Nella cultura italiana al termine Verismo si associa il Meridione d’Italia, per contro a Trieste Mitteleuropa, cosmopolitismo, impero asburgico ed Irredentismo, ragionando per categorie generalissime e preconcetti, che nel mondo della musica ancora imperversano, e che semplici dati cronologici smentiscono. Esaminate vita di Verga e vita di Capuana, ovvero dei due caposaldi del nostro Verismo siciliano ovvero del Verismo, che più Verismo non si può (il terzo è de Roberto, pure esso isolano, pure esso di formazione ed esperienze ambrosiane) scopriamo milanese la loro formazione culturale, ovvero della città della Scapigliatura e da questa in parte discende. Quella Scapigliatura, che, magari con una certa dose di provincialismo, rappresentò e ne abbiamo parlato in occasione di Loreley, il tentativo letterario e musicale di superare la tradizione imperante del Romanticismo. Non solo la formazione, ma anche le prime esperienze dei due sono milanesi d ambientate a Milano alcune delle loro prime opere. Poi l’adesione o addirittura l’invenzione del verismo portò Verga e Capuana ad ambientare le proprie opere in quei luoghi ed in quei tessuti sociali, che più d’ogni altri conoscevano. Alla fine l’unica vera unica esperienza di Verismo nata e sviluppatasi nel Meridione sembra essere quella di Matilde Serao, napoletana di nascita, formazione ed estrinsecazione della attività letteraria ed artistica. E se aggiungiamo che talune frange della critica letteraria ritengono Emilio de Marchi rappresentante del Verismo viene il dubbio che la patria o almeno una delle patrie del Verismo fu Milano. La conclusione di Milano patria del Verismo è rafforzata dalle vicende personali e musicali dei maggiori musicisti di questa corrente, fossero essi gli allievi di Ponchielli, nativi della Toscana, fossero pugliesi accampati in deposito di un lapicida del Monumentale e pronto a musicare un libretto (Andrea Chenier) che nessuno voleva.
Tutto questo per capire che il fenomeno Verista interessò l’intera penisola e con tratti piuttosto comuni.
Inutile, quindi, in Nozze Istriane (prima rappresentazione a Trieste il 28 marzo 1895 e rappresentazioni limitate a Trieste e terre limitrofe e poi diremo perchè ) cercare solo quegli elementi che la communis opinio ritiene essere peculiarità triestina o giuliana. Ci sono eccome, ma abbiamo uno dei titoli aderenti al gusto ed alla poetica verista, magari in versione triestina, ma sempre Verismo. Talvolta addirittura più autentico del Verismo più famoso e rappresentato.
Primo ingrediente verista la vicenda storiaccia di sangue perché l’opera esattamente come Cavalleria Rusticana finisce in un duello fra l’ amato (Lorenzo) da Marussa (la protagonista) ed il quasi marito della (Nicola) imposto con l’inganno dal gretto genitore Menico e di un malvagio sensale Biagio. Nel mondo verista Marussa non è la sola donna piegata al matrimonio pensiamo alla protagonista (Bianca Trao) di Mastro don Gesualdo o anche ad Arabella Pianelli Maccagno del De Marchi, entrambe piegate al nascosto comando del salvare la propria famiglia da disgrazie e guai economici.
Secondo ingrediente la coppia protagonistica ovvero Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, primi Santuzza e Turiddu e furono (al di là della vocalità soprattutto di lui) i padrini vocali del Verismo. Preciso che la distribuzione dei ruoli tiene ben conto della differenti forze dei due protagonisti. Stagno era alle soglie dei sessant’anni, poco da vivere (sarebbe morto nel 1897) mezzi affievoliti ed in omaggio vuoi all’origine di tenore romantico e vuoi alle condizioni vocali gli sono riservate come assoli due “canzoni” precisamente alla scena settima del primo atto in forma di stornello amoroso ed al secondo atto nella forma (popolare) della bottonata. Nei duetti con Marussa alla chiusa del primo atto ed la terzo la vera protagonista è il soprano ovvero la Bellincioni. A Marussa, poi, è riservata la drammaticissima fine del secondo atto quando vessata ed ingannata la ragazza cede alle pressioni paterne per sposare Nicola in luogo dell’amato Lorenzo. Di fatto la vera protagonista su cui ruota l’ora e mezza abbondante di testo musicale.
E con l’esame della parte di Marussa arriviamo al terzo ingrediente tipicamente verista di Nozze istriane: il mito della prima donna. Dire Verismo e dire primadonna è quasi sinonimo, soprattutto nel Verismo nobile di Fedora (o di Iris e Tosca) più che non in quello contadino e plebeo. Eppure – cronologie alla mano- è proprio Smareglia che in un dramma di ambientazione popolare codifica questo mito. Nel 1895, infatti Fedora, Iris, Adriana, Tosca erano ancora di là da venire. Basta esaminare non solo i numeri riservati a Marussa, ma i mutamenti di stato d’animo, che si ripercuotono nella linea vocale dove la protagonista (che di fatto non canta mai arie nel senso tradizionale) è chiamata ad essere ora affettuosa ed accorata, poi dolente e poi tragica con slanci vocali ed orchestrale non proprio leggero, anche se esente dalle peggiori “trombonate” veriste. Il terzo atto di fatto è una grandiosa scena della prima donna, che estrinseca tutta la gamma dei sentimenti umani.
Quarto ingrediente anch’esso verista: la poetica degli umili o dei vinti. Traditi come dice Marussa alla scena prima del terzo atto, quando ricostruisce grazie a Luze gli accadimenti e gli inganni. Tutti traditi e vinti: Lorenzo che non sposerà la donna che ama, riamato, e che morirà assassinato per mano di Nicola, -altro vinto, ingannato anch’esso da suocero e Biagio, subdolo mezzano di nozze. Tradite e vinte entrambe le donne ossia Marussa, che viene ingannata dal padre per indurla ad un matrimonio dopo avere chiaramente manifestato al gretto genitore il desiderio di altro uomo e soprattutto Luze. Vinta povera ed emarginata una sorta di Nedda istriana Luze è montenegrina, quindi slava, in una terra che ha sempre affermato la propria italianità e respinto come stranieri gli slavi, è zingara, è pure ragazza madre ovvero l’emarginata per eccellenza. A lei Smareglia affida il monocorde canto del dolore nella prima sortita è lei, che viene umiliata dal bieco Biagio quando porta le sue fragole al mercato (tutto quello le consente di sopravvivere) ma è sempre lei a rivelare a a Marussa l’inganno in forza di una solidarietà e pietà, che ripaga la solidarietà e pietà di cui Marussa l’ha fatta oggetto al primo atto.
Quinto ingrediente il colore locale o folklore dove Smareglia supera gli altri autori veristi nella ricerca e proposizione del Vero perché, come Verga con la Sicilia, Smareglia ambienta il dramma nella propria terra. L’opera è punteggiata di momenti dedicati alla musica locale in particolare il richiamo alla villotta una forma letteraria e poi musicale (che Pasolini definirà “Brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito talvolta ciecamente malinconico, malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi di pino, nelle notti tiepide”) nel finale primo e nel finale terzo, quando sta per consumarsi il dramma del matrimonio. La villotta, insomma, suona festosa al finale primo sulla frase di Lorenzo: “Anche per noi, Marussa, verrà il di della villotta” e, poi, lugubre accompagnamento al finale dove la morte esclude ogni possibilità d’amore. Sempre nel finale primo al matrimonio di Menina dove il coro canta una melodia popolare sulle parole “la piange” che suonano come una italianizzazione del dialettale “la pianse”. Ed ancora il ricorso alla bottonate o bitinate nel finale secondo ad opera di Lorenzo, che insulta Marussa, creduta fedifraga. Va segnalata una differenza con il modello verista, che possa chiamarsi Cavalleria o Pagliacci, dove gli autori cercano il “locale” ovvero il coro dei contadini, il batter di frusta, che introduce compare Alfio e magari lo stornello (manco fossimo in provincia di Livorno o Grosseto) con cui Lola ancheggia fuori dalle quinte senza nessun richiamo a musiche locali solo utilizzando i pezzi di colore per ricordare al pubblico i luoghi del quotidiano dove si consumano le tragedie (spesso fatti di sangue secondo l’immagine del Meridione allor più accreditata) di tutti i giorni. Ma non hanno nulla di autenticamente locale a differenza di Smareglia.
Al contrario Smareglia e qui entriamo in quello che potrebbe essere il sesto ingrediente del Verismo di Nozze istriane, ovvero la ricostruzione dell’ambiente, affidata ai protagonisti ( e non come d’abitudine al coro), il richiamo fedele e costante alle usanze, ai riti tradizionali (fidanzamento e matrimonio) di Dignano e dell’Istria, l’indicazione nel libretto di note di regia e suggerimenti per la scenografia, che fanno tutt’uno con la musica. E questo aspetto peculiarità di Smareglia, atto di amore alla terra d’origine, declinazione del Verismo, si è, nel tempo, rivelato un ostacolo alla circolazione del titolo ed fama fuori delle terre giuliane. Eppure Nozze istriane sono un titolo, che al di là della difficoltà e dell’onerosità della parte della protagonista, creerebbe nell’allestimento difficoltà e rischi ben minori di Pagliacci o Andrea Chenier.
Ma c’è un ma che è rappresentato dallo stacco di Smareglia dalla restante produzione italiana coeva e il limite proprio alla popolarità di questo titolo e che si può riassumere –grossolanamente- con Wagner, di cui l’autore fu sempre ammiratore incondizionato. L’assunto deve essere spiegato. L’impatto, che ebbe il melodramma verista nei suoi primi anni sul pubblico ed il conseguente favore stava nella semplicità delle storie narrate, nella presa facile sulle emozioni degli ascoltatori, sulla facile cantabilità delle arie più famose, quelle che fecero la fortuna delle prime registrazioni e che nelle prime registrazioni trovarono un ulteriore veicolo di trasmissione verso il grande pubblico. Pochi ed eletti analizzavano altro di quella vasta produzione. Quell’altro (molto) che faceva eseguire a Mitropoulos il primo atto di Fanciulla senza cantanti, che faceva ritenere a Erich Kleiber Fedora un capolavoro per citare i primi esempi. Del nazional popolare Nozze istriane è priva, o meglio è un nazional-popolare che siccome autentico incontra approvazione e apprezzamento da Udine a Pola, per essere larghi. Troppo poco.
Al grande pubblico quello che piange per la morte di Mimì quale fatto (e non per come orchestrata) o per l’attacco di Gigli della “gelida manina” o per il furore di Caruso cornuto Canio, l’assenza di arie solistiche (che ritroveremo vent’anni dopo in Francesca da Rimini) sostituite dagli ariosi di Marussa –prima vera declinazione della primadonna verista- la precisione del colore orchestrale, i temi, che accompagnano un personaggio, come accade con i colori lugubri riservati a Luze, e soprattutto le grandi pagine sinfoniche, che aprono i tre atti e che guardano oltralpe verso la collina, anzi la Collina sono un difetto e non un pregio. Sono qualcosa, per ritornare al titolo di “proibito”. Proibito – mi sia consentito- perché difficile da capire o, come si dice oggi, metabolizzare.
Grazie per la splendida disamina (molto interessante la notazione sull’origine “scapigliata” e milanese di Verga e Capuana, non ci avevo mai fatto caso). Ed anche per aver postato un’edizione che, appena avrò un poco di tempo, ascolterò.
maria chiara splendida è dire poco! canta tutto ed anche l’interprete è buona.
quanto all’origine milanese ed alla meridionalità autentica ed esclusiva solo della Serao ci ho lungamente pensato in questo ultimo periodo. Ti aggiungo una cosa come spunto di riflessione (per il momento è solo uno spunto) ovvero che la grande tradizione meridionale è quella della filologia che nasce da Basilio Puoti, maestro di de Sanctis. Lì, credo, risieda l’apporto meridionale alla cultura nazionale. Credo devo studiare un po’. Tanto
Frequentavo il secondo anno di medicina quando potei assistere al Teatro Verdi a tre recite di queste NOZZE ISTRIANE (radiotrasmesse dalla RAI regionale con sede a Trieste) che ho perfettamente impresse nella memoria.
La protagonista prevista, in origine, era Mirella Freni, sostituita poi da Maria Chiara che due anni prima era stata, sempre al verdi, intensa Violetta e che tornò poi anche quale stupenda Manon di Massenet (ovviamente ai tempi cantata in italiano!) al fianco di Alfredo Kraus.
Poi di Smareglia si eseguì LA FALENA, con Leyla Gencer diretta da Gavazzeni (pure documentata da una diretta radiofonica).
NOZZE ISTRIANE sono state poi riprese anche negli anni Ottanta, se la memoria non mi tradisce.
Opera molto suggestiva e assolutamente degna di tornare spesso sulle scene.
Grazie per avercelo ricordato!
non sono io il “regista” di questa musica proibita ma abbiamo in serbo cose ancor più proibite e dismesse. Purtroppo!
Spero anche “La Fiamma” di Respighi a cui mi ha fatto pensare il tuo bell’articolo.
arderai a suo tempo, credo fra un annetto se non mi sbaglio!!!!
Perfetto!
Caro Donzelli, anzitutto grazie per questa stimolante pagina su “Nozze Istriane”. Vorrei semplicemente porre delle domande . Non trovi che sia molto piu’ verista quest’opera delle coeve Cavalleria e Pagliacci ? Mi spiego meglio:in Smareglia la ricostruzione d’ambiente e’ reale, in Mascagni, invece, mi sembra bozzettistica e, a mio avviso, un po’ falsa, usando , almeno in Cavalleria, un po’ tutto:recitativo-arioso verdiano,il leitmotiv wagneriano,pezzi da operetta etc..E questo punto ne tira un secondo:questa descrizione facilotta dell’ambiente avviene a scapito della psicologia dei personaggi,cosa che con Smareglia non avviene, a fronte della ricca tavolozza di sentimenti espressa da Marussa abbiamo gli stereotiopi mascagnani: il geloso violento ( l’orribile-musicalmente- carrettiere),lo sciupafemmine mammone,la donna adescatrice, la donna che soffre, la mamma che piange ( ricordi Iannacci: mentre la mamma piange o prega nella camera…) . E qui, ti chiedo , non pensi si inserisca un’altra differenza che ha fatto la fortuna di Mascagni e soci , ovvero quella facile cantabilita’ che manca nelle Nozze Istriane ( forse il limite di questa opera),arie facili da memorizzare che svettano in acuto.
Infine, forse la differenza piu’ importante e’ l’orchestrazione, iniziando a sentire l’opera, la scena del temporale come e’ differente dall’intermezzo di Cavalleria,violini primi e secondi all’unisono all’ottava: ale’ !!!Il pubblico , poi, dell’italietta umbertina, si ritrovava certo di piu’ nelle semplificazioni mascagnane che nella piu’ “difficile” musica di chi forse, era uno dei veri rappresentanti del verismo.
Permettimi una battuta finale: accanto a questa utilissima “Musica Proibita” , in futuro, si puo’ affiancare una”Pseudo-capolavori da ridimensionare”? Inutile dire a chi sto pensando. Scusa la lungaggine. Massimo
la popolarità di cavalleria che nel genere bozzetto (non per nulla nasce da una novella) è assolutamente perfetta per la combinazione di brevità e dramma discende dalla vasta popolarità che ebbe subito all’estero propiziata dall’idea che fuori d’Italia si aveva dell’Italia, dal fatto che il Verismo per le origine dei suoi autori fosse identificato come un movimento meridionale e per la possibilità di cantare offerta agli interpreti. Mi pare di averli evidenziati tutti questi elementi. Quanto ai personaggi io credo che in cavalleria Santuzza sia quella più variegata e devo anche dire quella cui Mascagni riserva gli accompagnamento musicali più toccanti ed azzeccati. Certo a conti fatti Marussa la batte, infatti ho scritto che è la prima declinazione della prima donna verista e, benché popolana, apre la strada alle primedonne del verismo nobile (non a caso la Bellincioni sarà la prima Fedora).
Poi cavalleria ebbe un’altra fortuna Pagliacci. Per durata, argomento e immagine dell’Italia all’estero erano fatte una per l’altra. Ed anche questo va pesato nella storia della popolarità di Cavalleria.
Ti aggiungo che l’ascolto di questo ultimo mese del titolo mi ha convinto che meriterebbe una ripresa e meriterebbe prima di tutto una cospicua bacchetta. Ne ho in mente due, che ritengo adattissime proprio per i richiami middleuropei di Smareglia.
Ti aggiungo un ultimo dettaglio ovvero la popolarità planetaria di Cavalleria mi ricorda la vicenda dei premi Nobel assegnati agli italiani. A partire da quello a Grazia Deledda (1926) nel quale ebbe rilevanza anche il regime fascista (all’epoca considerato con favore all’estero) e soprattutto l’aderenza all’idea che dell’Italia si aveva all’estero. Anche la preferenza per Quasimodo (a svantaggio di Montale, Ungaretti e Bacchelli che nella prosa era certo di vincerlo, come narra Orio Vergani ne “le misure del tempo”) nacque dalla notorietà che il poeta siciliano aveva all’estero in forza di traduzioni ottimamente realizzate delle sue opera. Taccio i motivi dell’ultimo Nobel italiano alla letteratura, ce lo dice il capolavoro di Leoncavallo.
Aggiungerei qualcosa sull’equivoco della definizione “versimo”. Sono convinto che il pubblico internazionale colse in Cavalleria e opere affini elementi di esotismo ( terre e classi sociali lontane e “pittorseche” ). Non è un caso che l’approdo all’esotismo – geografico e anche cronologico – fu un tratto grandemente caratterizzante tutta la Giovane Scuola ( oltre che presente nella cultura europea tra i due secoli ). E una delle caratteristiche dell’esotismo è quella non di descrivere il reale ma di inventarlo e reinventarlo di sana pianta. Operisticamente parlando il verismo in senso stretto, a mio parere, non è mai esistito.
Infatti fraintendiamo verismo con verita’ e realismo
Ho conosciuto la musica di Smareglia molti anni fa, grazie al caro amico Gianni Gori, musicologo di altissimo profilo e gentiluomo di quelli di cui oggi si è perso lo stampo. Spero che abbiate previsto anche dei post dedicati a partiture come “Abisso” e “La Falena”. A sottolineare ulteriormente il valore di Smareglia si potrebbe ricordare che Toscanini gli diede l’ incarico di completare la partitura del Nerone boitiano in vista della prima esecuzione assoluta dell’ opera, alla Scala nel 1924.
per poi litigare e togliergli l’incarico. Sappiamo che Toscanini era maestro nel politically incorrect!
Ah se è per quello…basta pensare al fatto che come primo Calaf scelse un tenore che Puccini detestava!
per altro non credo neppure alla storiella di lauri volpi pensato quale primo calaf. Quel do optional mi sa tanto che Puccini avesse in testa Pertile o de Muro!
Ma lo scelse Toscanini? Perché pare che si detestassero pure tenor e direttore!
Onore a questa rubrica, che continua con originalità ed eccellenti risultati a concentrare l’attenzione su un periodo della nostra storia operistica su cui si sta lentamente avviando un opportuno ripensamento critico. L’intervento di fazzari mi sembra vada nella direzione opposta: per esempio il ritornello sull’italietta umbertina avida delle semplificazioni mascagnane. Il fatto è che Cavalleria piacque enormemente da Londra all’America, da Berlino a Budapest: (un’idea francamente un po’ troppo estensiva di italietta umbertina). Gustav Mahler, sempre per rimanere al’italietta umbertina, fu estimatore di Mascagni ( e di Giordano ) che invitò a Vienna. Vi sono degli appunti di Brahms in cui si descrive , con dichiarato stupore, l’accoglienza clamorosa che i viennesi fecero a Mascagni. Quanto poi ai violini all’unisono inviterei fazzari alla lettura – ad esempio – del saggio di Roman Vlad sul inguaggio musicale di Cavalleria comparso nel volume pubblicato da Sonzogno in occasione del centenario dell’opera. Gli spunti di riflessione sono molti e molto sorprendenti. ( E comunque Cavalleria è il grande equivoco che compromette la percezione diffusa dell’arte di Mascagni, di cui sarebbero prima di tutto da conoscere Iris e , soprattutto, Parisina: è come se di Verdi si conoscesse Ernani ma non Ballo in Maschera e Otello ).
Per tornare a Smareglia: eccellente l’osservazione finale di Donzelli: i problemi per la diffusione di questo repertorio sono spesso opposti a quanto il lugo comune vorrebbe. Si tratta di opere di non semplice fruizione e ormai purtroppo al di fuori dall’orizzonte della parte ( maggioritaria ) del pubblico odierno, impigrito ad ascoltare e riascoltare sempre gli stessi titoli.
Ringrazio i padroni di casa per questa benemerita rubrica che da a tutti lo stimolo e l’occasione di farsi un repertorio di ascolti che altrimenti, diciamolo pure, difficilmente faremmo. Interessante autore, interessante opera che vale la pena riascoltare, splendida prova di Maria Chiara. Un esempio, canta tutto e tutto con la propria voce, senza mai forzare, senza barare o facendosi prendere la mano, senza inventarsi la voce che non aveva.
una delle cose più belle, più sentite della Chiara. In questo il sentire ed il fervore della Chiara mi ricordano Rosetta Pampanini, con altri mezzi e anche altro gusto. Di fatto interpreti semplici, comunicative, immediate.