fare. Ed è tragico se si pensa che voci comprimariali siano destinate a due ruoli del calibro di Rienzi o Adriano.
L’anima candida direbbe “chi si contenta, gode”. Io sono meno ipocrita e non intendo giustificare dei cantanti inadatti solo perché in giro di meglio non c’è: cerchiamo di essere obiettivi.
Il protagonista Andreas Schager frequenta il ruolo assiduamente dal 2011 e, leggo, è un presunto allievo di James King; evidentemente era fuori dall’aula mentre il buon King spiegava (come moltissimi famigerati e imbarazzanti “fuoriclasse” della scena attuale).
L’emissione è praticamente bloccata in un forte-fortissimo permanente che si traduce in sforzi sovrumani per mantenere l’intonazione sopra la soglia della decenza, mentre il timbro risulta assimilabile più ad un Mime, ad un Loge, ad un David, piuttosto che ad un tribuno romano, o in generale un tenore eroico, di cui ha soltanto pose e accento militare. Dimentica un paio di versi, Schager, incappa in alcuni suoni indietro nei La acuti, com’è normale che sia in una organizzazione vocale del genere, ma nell’aria finale “Allmacht’ger Vater, blick’herab!”, riesce a piegare la voce in un paio di sfumature di dubbio appoggio; eviterò la dabbenaggine giustificatoria “la parte è lunga e difficile”: cantasse altro, allora; ma a sua discolpa c’è da dire che la natura, ma non la tecnica, gli ha dato almeno la robustezza fisica per arrivare vivo al termine.
Irene è il ruolo più ingrato dell’opera, e Manuela Uhl cerca in qualche modo di venirne a capo con il suo timbro freddo, la sua emissione tutta durezze e filo spinato, soprattutto in alto.
I concertati ed il duetto finale la trovano in ambasce con l’intonazione, ma possiede almeno un fraseggio che indugia sulla tenerezza volitiva del personaggio.
Cosa dire di Angela Denoke al suo debutto nel ruolo fondamentale di Adriano?
Adriano è un ruolo scritto per una grande cantante, affrontabile sia da soprani che da mezzosoprani, la scrittura prevalentemente centrale sembra semplice, ma il vero scoglio sono le arie, le quali oltre ad un cantabile facile e nobile, possiedono volatine, gruppetti, vocalizzi, scale ascendenti e discendenti che spingono la voce più volte fino al La naturale e pretendono una vocalità elastica.
Da sempre wagneriana minima, stentavo a riconoscere la Denoke all’inizio: la tessitura centrale la metteva al riparo dagli acuti e dalle note gravi, per questo sembrava che riuscisse a padroneggiare il ruolo; ma arrivati a “Gerechter Gott, so ist’s entschieden schon!” finalmente la Denoke che conoscevo mi si è palesata: ed ecco gli ululati che tanto attendevo, ed ecco gli acuti fissi o pericolanti presi da sotto, ed ecco le volatine spappolate, ed ecco il legato “slegato” con il quale ha stregato il suo pubblico, ecco il registro grave parlante e sforzato, ecco l’emissione ingolata e la dizione impastata che riduce vocali e consonanti a “O” e “U”.
Certo se la cava con l’accento nervoso e con un buon gioco scenico, ma negli anni ’80 le avrebbero affidato si e no il ruolo del messo di pace e i duetti con Irene ed i concertati la trovano davvero in balia dei marosi wagneriani.
Ruvidi, stomacali e sbrigativi gli altri membri del cast (Roman Astakhov, Colonna, Ljubomir Puskaric, Orsini, Milcho Borovinov, Raimondo, Martin Homrich, Baroncelli, Jean Luc Ballestra, Cecco del Vecchio), ma accettabile il Messo di pace interpretato con brio da Hannah Bradbury.

Coro impegnatissimo diretto discretamente da Roberto Gabbiani (attenzione ai tempi, però) in un’opera colossale come questa, ma molto meglio gli uomini, più coesi ed intonati, della compagine femminile, la quale ad un registro centrale morbido e penetrante faceva difetto un registro acuto vestroso.

Gli ormai famigerati badandi dell’eurotrash avranno avuto problemi di reflusso gastroesofageo di fronte all’allestimento di Hugo de Ana: nessun letto in mezzo alla scena, nessuna casetta di legno o ospedale psichiatrico, nessuna luce di taglio, nessun cappottone grigio, nessun personaggio sdoppiato da un ballerino o un mimo o un animale; Rienzi non si alcolizza, Irene non si prostituisce, Adriano non si droga; nessuna drammaturgia è stata sovrapposta al libretto per narrare un’altra storia. Già, roba da terzo mondo operistico!
Scherzi a parte si tratta di una splendido spettacolo che rispetta non solo il libretto, ma anche la monumentalità dell’opera, lo spirito dei personaggi, l’ambientazione e la musica.
Apprezzo molto de Ana e non lo considero solo un decoratore, ma un regista che cura con logica ogni aspetto dell’opera lavorando sulla gestualità e sulle tinte del contesto.
In questo caso ci regala una Roma atemporale (il 1347 è solo suggerito) dominata da un unico ambiente, una strada/scalinata in discesa lastricata di sanpietrini, su cui si innesteranno senza soluzione di continuità, monumenti equestri, la Colonna Traiana, la gigantesca porta del Pantheon che sostituisce il Campidoglio o il Laterano, una pesante parete dotata di finestra a nastro, la casa di Rienzi, sulla quale verranno proiettate le vestigia dell’antichità romana e le leggi dell’impero, anelate ma irraggiungibili.
Un peccato che de Ana decida di identificare Rienzi con Mussolini nelle pose e nei gesti. Certo tale visione possiede una sua coerenza con il personaggio reale di capopopolo rivoluzionario e lo rende immediatamente identificabile con la nostra memoria storica, ma incappa nello stesso vezzo dei suoi colleghi tedeschi (e non) per i quali tutto è riconducibile al nazismo. Banale e scontato.
Molto meglio lo scavo psicologico dedicato ad Adriano, fascio di nervi incontrollabile, volubile e indeciso che arde del fuoco della gioventù e che, suo malgrado, sarà lo strumento della distruzione del tribuno.
Interessante anche Irene, una fanciulla fiduciosa della legge del fratello, tanto da usarla come un lenzuolo per proteggersi dall’aggressione dei nobili (gesto ripetuto anche da Adriano), prima che quel panno diventi la rigida tavola dei comandamenti politici; la stessa tavola, macchiata, di sangue, sarà la lapide che accoglierà la testa decapitata del padre di Adriano e davanti alla quale Rienzi non esiterà a ricorrere alla tortura dei suoi nemici, ed il popolo si ribellerà al tribuno incendiando i simboli del suo potere su quell’altare dove egli è ormai vittima sacrificale e la sorella, stuprata, verrà legata e issata dai piedi.
Spettacolari poi le proiezioni che sintetizzano lo scontro tra nobili e popolo (orchestrate dal Maestro d’armi Renzo Musumeci Greco) e molto buone le luci curate da Vinicio Cheli.
Una regia intelligente e complessa che meriterebbe di essere ripresa anche in altri teatri.

Pubblico delle grandi occasioni, freddino e poco presente in sala che regala allo spettacolo una manciata di applausi finali con un accenno di entusiasmo nei confronti della Denoke, di Schager e di de Ana.
Quando lo cantavo io Adriano avevo al mio fianco i Rienzi di Eloi Sylva e Anton Schott e l’Irene di Lilli Lehmann…

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7 pensieri su “Roma: “Rienzi”, il tribuno era di destra

  1. A dire la verità, non mi sembra che James King possa essere considerato un cantante esemplare… e me lo figuro come didatta (posto che non è affatto dimostrata, almeno in tempi moderni, l’equazione cantante tecnicamente eccellente = ottimo maestro).

  2. complimenti anche da parte mia. E un po’ di sana invidia: mi sarebbe piaciuto assistere a quest’opera, mai vista in teatro!
    Per quanto riguarda la parte musicale, infine, si sa che con Wagner siamo messi maluccio e quindi si deve fare di … necessitù virtà 😀

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