Cronache dalla provincia parte prima: l’Otello ASLICO

capriccioallitaliana8La stagione cremonese apre quest’anno con l’Otello di Verdi, ossia uno degli estremi capolavori del cigno di Busseto e che richiede in primis un grande direttore oltre ad un cast adeguato a reggere le impegnative scritture verdiane senza perdersi nelle trame orchestrali e nei complessi concertati. La serata del 4 ottobre si è aperta con la dedica dello spettacolo alle “vittime del mare” a cui è stato reso omaggio con un minuto di silenzioso raccoglimento prima dello spettacolo. Peccato che la pur lodevole iniziativa – anche se non priva di retorica (sport preferito della benpensante penisola) – si trasformava in un involontario grottesco poiché, terminato l’omaggio e cominciata l’opera, il fatto di cronaca (un barcone di cittadini africani naufragato al largo di Lampedusa) si scontrava con la prima scena dell’opera che descrive, appunto, una nave che sta affondando e un tipo che sbarca esultando perché “l’orgoglio musulmano è sepolto in mar”, mentre il coro inneggia ai tanti musulmani distrutti e affogati che “avranno per requie la sferza dei flutti e l’abisso del mar”… Il cattivo gusto di questa dedica (considerando che i morti di Lampedusa eran tutti musulmani e in mare sono affogati) è il biglietto da visita di una serata all’insegna di quel provincialismo che è sinonimo di approssimazione, faciloneria e scelta al ribasso. Le cose si sono chiarite si da subito, con l’inerte bacchetta di Giampaolo Bisanti che stira, allunga, rammolisce e stempera la partitura sino a renderla un lungo (lunghissimo, visto che riesce a far terminare la serata quasi a mezzanotte) pastone insapore ed incolore. Ma oltre all’estenuante lentezza, fino a sfiorare la parodia, dal podio arrivava una gestione “avventurosa” degli attacchi e degli insiemi, sfociata spesso in veri svarioni con cantanti da una parte e orchestra più avanti o più indietro. Una sofferenza a cui si aggiungevano le frequenti stonature e le vere e proprie stecche (tra cui le trombe dietro il palco nella seconda scena dell’atto III). In scena le cose non andavano certo meglio: tralasciando lo Jago di Alberto Gazale (su cui ruotava l’allestimento e che – pur risultando inadatto alle sottigliezze musicali e psicologiche della parte – mostrava un buon mezzo e una buona presenza scenica, pur con qualche “gigionata” di troppo) la coppia di protagonisti era inaccettabile. La peggiore in assoluto la  Desdemona over size di Daria Masiero: voce povera di volume e di armonici, carente di proiezione e incerta nella gestione del passaggio. Nel grande concertato dell’atto III sparisce, così come non riesce a rendere le espansioni liriche nei duetti con Otello (e mancando totalmente di legato non stupisce). Il Moro di Walter Fraccaro è un tuffo nel passato con gli Otelli urlanti e furibondi (alla Del Monaco per intenderci, ma non possedendone doti, tecnica e talento): l’intonazione qui è un optional così come ogni idea di sfumatura. Comprimari senza infamia e senza lode (infelice visivamente la scelta dell'”astuto seduttore” Cassio), coro rumoroso, ma corretto, orchestra imprecisa e svogliata (del resto c’era poco da fare con Bisanti). Discorso a parte lo merita la messinscena che univa provincialismo, cattivo gusto e ingenuità. Scena unica – una pedana tonda a gradoni che ogni tanto girava, come il piatto dei vecchi giradischi – circondata da teloni che si aprivano sullo sfondo a far intuire ambienti e stanze, costumi vagamente rinascimentali e poche suppellettili (una seggiola, un tavolo, dei lampadari, candele che “arredavano” i diversi ambienti), il tutto illuminato in modo assai poco suggestivo nel tentativo – mal riuscito – di richiamare lo stile di Strehler. All’esito grottesco ci ha pensato il regista con alcune trovate discutibili e involontariamente comiche. A parte che nessuno si guardava, neppure nei duetti (nel duetto d’amore Otello e Desdemona manco si sfiorano) e i movimenti erano lasciati alle (poche) capacità degli interpreti, racconto due scene che rendono l’idea del tutto: durante “Ora e per sempre addio” dietro Otello, Jago si muove “mimando” marcette militari, bandiere e atteggiamenti gloriosi (manca giusto la scala e il tiro alla fune); alla fine del “Credo” di Jago, spunta da terra una nera figura incappucciata con tanto di falce in mano, a cui Gazale, verso la fine del brano, strappa il velo, rivelando una donna seminuda sul cui seno si avventa… Confido che il livello migliori con i prossimi appuntamenti della stagione.

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32 pensieri su “Cronache dalla provincia parte prima: l’Otello ASLICO

          • C’è da intendersi: Gazale è stato un buon Jago? No: troppo gigione, poco rifinito, fuori repertorio etc…ma almeno il mezzo è buono ed è sorretto da un’idea – pur vecchio stampo – di interpretazione. Detto questo gli altri erano MOLTO peggio, a cominciare dall’inaccettabile Desdemona della Masiero (che mi dicono essere invece molto apprezzata a Parma, ma questo non mi stupisce) e dall’Otello di Fraccaro che urla dalla prima all’ultima scena con traballamenti di intonazione e trucchi da arena civica (le consonanti MAI pronunciate ne sono un esempio). Non so chi ha definito Gazale “spaventoso”, certamente uno che per varie ragioni ha spento l’udito ogni volta che il Moro e consorte aprivano bocca…

  1. io ho sentito qualche volta Gazale (Sharpless, Nabucco dal vivo per esempio, nonché le sue incisioni giovanili nelle basi per baritono) non é un fulmine di guerra ma comunque un onesto baritono che credo si guadagni onorevolmente il suo cachet (che presumo non sia elevatissimo)

  2. Mi dispiace per il Maestro Bisanti che da noi a Cagliari ha diretto proprio Otello ( con l’ORRIDA E INSULSA regia di Nekrosius ..e me ne frego di chi lo idolatra…) e lo aveva fatto molto bene, mi risulta strano leggere che i tempi siano stati così lenti, qui da noi tutto il contrario, tutto molto equilibrato…e “tirava giù” il teatro ogni sacrosanta sera. saluti Maometto II

  3. Anch’io ho assistito alla rappresentazione di Como e sottoscrivo il giudizio di Billy Budd sul direttore d’orchestra che ha ricevuto molti consensi dal pubblico. La regia, pur non proponendo soluzioni visivamente pregevoli, se non altro, nel suo minimalismo, aveva il pregio di non disturbare la musica e questo l’ho apprezzato
    .

  4. Non voglio offendere nessuno, ma mi chiedo come vi possa piacere un’Otello trascinato con tempi letargici e lasciato all’anarchia di entrate sballate stecche scrocchi e amenità varie… Ma che metro di giudizio usate? Non devo stupirmi se qualcuno ancora oggi contesta quello di Kleiber..evidentemente abbiamo idee diverse sulla direzione d’orchestra

  5. sei il solitio saccente . considerata la mia età e la tua credo di aver ascoltato l’Otello di kleiber più volte di te. mica sempre , però, si può avere a disposizione kleiber, karajan, mitropoulos, bernstein ecc ecc ecc…stamo parlando dell’AsliCo mica della Scala dei tempi d’oro…e comunque non è che TUTTO il pubblico sia fatto di c*****i incapaci di giudicare una direzione d’orchestra, da quanto scritto anche da altri su questio stesso sito mi par di capire che la direzione in quesione a molti è sembrata più che decente

    • Allora: leggi quanto ho scritto e rifletti sulle tue accuse di “saccenza”. Se vuoi far polemica, però, accomodati: come ben sai ci provo gusto. Quanto a quest’Otello e a Bisanti: che vuol dire “siamo all’ASLICO”? Questo giustifica esecuzioni raffazzonate? No…anche perché nello stesso teatro e dalla stessa orchestra ho ascoltato cose ben più pregevoli sia in precisione sia in interpretazione (Medea, Puritani, Figlia del reggimento, Don Pasquale…). E non è che dirigevano Muti, Abbado o Boulez… Evidentemente un buon direttore sa cavare il meglio anche da orchestre non eccellenti. Quanto a Kleiber: il mio era solo un paragone perché a volte leggo critiche al Verdi di Kleiber da parte di chi, magari, trova buona una direzione come questa… Infine il pubblico: ti ho censurato la parola, ma il significato è evidente. Io non ho grande rispetto del pubblico, almeno per quel che ho visto negli ultimi tempi: sembrano automi dotati di un meccanismo spara applausi che disattiva l’udito.

        • Non ne ho mai fatto mistero…del resto spessissimo mi sono ritrovato in mezzo a “turisti” (in senso ampio) capitati a teatro solo per scattare foto e “taggarsi” su FB alla Scala. E sono la tanti. Gli altri sono quelli che parlano in continuazione, scartano caramelle, mandano sms, tossiscono come fossero in un sanatorio, applaudono in momenti inappropriati (tra un movimento e l’altro di una sinfonia, dopo una strofa di un’aria, dopo l’acuto anche se non conclusivo, o prima degli accordi cadenzali profittando di una pausa in partitura – come sentii con raccapriccio ad un Messiah alla fine del coro dell’Hallelujah, prima delle due ultime battute), pontificano sul presunto belcantismo di Turandot, cronometrano il do del tenore… E questo sarebbe il pubblico sovrano?

          • Vi faccio notare che state parlando di serate diverse. Appurato che Bisanti non è né Karajan, né Kleiber, etc… Trovo abbastanza normale il fatto che ci siano serate meglio riuscite e comunque dignitose e serate completamente sballate…

          • Giustissimo!…Proprio come quelli che non sanno cantare una nota e sanno tutto della tecnica!

          • beh, esistono quelli che fanno i cantanti e non sanno cantare, dunque …..di solito il tuo è l’argomento di cantanti cani e rispettivi maestri. E’ sempre l’estremo argomento di quelli che di canto non sanno niente pur vivendo di quello….nota storica: i piu grandi maestri di canto sono stati o cantanti falliti o persone che non facevano i cantanti. Medita sugli slogan che sbandieri senza pensare

          • beh, esistono quelli che fanno i cantanti e non sanno cantare, dunque …..di solito il tuo è l’argomento di cantanti cani e rispettivi maestri. E’ sempre l’estremo argomento di quelli che di canto non sanno niente pur vivendo di quello….nota storica: i piu grandi maestri di canto sono stati o cantanti falliti o persone che non facevano i cantanti. Medita sugli slogan che sbandieri senza pensare

  6. Su su, nonna Giulia, non semplifichiamo così superficialmente!
    Pistocchi ebbe uno studente come Bernacchi, che a sua volta ebbe una scuola. Di contro, il Tosi del celebre trattato era – a quando pare – un mediocre cantante e del quale non si conoscono allievi.
    Porpora, stavolta un non cantante di professione, fu maestro dell’Ansani, che fu maestro di Manuel Garcia padre e di Luigi Lablache. Garcia padre insegnò canto al figlio Manuel – mediocre cantante che insegnerà canto -, alla cara Maria, e forse insegnò qualcosina alla Pauline, la quale venne vocalmente educata da Madame Garcia e da Manuel figlio. Manuel figlio appunto insegnò principalmente (si dice che il padre un giorno lo prese a urla perché non sapeva fare dieci variazioni di uno stesso passo, e poco cantò sul palco) mentre Pauline fu grande cantante come sappiamo ed insegnò pure – due studentesse a caso, la Adini e la Salvatini.
    Cotogni fu un grande cantante e pure grande maestro di Gigli, Stabile, Lauri Volpi etc. Altri a caso, Carmen Melis fu insegnante della Tebaldi e della Orlandi-Malaspina.
    Per noi del futuro che vediamo spesso solo i frutti migliori, succede poi effettivamente un bel CRACK a questo punto, in cui non c’è più la forte continuità del passato nell’insegnamento, non si va più a lezione ogni giorno, si paga una botta di soldi per poter andare ad ogni lezione (e come ricorda il buon mozart2006, pagando anche profumatamente per farsi sentire da celebri mezzosoprani), cantanti di professione e con buone carriere che non sanno spesso minimamente coltivare una voce che parte da zero, e vediamo maestri per scelta come un Marcello del Monaco o per richiesta come Celletti, che insegnano canto.
    Di recente mi sono chiesto cosa volesse dire cantante mediocre nel passato e mi sto facendo sempre più l’idea che volesse dire un cantante con doti medie che non fece carriera perché cantanti migliori di lui erano in giro (vedi Manuel Garcia).
    Oggi invece ci sono tante figure come un Blake, un Olsen, un Kunde che sono stati buoni cantanti e che hanno anche una “scuola” se così vogliamo chiamarla, ma pur nella perizia manifestata dai loro maestri per i loro allievi, non si vede niente in giro.

  7. però a conti fatti i grandi maestri di canto ossia i due lamperti, la marchesi e garcia jr o non erano cantanti o lo furono mediocri. E poi mettiamoci pure Arditoi che faceva il direttore d’orchesta.
    Lauri Volpi su Cotogni diceva che sapeva insegnare solo ai baritoni (ne sfornò però una teoria perché pure Batttistini ebbe contatti con Zio Toto).

    • Non fecero carriera, ma non significa che non sapessero cantare, ovverosia dimostrare in prima persona con l’esempio pratico ciò che dovevano insegnare. Per fare carriera bisogna ANCHE saper cantare, ma servono tantissime altre doti. Il punto è che non si può insegnare qualcosa che non si sa fare. Un aspirante cantante può apprendere gli aspetti musicali, il solfeggio, lo stile, anche da un semplice musicista non cantante, ma l’imposto vocale si impara solo da chi quell’imposto ha in prima persona conquistato, fatto proprio, e compreso con profonda coscienza.

    • Giovanni Battista Lamperti (Lamperti figlio) studiò canto ed infatti sono note le divergenze tra il suo metodo e quello del padre, anche se sarà quello del padre a sbarcare in America e avere i suoi frutti moderni!

      Quanto alla Marchesi, che comunque fu allieva di Garcia figlio e cantò su un palco, insegnò soprattutto a donne (a tutti quando stava a Vienna, e solo ad allieve quando fondò la sua scuola privata) e tanto per dirne una, sia lei sia il marito (Salvatore Marchesi, che scrocca il cognome della moglie) scrissero separatamente dei trattati ed vocalizzi per gli allievi.

      Concordo poi con Mancini su quanto dice: si pensi che Manuel Garcia figlio a novant’anni suonati riusciva a fare scale di due ottave 😉
      a me è sempre sembrato il povero “minorato” normale nato in una famiglia di mostri musicali XD

  8. proprio qualche giorno fa mi é tornato sottomano un articolo di Rodolfo Celletti scritto su Musica Viva negli anni novanta, su quelli che lui chiamava i “Vu cantà”…bellissimo articolo…ma vedo che sono sempre i soliti discorsi. Io insisto col dire che ci vogliono persone con doti naturali fuori dal comune e grande passione per fare un grande cantante. Un maestro che ti indirizzi per un paio di anni poi meglio lasciare da parte il maestro, munirsi di un buon vocal coach (che di solito é un pianista che ha fatto il maestro collaboratore in teatri dove gli sono passati sotto cantanti di ogni fatta) e lavorare con lui quasi da autodidatta.-

    • senz’altro un buon pianista ripassatore di spartiti (ma oggi non ce ne sono più di buoni come un tempo) può fare mille volte meglio di tanti sedicenti maestri di canto, proprio perché si focalizza solo sugli aspetti esecutivi, musicali, senza toccare la vocalità ed inculcare manovre assurde che poi sono quasi sempre alla base di orrendi difetti. Sono d’accordo anche sul fatto che da sempre, ogni grande cantante parte da una spiccata dote di natura, da intendersi come naturale attitudine al canto. I veri maestri sono sempre stati rarissimi.

      • felicissimo che su questa questione concordiamo. Proprio perché sono convinto che tu abbia ragione a sostenere che “il canto é uno” (anche se possiamo avere mille sfumature di pensiero per arrivare a questa tua brillante definizione) all’esito di anni ed anni di “vu canta’ ‘” derubati, la soluzione che prospetto é forse e quantomeno la più praticabile e meno gravosa per il portafogli del prossimo. Qualche buon ripassatore lo conosco e fortunatamente esiste.-

    • Io invece non sono d’accordo, visto che come sempre parli di cose che non sai 😉
      Maria Callas fu allieva della De Hidalgo e la faceva venire a Milano per studiare ancora con lei negli anni ’50.
      Angela Gheorgiu, iniziata la carriera, ha smesso di studiare con un maestro e continua autodidatta.
      Sappiamo TUTTI chi è rimasta alla storia e chi invece verrà dimenticata!

      Quello che un cantante sente non è quello che un orecchio allenato esterno sente, tant’è che si impara sempre e sempre si può migliorare (vedi Gigli che diceva che ci vuole una vita per cantare ed una per studiare; vedi Corelli che studiò con Lauri Volpi; vedi Bonynge, che sa di canto, ed il lavoro con la Sutherland).

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