Gotterdammerung.Fuchs-Svanholm-Elmendorff-42
Gotterdammerung-Ligendza-Cox-Stein-71
Le Norne sono tornate nelle tenebre, la luce dell’alba si confonde con le fiamme di Loge che circondano la Rocca delle Valkirie, rompendo il Limbo dell’episodio precedente.
I due amanti, Brunnhilde e Siegfried, dopo la loro notte d’amore, si salutano affinchè l’eroe possa tornare a nuove imprese.
Lui è in armatura e protetto dalle Rune magiche della sua amata; lei gli dona Grane, il fedele corsiero divino; Siegfried le dona l’anello come pegno della sua fedeltà, suggellando il suo amore, ma condannando, inconsapevolmente entrambi alla distruzione del maleficio di Alberich.
Suona alto il Corno di Siegfried nel fortissimo orchestrale, eplodono i temi dell’Avventura e della Libertà; gli archi ed i legni invece fanno risplendere il Temi di Brunnhilde, della cavalcata e quelli legati all’Amore tra i due ed alla loro Eredità del mondo.
Wagner, però, varia tutti questi motivi, rinnovandoli nella struttura e rendendoli più epicheggianti, poderosi; l’orchestra suona legata, le prescrizioni per diminuire il suono rendendolo più dolce oppure i crescendi marcati e le esplosioni improvvise dei fortissimi sono fittissime, traducendo musicalmente la crescente gioia, o meglio esaltazione, dei due protagonisti.
Brunnhilde appare psicologicamente trasfigurata: il suo è un canto dialogico, sereno, appagato, a volte quasi ingenuo, che concentrandosi nella delicatezza dei centri sottolinea la femminilità della donna, regalandole note ribattute mentre domanda a Siegfried del suo amore e lo mette in guardia dalle imprese, da brava convivente/mogliettina, ma anche immersioni sino al Do bem o slanci fino al Do acuto.
Siegfried resta sempre eroico, ma in questo caso più maturo e consapevole, meno amoroso di Brunnhilde nei toni, ma più impulsivo. Il canto resta declamatorio, ma molte frasi sono da cantare legate, mentre la tessitura insiste nei centri, ma sollecita sia il passaggio sia il Sol ed il La naturale.
Marjorie Lawrence interpreta una Brunnhilde tesa, nervosa, battagliera, grazie ad un timbro tagliente, ma estremamente femminile, ampio e ben emesso. Ogni tanto nel registro grave si sentono alcuni suoni chiocci e in qualche salita all’acuto fanno capolino dei portamenti, ma che colore deciso e sensuale, che robustezza della linea.
Melchior ripete il suo Siegfried da manuale, ma mortificato (assieme alla Lawrence) da un Bodanzky dissennato, che dirige ad una velocità semplicemente surreale.
Bellissimo, prezioso il timbro della Traubel: voce ampia, facile e compatta in tutti i registri (il Do è una nota appena toccata e bruttina), tuttavia un po’ seria e altisonante, eppure i fiati sono notevoli.
Serioso e altisonante anche Melchior, ma molto più a suo agio con Toscanini: a parte qualche tensione sui Sol ed i La, la voce si libra con maggiore trasporto ed è molto più raccolta, tanto da concedersi qualche efficace piano.
Molto intenso l’interludio che principia al duetto, peccato che Toscanini opti per una visione marziale della scena. Si, l’orchestra suona bene, anche se ottoni così secchi e calanti non me li sarei aspettati, però Toscanini è sempre rigido e tribunizio, non si rilassa mai, con poca o punta poesia e con poca esaltazione amorosa, così la scena sembra un lungo saluto tra due compagni d’armi.
Colore fondo, scuro, più mezzosopranile che drammatico, quello di Marta Fuchs, ma rispetto ad una Leider, una Larsen-Todsen, una Flagstad, una Lawrence, una Traubel molto, ma molto meno suggestiva; parliamo anche di una voce dall’emissione affaticata, dai fiati e dall’estensione corti, spezzata in tre, particolarmente sgradevole in tutti i registri, dalla musicalità appena discreta e dal fraseggio inesistente. Insomma non molto diverso da certe wagneriane odierne: Bayreuth si preparava.
Set Svanholm accanto a lei sembra un esempio di canto, ma appunto, solo se paragonato a lei.
La voce è sempre un po’ legnosa e impastata, la musicalità leggermente migliore rispetto alla Fuchs, ma lo squillo e l’interprete non ci sono.
Elmendorff si sforza tantissimo per accelerare i tempi, senza la parodia di Bodanzky, ma non sacrificare i colori: da vecchia volpe ci riesce anche piuttosto bene, impetuoso com’è, ma con una canea del genere sul palcoscenico…
Chiaro, ma molto personale il timbro di Catarina Ligendza, interessante soprano degli anni ’70, che poteva vantare un’emissione ferma soprattutto nel centro, acuti lanciati con forza, ma dal suono schiacciato ed un po’ fisso ed un fraseggio fondato su ripiegamenti intimi, commossi, sussurrati. Probabilmente tra le più umane e “pensate” Brunnhildi della discografia live.
Jean Cox era il Siegfried del post-Windgassen assieme a Jess Thomas. L’emissione si concentra tra naso e gola, nonostante il timbro pieno di calore ed un fraseggio partecipe, ma un appoggio non del tutto risolto lo fa lievemente traballare.
La direzione di Host Stein è ricchissima di forza e di colori.
Reginald Goodal nel suo Ring cantato in lingua inglese preferisce tempi più lenti, a volte anche pesanti, per sottolineare l’illanguidirsi dei temi, l’assottigliarsi dei fraseggi orchestrali, la morbidezza dei timbri che si trasformano in suoni cremosi e comunicativi.
Buona Rita Hunter dalla voce da lirico spinto e dalle belle intenzioni espressive; eppure il timbro incappa in alcuni colori grigiastri e leggermente ingolati soprattutto in basso e nel passaggio, i tempi lenti fanno tremare l’emissione, che comunque si mantiene intonata malgrado una percettibile tensione, ma gli acuti ed il legato suonano sempre pieni.
Al suo fianco il grigiastro e sforzato Alberto Remedios può veramente poco.
Su un altro pianeta Boulez, in cui la radiosità della scena si sprigiona per accumulo di elementi e di tensione emotiva, ma attraverso il rigore e la sensibilità del musicologo che sa fare teatro. Splendida l’orchestra, così netta, intensa, pulita.
Confesso di avere avuto sempre un debole per Gwyneth Jones: so perfettamente che la voce era lisa all’epoca e gli acuti, molti presi da sotto, ma sempre poderosi, suonavano metallici, taglienti come schegge e l’emissione indurita l’aiutava solo a mantenere il controllo della linea di canto; però le riconosco l’ampiezza del mezzo, un controllo intelligente per mantenerlo entro binari decorosi, l’acuto perentorio (e calante), ma soprattutto l’inteprete travolgente e attendibile.
Si pena parecchio con Manfred Jung, ennesimo Siegfried con la voce da Mime, dotato di timbro querulo e petulante e tecnica naturale, ma che riesce quanto meno a dare la parvenza di una gioventù piena d’energia.
Post perfetto; particolarmente appropriata la descrizione della direzione di Toscanini: un direttore con l’elmo, un vero peccato, visti i cantanti…ammetto che nella mia ignoranza non avevo mai sentito parlare di Bodzansky e farò il possibile per cercare di dimenticarmelo. Ah, mi sa che Manfred Jung (il vero buco nero dello strepitoso Ring di Boulez) alla fine la sua vera vocazione l’ha capita: ho visto che in una qualche recente incisione (non ricordo quale) interpreta Mime…
Esatto, Manfred Jung ha cantato Mime a Bayreuth, diretto da James Levine, dal ’94 al ’98. Lo ha anche inciso. Ora, se non sbaglio, si occupa di illuminotecnica e comunque lavora dietro le quinte. E’, diciamo, un precursore degli ultimi Siegfried che dopo aver macinato male Wagner per parecchi anni, poi si rivolgono ai ruoli di caratterista, massacrando pure quelli (un esempio: Wolfgang Schmidt).
Peccato davvero Toscanini: un piglio così marziale da signorina Rottermeier coinvolge purtroppo due cantanti d’oro come la Traubel e Melchior, che purtroppo si adeguano.
Piú che altro, Jung era un anticipatore dell’ odierna moda dei cantanti bonazzi e ululanti alla Kaufmann e Schrott. Come il suo omonimo Manfredi di Svevia, infatti, “biondo era e bello e di gentile aspetto”…
“So young, so blond, so beautiful… so stupid” (cit.) 😀
Caspita, fra il 94 ed il 98…mica tanto recente, allora. Beh, del resto Boulez è della fine degli anni ’70, quindi i conti tornano…signorina Rottermeier è fantastica !
Tanto per aggiungere un ascolto di parte http://www.youtube.com/watch?v=PvDraXJjyfI