Patrice Chéreau (1944 – 2013): il nostro ricordo tra teatro e cinema

French director Patrice Chereau attends a photocall in Venice.E’ strano, come la morte di un artista, che ha sempre suscitato in me una ammirazione rispettosa frutto del suo lavoro e di tutto quello che la sua mente ha voluto mostrarmi sulle assi di un palcoscenico, colpisca profondamente quella parte di me che si è sentita coinvolta e messa in discussione dalle sue idee.
Quelle di un autentico genio.
Non sapevo nemmeno che fosse malato, per questo, forse, la notizia ha colpito ancora più duramente.
Chéreau è quel ragazzo francese che a 32 anni, arrivava dalla Francia al Festival di Bayreuth, per generare una rivoluzione teatrale la cui dirompente carica innovativa è riuscita ad attraversare le colonne d’Ercole culturali dell’Europa in pieni anni ’70-’80, quando i fuochi sessantottini si erano ormai mitigati, ma qualcuno ancora aveva il coraggio di guardare alle assi del proscenio da un diverso punto di vista.
Sia chiaro, Chéreau non arrivò a Bayreuth unto dal Signore: il caso volle che Peter Stein per ragioni politiche e Ingmar Bergman declinassero l’invito, e fu il vivace acume del direttore, compositore, intellettuale Pierre Boulez a indicare a Wolfgang Wagner quel giovane regista con dieci anni ricchissimi e discussi di carriera nella prosa, allievo di Strehler, con un film giallo all’attivo e due stimolanti esperienze nell’opera (“Italiana in Algeri” a Spoleto e “Le contes d’Hoffmann” a Parigi).
Erano anni in cui il Ring wagneriano veniva riletto non solo in chiave astratta e atemporale, non solo come tragedia greca, non solo da un punto di vista naturalistico: ma anche da un punto di vista storico.
Joachim Herz, nel ’74 a Liegi diede vita ad un Ring che traeva ispirazione dalla rivoluzione barricadiera del ’48 e quindi dalla biografia wagneriana, il cui esito, nonostante l’interessante ed inedito punto di partenza, riuscì solo a metà; Luca Ronconi, prima a Milano (“Walkure” e “Siegfried”), e poi a Firenze riveduto e corretto, tra il ’79-’81, allestì un Ring ambientato in un ‘800 incombente, pittorico, contemporaneo a Wagner.
Furono proprio i consigli di quest’ultimo che Chéreau cercò ed assimilò con freschezza giovanile.
Chéreau ebbe il coraggio di leggere il Ring come se fosse un romanzo storico radicato nel suo tempo e nella biografia del compositore; in esso, Chéreau, vide le personalità di Bakunin, Schopenhauer, ma anche di Marx, Shaw; lesse la biografia di Wagner in quell’arco teso di venti anni di storia e di cambiamenti; immaginò non solo creature mitologiche, ma soprattutto esseri umani capaci di amarsi e ferirsi, di lottare per il potere, per l’oro, per l’amore; capaci di arrendersi e di contraddirsi, di farsi ispirare da alti ideali, per poi tradirli e redimersi. Tutto questo di fronte ad un mondo che forse non ha mai vissuto quell’innocenza immacolata di una Genesi la cui purezza è solo un’utopica superstizione persa nella storia.
Ed allora ecco la titanica diga sul Reno, le ville postmoderne degli Dei e degli uomini, il Nibelheim e le città dei Ghibicunghi partoriti dagli incubi di Zola e Dickens, foreste stilizzate sedi di draghi barocchi e rocche delle valchirie che vogliono ricordare Böcklin e Friedrich o certi deserti americani; e su tutto, testimoni in movimento, le immani ruote della rivoluzione industriale, che divide gli uomini, i nani e gli dei in lavoratori proletari e grandi proprietari capitalistici; le ondine trasformate quindi in donne di piacere ed Erda e le Norne in donne del popolo anziane, sagge e morenti come il pianeta. Si racconta la storia del mondo fino alle soglie del ‘900, anche attraverso rituali ancestrali come il sudario dell’annuncio di morte o il Gunther che lava le proprie mani; si scava negli orrori interiori, come in Proust, guardandosi allo specchio o negli occhi della propria figlia; si lascia che il sangue scorra: quello di Alberich trafitto brutalmente alla mano dalla lancia di Wotan, la stessa che trapasserà con cinismo (assieme a quella di Hunding) il corpo martoriato di Siegmund; quello innocente di Siegfried che insozzerà la diga ormai svuotata e inutile. In mezzo Brunnhilde, fresca fanciulla pura suo malgrado, come la verità, a cui spetta il compito di amare, soffrire, capire, distruggere e autodistruggersi in una pira che annichilisce tutto il pensiero di Wagner-Chéreau e che lascia sul proscenio muto, impaurito, solo, ma forse più forte una nuova umanità illuminata dalla luce di una nuova era e di un nuovo pensiero.
Questo è Chéreau.
Il regista che ha usato il teatro come uno specchio, in cui far riflettere il pubblico e lacerare quella membrana invisibile tra il proscenio e la realtà.
Questo, il pubblico di quegli anni, lo accetterà solo dopo, col tempo, interrogandosi e lasciando che queste idee sopravanzino la realtà teatrale. Idee che, nel bene e nel male, influenzeranno tutti i registi venuti dopo, i quali cercheranno di rispondere agli interrogativi di Chéreau (a volte riuscendoci) creando tunnel del tempo, strade della storia, scenari da fantascienza di serie B o naturalismi estremi; oppure usando il linguaggio del flashback o dell’immancabile nazismo d’accatto, dal simbolismo più spinto al verismo più insignificante, fino al recente fallimento di Castorf.
Boulez lo rivorrà al suo fianco in altre due occasioni storiche: la “Lulu” di Berg, completata del III atto da Cerha e “Da una casa di morti” nei quali prevale l’approfondimento capillare dei caratteri e della gestualità ricondotte alle pulsioni del teatro novecentesco, al cinema espressionista, ad una psicologia differenziatrice e commovente.
Barenboim, quando era un direttore, lo volle in un “Wozzeck” inquietante e geometrico, in cui le contorsioni psichiche  si trasformavano in edifici, figure tridimensionali, scene semoventi ridotte all’osso e illuminate debolmente allo scopo di rendere tutto più mostruoso, e abitati da personaggi-marionetta disperati e repellenti che muovevano al pianto; un “Tristan und Isolde” a lungo favoleggiato (anche a Bayreuth) e che vide i due amanti uscire dal mito e dal romanticismo, per amarsi come un uomo ed una donna, nella loro tenera crudezza, non solo facendo fremere i pensieri ed i gesti ma soprattutto la carne ed il desiderio, fino a far letteralmente traboccare questo amore sottoforma di sangue, raffigurazione poderosa della morte di Isolde, calma eppure dolorosa, che scompare cadendo inghiottita dal buio.
“Lucio Silla”, “Don Giovanni” ricreavano un mondo elegante di pareti monumentali e volti scolpiti, mentre nel “Così fan tutte” il gioco diventava la feroce raffigurazione di figure settecentesche, all’interno di un dietro le quinte teatrale assolutamente contemporaneo in cui il dolore scaturiva dalla consapevolezza finale di poter amare, ma nel contempo, di convivere con la disillusa sofferenza che questo può provocare, lontano dalla sua idealizzazione più ipocrita e svilità, ma sviscerando il sentimento nella sua normalità.
Di nuovo l’uomo, dunque, e la contemporaneità, la stessa che diventava perversa protagonista nell’ultimo recente, inconsapevole testamento e capolavoro: “Elektra”.
Ecco, l’ultima immagine che ho di Patrice Chéreau: il regista che stringe sorridente le mani di Donald McIntyre e Franz Mazura, compagni nel Ring di quasi quarant’anni prima e nuovamente complici nella bellissima “Elektra” che ricevono l’omaggio trionfale del pubblico.
Questo è il teatro di Patrice Chéreau. Questo il suo mito.

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…ma Chéreau è figura che non si esaurisce certo tra i sipari del palcoscenico. Le geometrie e il rigore che vengono dal teatro trasfondono in una carriera di cineasta che ha trovato la sua cifra proprio nell’asciuttezza della messinscena e nell’esaltazione ossessiva del dettaglio. In un certo senso è il cinema che mostra la sua forma a partire dalle regole dello spettacolo dal vivo, un po’ come le scene del Tristano scaligero all’opposto si muovono in una dimensione osmotica in cui risuonano con slancio echi celluloidei fortemente connotati (il senso della profondità di campo, il fuoricampo, etc.). È come se il cinema di Chéreau scegliesse ogni volta di agire e abitare i binari anarchici del visivo attraverso una regolarità di linee e contorni propri del teatro. Ma il teatro è per definizione anche lavoro di attori. Quindi, di corpi. Talvolta esaltati nella loro grandiosità, non importa se fragile o di facciata – la premiata Virna Lisi nel non riuscitissimo La reine Margot – altre volte giocando con l’ennesima dicotomia che oppone la nudità sana e quotidiana di Bruno Todeschini a quella malata e umiliata di Eric Caravaca nel meraviglioso Son frère  – Orso d’argento per la miglior regia a Berlino nel 2003 – o altre volte ancora – come succede ai protagonisti di Intimacy – meritato Orso d’oro a Berlino nel 2001– diventando ultimo residuo di appagamento emotivo, ritrovato per caso nel perpetuarsi di un rapporto sessuale disperso nella sua anonimia. Ma può anche capitare che il corpo dell’attore – come detto, centrale in Chéreau, proprio perché retaggio che pesca dal teatro – quando non viene esibito – Gabrielle, con Isabelle Huppert – rischi di diventare invece corpo del reato, quello del tradimento, inteso nella sua accezione più classica: la minaccia della relazione coniugale per mano dell’amore adulterino. Ancora da L’homme blessé, passando per Ceux qui m’aiment prendront le train fino all’ultimo Persecuzione, Chéreau continua a mettere in scena di fatti le geometrie e soprattutto gli equilibri che regolano la messinscena e le questioni morali dei personaggi. E è questo che più di altro ci mancherà del suo cinema. L’epica dei corpi in un paesaggio di ragnatela.

Carlotta Marchisio

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