Festival della Valle d’Itria: Giovanna d’Arco

frezzolini2Ce l’hanno spacciata e propinata per la Giovanna d’Arco belcantistica. Allora cominciamo a premettere, anzi a ripetere, che il Belcanto non consiste né in eseguire passi acrobatici e neppure nel saper cantare bene. A confutazione della fola: le opere del Belcanto prevedevano anche arie spianate (bastando a comprenderlo l’ascolto di un titolo come Giulio Cesare) e Madga Olivero cantava davvero bene, ma non fu mai una belcantista. Non solo, ma i maestri di canto e i cultori della grande tradizione tecnica vocale videro non già in Verdi, ma in Bellini (quello di Norma soprattutto) ed in Donizetti con acuti estremi scoperti ed accentazione drammatica in zone “pericolose” della voce, i distruttori della precedente, grande tradizione canora. Con questi presupposti l’idea spacciata a Martina Franca dell’opera verdiana belcantista è un falso per non ricorrere a parole volgari, ma forse più efficaci ed immediate.

Che, poi, critica e pubblico di identico livello di chi ha partorito e realizzato tale grossolano pastrocchio possa gridare al miracolo ed alla felice realizzazione ci rende ancor più certi della dolorosa mistificazione e del clamoroso falso. Al più si poteva tentare e avallare l’idea di una esecuzione della Giovanna d’Arco in modalità e gusto donizettian-belliniano, il che non sarebbe strano perché sino a pochi mesi dalla prima (15 febbraio 1845) Donizetti era operativo e che il gusto dei primi esecutori verdiani fosse donizettiano è argomentazione teorica e scelta esecutiva spendibile e plausibile.

La condizione è, però, che chi proponga e chi concerti e diriga, abbia esaustiva cognizione di quel gusto, di quel fraseggio, di quella prassi esecutiva. Altrimenti meglio lasciar perdere e cassare tale velleitarie imprese. Eppure l’impresa non sarebbe così ardua perché esiste copiosa documentazione fonografica fra il 1900 ed il 1915 proveniente dai maggiori cantanti formatisi su modelli donizettiani (per tutti Battistini, Marconi, la Sembrich), che cantarono molto Verdi spesso disapprovati da Verdi, e più generalmente censurati perché considerati antichi. Esiste anche un interessante articolo di Will Cruchfield (lo stesso che non seppe dirigere Ciro in Babilonia a Pesaro l’anno passato, ma pregevole studioso) dedicato alle cadenze ed agli inserimenti in opere verdiane, che le registrazioni dell’età della pietra tramandano. Insomma basta studiare e basta avere il tempo e la voglia e l’operazione, forse, può anche andare in porto e giustificare la presenza di un soprano come la Pratt, che di Verdi canta assai ben Gilda e potrebbe essere Oscar (con le varianti delle grandi colorature tipo Hempel, Kurz e Tetrazzini, il cui messaggio culturale e storico, credo gli organizzatori di Martina ignorino, conosciuto, invece, al fondatore del Festival il solito Celletti). Ai signori Frizza e Triola rammento che tutte le chanteuses a roulades che negli ultimi vent’anni hanno affrontato Giovanna d’Arco sono risultate soccombenti proprio perchè chanteuses a roulades che al tempo di Verdi cantavano Rossini e soprattutto il grand-opera. E mi riferisco a Mariella Devia, June Anderson e Lucia Aliberti, rispetto alle quali la Pratt se l’è cavata meglio senza essere, però, la stessa cantante che aveva stupito e meravigliato a Napoli nell’astratta scrittura della Lisinga rossiniana.

E siccome credo che la scelta per il ruolo di protagonista di quella che considero oggi il miglior soprano lirico di agilità è stata dettata non dalla disamina della partitura, ma dal fatto che Mariella Devia (sorretta da Nello Santi, però!) abbia cantato il titolo concludo che lo spirito del Festival di Martina, quello di Celletti nel cui nome si distribuiscono premi e targhe, è irrimediabilmente perso.

Quanto alla realizzazione pratica ogni idea, ogni presupposto si arena e affonda se sul podio sale Riccardo Frizza. Non ho neppure voglia di ricorrere alla perifrasi o all’autoimpresto e circa le qualità di filologo, concertatore e direttore rimando a quanto scritto in occasione del recente, milanese Oberto. Identica tipologia melodrammatica, identico comportamento del direttore. Difficile dire cosa sono diventati i cori degli spiriti piuttosto che gli ensamble, dove era solo un battere velocemente e meccanicamente il tempo.

Se proprio dobbiamo fermarci su un passo esemplare dell’incapacità del direttore prendiamo la cavatina della protagonista. Si tratta del solito passo languidamente fiorettato come buona parte delle sortite (vedasi Borgia, che fu un titolo della Frezzolini) e che richiede languore, nostalgici rallentamenti, un tempo indugiante a maggior ragione se la voce della prescelta Giovanna non è assolutamente verdiana per colore e la scrittura sta circa una terza sotto la zona propizia della voce della prescelta protagonista, il tutto per offrire il contrasto ed un minimo di slancio alla frase – verdiana- “oh avessi il dono” che connota l’eroina. Ed, invece, tempo veloce, una marcetta, metronomo in azione senza pietà per cantante ed autore, nessuna possibilità di prendere fiato e sorge il dubbio di trovarsi non già a Martina, ma al teatrino Gerolamo di Milano dove si esibivano le marionette. Non solo, ma con tale scelta succede l’impensabile ovvero una cantante estesissima, che dal la acuto in su ha la parte privilegiata della voce, suona proprio in quella zona persino stridula e poco sicura. Miracoli dell’incapacità e del non pensare tempi e dinamiche adeguate ai cantanti prescelti. Per altro per pensare si devono conoscere i cantanti e non arrivare alla antigenerale o poco prima come, non già le chiacchiere ed i pettegolezzi dicono, ma implacabile internet rivela, visto che il 13 luglio il direttore stava a Vienna alle prese con altro titolo del primo Verdi, ossia Attila.

Per la cronaca nei brani di genere elegiaco patetico l’esecuzione della Pratt è andata un po’ meglio nel terzetto a cappella, che chiude il prologo, all’aria del secondo atto, staccata ad un tempo un poco più lento e con sonorità meno marionettistiche e nel duetto con il padre o con Carlo, pur con qualche difficoltà di discesa in zona grave e questo perché la zona grave e la discesa alla stessa in Verdi non sono quelle di Rossini. Autore citato non a caso perché una Pratt, ancora agli inizi della carriera, non conobbe difficoltà a cantare la Desdemona di Rossini.

Devo proporre altri due di esempi della fallimentare direzione e concertazione (intesa come preparazione dello spartito e predisposizione degli accomodi, che sono assai più filologici e storicamente esatti dell’esecuzione letterale dello spartito), di cui la Pratt ha fatto le spese ossia il duetto all’atto primo con Carlo dove su frasi come “lasciamo, lasciami” la scrittura è particolarmente impervia e i trasporti sono irrinunciabili o il finale dove il metronomo inesorato ha colpito e frasi come “o mia bandiera” e il recitativo finale sono passate via senza lasciare alcun segno e senza muovere gli affetti.

Chiose e riflessioni finali. Giovanna non è un capolavoro e tutti lo sappiamo, ma che i cori degli spiriti eletti richiami la “messa” famosa canzonaccia dialettale milanese, arcinoto esempio di anticlericalismo e volgarità è davvero troppo.

Propongo quale ascolto la cavatina di Lucrezia Borgia per ugola della Caballè e della Sutherland, quest’ultima stacca un tempo assai più veloce della prima, ma il momento teatrale e il personaggio sono in entrambi i casi compiutamente realizzati. E invito a riflettere.

Propongo, poi, il duetto dei Foscari Jacopo Foscari/Lucrezia Contarini cantato dalla Gencer e da Picchi. Chi avesse la voglia di confrontare spartito ed esecuzione comprenderebbe bene, sentiti gli accomodi proposti da un direttore (Tullio Serafin) definito, con faciloneria “la forbice”, cosa significhi concertare la parte vocale di un melodramma del primo Verdi.

Rifletto che l’altro titolo di questa edizione del festival era “Crispino e la comare”, ultimo caposaldo del morente rossinismo. E allora quando si disponga della cantante adatta come è la Pratt a lei spetta la parte di Annetta. Propongo una edificante consolazione con la più famosa aria eseguita da una antesignana di Jessica Pratt e, da vociomane, non posso che augurarmi di sentirla a ministero di questa Giovanna per “rifarmi” le orecchie.

 

Ricci – Crispino e la Comare

Atto II

Io non sono più l’Annetta – Luisa Tetrazzini (1913)

 

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24 pensieri su “Festival della Valle d’Itria: Giovanna d’Arco

  1. …il fatto che sprechino la Pratt in un repertorio non adatto dimostra l’incompetenza di chi la circonda (ok che si deve cantare tutto perchè c’è crisi (ovviamente è ironia) però fra poco la faranno debuttare in Tdot)…pensasse a cantare ruoli adatti alla sua voce…continuare ad affrontare ruoli non adatti (Donna Anna, etc.) non solo non la valorizza ma potrebbe portarla a perdere le caratteristiche naturali e tecniche della sua voce. Mi auguro che con la fine dell’anno verdiano possa avere più spazio in Rossini e Mozart su grandi palcoscenici.

  2. Non occorre scomodare Bayreut e i suoi fischistissimi spettacoli
    per capire che a dirigere artisticamente molti festival ci si stanno cimentando persone che nel migliore dei casi la musica la hanno ascoltata solo per sbaglio. Non si comprende pertanto come abbiano fatto ad ingaggiare direttori affetti da diarrea continua registi che mettono in scena tutto tranne ciò che occorre e si inventino nuove modalità esecutive delle opere in netto contrasto con quanto SCRITTO
    negli spartiti dagli stessi musicisti. Anche nel recente passato c’è stata alquanta improvvisazione, ma ora che ce la offrono a dosi da cavallo è pura follia.
    ora leggetevi cosa scrive di se stesso il direttore artistico di martinafranca. http://www.festivaldellavalleditria.it/direttore.aspx

  3. Esecuzione di rara pochezza, a livello direttoriale,
    vocale ed interpretativo. Della parte scenica, non avendolo
    visto non posso dir niente.
    E non venitemi, per favore, a menarmela con la storia
    che per giudicare bisogna essere in teatro, eh! Ecco.
    E’ esecuzione di rara pochezza e basta.
    Da parte di tutti. Coro in primis.

  4. Esecuzione piatta, in tutti i sensi… La Pratt delude un po’, è fuori repertorio per questioni meramente vocali che inficiano però di conseguenza anche la resa interpretativa (senza contare che mi sembra anche leggermente rauca), si avverte sempre un senso di cautela nel suo canto come se pensasse alla mera salvezza vocale e, più in generale, poca convinzione.

    Le consiglierei di il barocco, Rossini e Mozart, Verdi limitatamente a Masnadieri, Gilda, Oscar e la sacerdotessa, di Puccini Musetta e Liù e repertorio francese a go-go (Manon, Louise, Thais, i titoli della Sills insomma).

    Una chiosa: da cantante astratta mi piacerebbe tanto che debuttasse Adalgisa, magari in coppia con Maria Dragoni.

  5. C’è da dire che la Pratt non è certo stata aiutata dalla direzione di Frizza che invece di staccare un “Andantino” come vuole Verdi prende una corsa con un quasi Allegro che priva della sua stessa essenza l’aria. In genere Frizza non favorisce i cantanti affrettando i respiri e forzando i tempi scritti da Verdi.
    la recensione completa su
    http://www.pennaladyx.com

    • “L’altro protagonista il tenore Jean Francois Borras era anche lui preceduto da notevole fama. Ci aspettavamo un novello Bergonzi e ci troviamo dinanzi a un tenore lirico leggero che fatica non poco a sostenere la parte di Carlo. Si sa, tenori ce ne sono pochi, e non tutti buoni, quindi quando se ne trova uno con un timbro piacevole, anche se chiaro, lo si spinge a fare qualsiasi ruolo anche quello più lontano dalla sua tessitura. Infatti ci sembra ascoltandolo di sentire un tenore rossiniano, un novello Lindoro o un mozartiano Ferrando.
      Mentre il Belcanto delle prime opere di Verdi non ha nulla in comune con quel repertorio.
      L’unica voce davvero degna di ricevere elogi è quella del baritono Julian Kim, vera voce di pasta verdiana, baritono cantabile ma allo stesso tempo tonante e intensamente espressivo nella scena “Speme al vecchio era una figlia” e, lui si, giustamente applaudito. Acuti coperti e perfettamente “girati”, medium pieno e ricco di armonici.”

      … Mah!!!

  6. Alcune considerazioni in merito a questa Giovanna d’Arco:
    1) era proprio necessaria un Giovanna d’Arco “belcantista”? Ora, aldilà della correttezza o meno del termine e della sua pertinenza, mi chiedo dove si voglia spostare l’asticella del “belcanto” (che in una certa ottica significa “miniaturizzare”… A breve immagino ci sarà chi – per dare una qualche pallida giustificazione alle proprie scelte commerciali/interpretative – proporrà un Otello “belcantista” o una Turandot “belcantista” o un Lohengrin “belcantista”… Che all’epoca della prima di Giovanna fosse ancora vivo e operativo Donizetti o che i primi interpreti frequentassero tutto il repertorio precedente è considerazione scontata e sacrosanta, ma che non giustifica affatto l’arretramento di Verdi ad un criptodonizettismo! Perché se è così allora si dovrebbe giustificare un Bellini in chiave tardo settecentesca e così a ritroso… Verdi è Verdi e, all’epoca di Giovanna, aveva già un suo specifico linguaggio.
    2) trasporti ed accomodi: e perché mai? Ha senso trasformare Giovanna in altro solo per la palese inadeguatezza della primadonna? Non è questione di filologia – si sa che gli autori non erano affatto contenti delle modifiche – ma di buon senso: non riuscire ad eseguire una parte significa che quella parte non è adatta alla propria vocalità.
    3) la Pratt: perché mai avventurarsi su un terreno impervio (per lei) come la scrittura verdiana, distante anni luce dalla sua specifica vocalità…e per cosa poi? Non per il Festival di Salisburgo (che almeno avrebbe giustificato – in virtù dell’importanza della vetrina – pure l’azzardo) o per lavorare con una prestigiosa orchestra e bacchetta…no, per il Festival della Valle d’Itria che è tutto fuorché un’importante rassegna internazionale (e qui mi fermo per non essere eccessivo).
    Credo che la maturità di un interprete si veda anche dalla capacità di gestire voce e ruoli che, nel caso della Pratt, è decisamente da rivedere (dovrebbe spaziare da certo Bellini e Donizetti al Rossini serio, perché per quello comico manca totalmente dello spirito adatto, sino a certo Mozart, Haendel e certo barocco)

  7. Condivido pienamente i rilievi sui tempi frenetici e poco “poetici ” di Frizza, tuttavia, considerando l’abbominio e le oscenità che quotinianamente si ascoltano per ogni dove, mi pare che stavolta siate stati un po troppo cattivi. Noe era una esecuzione ideale certo (ma oggi quante ne sentiamo?) ma almeno non era lo scempio di un’opera che visto che si ascolta assai raramente è stato bene proporre.

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