Parsifal(lo) a Bologna: “Dolore-di-cuore”

melevisioneQuesto “Parsifal” è stata una truffa, una bufala, una presa per i fondelli. La celebrazione del nulla.
Sono in difficoltà nell’esprimere un parere su questa edizione di “Parsifal”, perché, davvero, non ha nulla a che vedere con Wagner, non ha nulla a che vedere con il “Parsifal”, nemmeno un collegamento con le saghe medioevali, non ha nulla a che vedere con l’opera lirica, non ha nulla a che vedere con il teatro.
Di cosa volete che vi parli? Dell’orchestra a ranghi ridotti, priva del numero di archi prescritti, priva di intonazione, precisione, scansione ritmica, priva di attacchi puliti, priva di ampiezza risultando rinsecchita, fiacca e svogliata nel suono e nel colore, priva di quell’equilibrio cristallino voluto dall’autore proprio a causa della mancanza degli strumenti e della loro coesione?
parsifal-castellucci-00Volete che vi parli della direzione? Quale direzione? Quella di Roberto Abbado, “direttore” che ha abbondantemente in precedenza sfregiato con cinismo compiaciuto Rossini (Zelmira, Ermione, Donna del lago) o Verdi (Ernani)? Ci vuole una bella dose di sprovvedutezza nell’ affidargli, addirittura, un “Parsifal” con queste pessime credenziali; che di fatto viene tradito, disatteso, reso irriconoscibile da tempi non letargici, ma tombali, da un’agogica talmente dilatata da far gelare la musica, da un fraseggio rattrappito e di piattezza disarmante gettato via in un calderone dove infinite sono le pause coronate da imbarazzanti silenzi; e dire che lo stesso Abbado aveva annunciato in una intervista che la sua sarebbe stata una lettura “all’italiana”, qualunque cosa voglia dire, “ricca di rubati”: mi sarebbe bastata una direzione dignitosa, perché le uniche cose “rubate”, qui, erano tempo, pazienza e biglietto. Due soli erano i momenti di discreta fattura: l’interludio che accompagna Parsifal, Gurnemanz ed il cambio scena al primo atto e l’ouverture del terzo, nei quali almeno i tempi e la solennità, assenti altrove, erano giusti. Per il resto una interpretazione fatta di niente e priva di senso.
Parsifal in WoodsE dire che avrebbe avuto la possibilità di ispirarsi e proseguire la tradizione del Wagner “italiano”, oppure guardare agli esiti dei teatri italiani ben più lungimiranti di Bologna che erano riusciti ad allestire, in questi ultimi anni, il medesimo titolo con risultati rilevanti: penso ai casi di Genova, Torino, Santa Cecilia, Napoli, esempi di serietà e professionalità.
Offeso irrimediabilmente a Bologna, questo “Parsifal” avrebbe dovuto anche celebrare il centenario dal primo storico allestimento italiano (Borgatti, Rakowska-Serafin, Cirino, Gandolfi, Rossi-Morelli, Medori diretti da Ferrari), terminati i diritti che vedevano il titolo proprietà esclusiva di Bayreuth.
Ha fallito.
Dovrei parlarvi anche del cast? Dei cantanti? Ma quali? Quegli individui di vocalità indefinibile che agivano su un proscenio microfonato? Un protagonista, Andrew Richards, afonoide, spoggiato e stimbrato; una Kundry, Anna Larsson, inconcepibile di timbro, caricaturale e slabbrata nell’emissione; un Gurnemanz, Gabor Bretz, solita voce dell’est, ingolato, stonato e gutturale, che, se paragonato agli altri, sembrava dignitoso, ma che in un cast normale avrebbe fatto misera figura; un Amfortas, Detlef Roth, dal timbro intercambiabile col tenore, di emissione traballante e corta nell’estensione; un Klingsor interpretato da un Lucio Gallo duro e sfibrato, come sempre del resto; un Titurel, Arutjun Kotchinian, costretto a cantare, microfonato ovvio, dal loggione, facendo ascoltare una voce oltretombale.
ParsifalphBerndUhlig_LeMonnaieRisparmiatemi le impressioni sul fraseggio, in queste condizioni sarebbe ridicolo parlare solo di accento o sfumature.
Non fatemi infierire sulla sofferenza inflitta dal gruppo delle fanciulle fiore, un giardino appassito mai così stonato, stridulo e impermeabile alla musicalità, tanto da sbagliare tutti i tempi, già compromessi dal direttore.
Ovviamente il capro espiatorio del fallimento lo ha fatto l’allestimento di Romeo Castellucci, già visto a Bruxelles nel 2011 e disponibile anche in DVD con un cast diverso, ma anche peggiore rispetto a quello bolognese (Rootering al capolinea, Thomas J.Mayer, Tomas Tomasson, gli stessi interpreti di Kundry e Parsfal, la direzione anemica e abulica di Haenchen).
Alcune buone idee vanno riconosciute a Castellucci: la creazione di una comunità mimetizzata in un bosco frondoso, sua anima attiva, vivificato da un disegno luci di magica intensità e realizzato con un grande gusto per l’effetto, costretto a celebrare rituali ancestrali nascosto, chiuso in se stesso sotto la minaccia di una civiltà che lo divora per trasformarlo nella città contemporanea, quella che si scorge solo alla fine, popolata a sua volta da una folla, prima ombra anonima dietro un fondale opaco che ne fa scorgere appena le sagome, poi protagonista e redenta da un Parsifal, uomo qualunque, che proviene da essa.
1476480_7_a84e_une-mise-en-scene-saisissante-et-hallucinatoireMa le idee finiscono qui, perché se a Wagner e nello specifico a “Parsifal” togli ogni simbolismo, ogni sacralità, ogni sensualità, ogni percorso di crescita, ogni pietà morale, ogni disegno filosofico, ogni riferimento ad una cristianità, ad un buddismo, ad un protestantesimo ricreati insieme, per infarcirlo di nuovi e ancora più oscuri, quanto ridicoli e capziosi, cosa resta? Solo le elucubrazioni onanistiche nella testa di Castellucci, spiegate dal medesimo regista nel programma di sala e poi rispiegate da un breve saggio apposito: una regia ed un regista con il libretto di istruzioni insomma.
E allora nel primo atto abbiamo la “Melevisione” con Gurnemanz nei panni di Tonio Cartonio, un gommone che passa e se ne va ed i cavalieri travestiti da broccoli; una non-agape che si svolge dietro un telo di tulle che nulla ci mostra per venti minuti, illuminato e decorato con una virgola (o un apostrofo); un secondo atto che inizia su un una sequela di veleni e sostanze tossiche (che nulla hanno a che fare con la storia, ma molto con il canto e la direzione) a metà tra una palestra in cui un direttore d’orchestra ha il vizietto per il bondage (cosa che non ha alcuna attinenza con la storia) e la riproposizione di un brutto spettacolo di Pier’Alli o Bob Wilson: gesti assurdi, pose estatiche, cantanti che non si guardano, né si toccano, proiezioni di amplessi, murales che vorrebbero sfondare la quarta parete (Io, Anna, legata, etc.); un terzo che si risolve in due azioni: Gurnemanz che mima uno steward su un aereo, mentre Parsifal, Amfortas, la folla, fanno esercizi di pilates e passeggiata veloce su un rumoroso tapis roulant per un’ora.
0Altro non c’è e non mi interessano ulteriori spiegazioni, perché gli onanismi intellettuali ho smesso di farli tanto tempo fa e li lascio volentieri a chi li sa fare di professione e che ai tempi andò in solluchero per questo allestimento, ma con questa gente ci vuol poco: preferisco pensare, grazie.
Moscietto e statico il tanto decantato pitone albino che spunta ogni tanto a rappresentare qualcosa, ma certamente depresso per il livello a cui si è prestato, mentre il vero protagonista della serata di eccezionale carisma, presenza scenica e vertice assoluto del livello interpretativo è stato il magnifico canelupo che appare durante il racconto di Gurnemanz e l’inizio del terzo atto: certamente una metafora voluta da Castellucci per sottolineare il livello canoro sul palcoscenico, ma anche una formidabile intuizione vista la qualità del soggetto. Il suo nome e quello dell’addestratore meritavano di essere inseriti nella locandina prima o al posto dei nomi dei cantanti e delle fanciulle-bondage. Bravissimi!
Al pubblico, alla “critica” che hanno trovato tutto questo “profondo e meraviglioso” consiglierei di ascoltare un’edizione storica, di quelle vere magari, di “Parsifal” PRIMA di andare a teatro, anche per prepararsi, assimilare, assaporare, capire, così da riconoscere che ciò che hanno apparecchiato loro davanti non è l’opera di Wagner, ma un pastrocchio piuttosto raffazzonato, molto liberamente tratto, dall’opera wagneriana.
Sciatti e puerili anche i sopratitoli in italiano, evidentemente tradotti con Google Traduttore: leggere al posto di Herzeleide “Dolore-di-cuore” mi ha fatto tornare alla memoria il “Diodistragi” scaligero durante la diretta streaming e sottotitolata della “Walkure”.
Cinque i minuti di applausi alla fine, lievemente più cordiali verso Abbado, Bretz e Richards.

P.S. Ho ascoltato anche la diretta radio: le trasmissioni della RAI saranno anche pessime, anche grazie all’impreparazione comica dei conduttori, ma non ho trovato differenza alcuna tra la diretta e la recita dal vivo.
Dedicare, poi, queste recite alla memoria di Claudio Abbado ha il sapore di una profanazione.

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44 pensieri su “Parsifal(lo) a Bologna: “Dolore-di-cuore”

  1. Inarrivabile Marianne,
    sono un vecchissimo abbonato al Comunale di Bologna, dove ho visto di tutto; ma uno spettacolo così decisamente brutto, assurdo, arbitrario e prevaricante sulle intenzioni e la volontà del compositore non mi era ancora capitato ( anche se sono certo che il futuro mi riserverà anche di peggio, ammesso che sia possibile). Condivido e sottoscrivo tutte le sue osservazioni. Un amico mi diceva scherzando che lo spettacolo era interessante e stimolante: peccato che fosse purtroppo continuamente disturbato dalle insulse parole e dalle interminabili lagne musicali di un certo Richard Wagner, che non si capiva bene consa ci entrasse con quel Parsifal lì.
    Volevo segnalarle una cosa strana. Per una decina di giorni la stampa (Repubblica, Corriere, Resto del Carlino, ecc. ) ha pompato le trovate di Castellucci, parlando di un “Parsifal delle meraviglie”, di un “Parsifal che incanta”, di un Parsifal da fine del mondo: tutto ciò prima che andasse in scena. Dopo la prima, silenzio totale: ho cercato, ho atteso, ma non ho trovato un rigo, dicesi un rigo, di recensione da nessuna parte: un silenzio tombale, che Lei per prima e, fino ad ora unica, ha coraggiosamente rotto. Come si spiega ? So che la critica musicale , e non solo quella, non brilla per coraggio e indipendenza : ma una tale congiura del silenzio non l’avevo mai rilevata.
    Con gratitudine e ammirazione
    Ernani

    • Grazie Ernani.
      Evidentemente la propaganda all’evento non ha avuto una risposta da parte del pubblico così eclatante e la diretta radiofonica ha peggiorato le cose invece di portare altri ingressi a teatro.
      O più semplicemente parlavano senza averlo visto e alla riprova dei fatti si sono ritrovati davanti a questa “cosa” indefinibile e indifendibile, per cui meglior tacer.

      • Incomparabile Marianne,
        mi scusi se intervengo nuovamente. Voglio trascriverLe integralmente il
        testo comparso oggi sul sito culturale ufficiale del Comune di Bologna :

        “Neutralizzando la simbologia tradizionale e sottraendo le immagini alle certezze didascaliche, nel Parsifal Romeo Castellucci compie un affondo verticale alla ricerca della matrice mitica e delle forme di conflitto che la sottendono. Lo spettatore di questa sua prima regia lirica è invitato a inoltrarsi in un terreno sconosciuto, privato di segni riconoscibili, in modo che la natura prismatica dell’opera gli si riveli attraverso la sua stessa immaginazione. Qui, in un liquido confondersi delle forme, il bosco trasmuta nell’uomo e poi lo riassorbe, il regno della magia nera si snoda in una rarefazione albina, e il deserto si manifesta nell’esodo di una folla anonima in cammino perpetuo. Castellucci adombra il perdersi dell’essere umano nella sua stessa umanità, cogliendo il tema della purezza in relazione alla questione della società, di fronte alla quale il disarmato transito di Parsifal si sprigiona come preghiera contemporanea. Ecco allora l’irrappresentabilità del Graal, il suo affermarsi come oggetto da sempre perduto, come vuoto fondante che appartiene alla sfera intima dello spettatore”.

        Capito ? Io no: ma anche qui, come nelle regie operistiche, vale il verso dell’Ariosto : “Intendami chi può, che m’intend’io”. Ai tempi di Ferravilla e di Brianzi si sarebbe parlato di “bagolamentofotoscultura”…
        Cordialmente
        Ernani

      • Gentilissimi,
        ho letto un pò di recensioni su vari spettacoli e certo, sembrerebbe che voi non siate mai contenti di nulla! Naturalmente è chiaro che ognuno può dare il proprio giudizio ma trovo sia davvero di cattivo gusto che si possano insultare artisti o artigiani celandosi pavidamente dietro nomi di artisti illustri e senza mai aver il coraggio di mettere il proprio vero nome. Chi lavora, in qualsiasi campo, mette allo scoperto il proprio nome e la propria faccia ed è giustamente passibile di critica. Lo facciano anche i sedicenti “critici musicali” di questo blog che parrebbero essere i soli detentori in questo caso dell’arte del canto, dell’opera e che a un occhio non melomane danno invece la senzazione del nostalgico. Siate attenti cari signori e mi rivolgo a tutti: la nostalgia ha portato sempre brutte conseguenze e periodi bui che da un momento all’altro e vista la crisi economica mondiale, potrebbero ritornare.
        Concludo ribadendo che chi scrive e recensisce deve farlo in modo costruttivo e non insultando e mettendo a paragone incisioni storiche che restano casi sempre isolati in quanto eccellenze vere e proprie. Soprattutto, se critica ( e insulta),deve farlo con coraggio mettendo in gioco il proprio nome come fanno tutte le persone con un minimo di etica e professionalità.
        Cordialmente
        Maurizio Mingoni

        • Mingoni,mi sembra su questo blog si argomenta sempre,e anche in modo costruttivo,poi riguardo agli ascolti storici,la qualità media è sempre alta,salvo qualche caso isolato,perchè all’epoca la scuola di canto era molto migliore,a differenza di adesso che ormai si cantano addosso,senza proiezione ,senza interpretazione ,scarso legato,e fraseggio penoso ( salvo rari casi),al contrario di una volta,giustificare a volte una recita penosa,e anche ineducazione per un pubblico,che tra un po non riesce nemmeno ad accorgersi di una stecca, se si va avanti cosi.Il buonismo in Italia sta facendo solo danni…anche all’opera..

          • Basterebbe sentire le ultime ‘prestazioni’ del tenore baubau, scuola teteska, spacciato per ‘il più grande di tutti’… È pieno di salti di gola, stecchettine, calature, falsettini è roba penosa varia che sembra nessuno voglia ammettere o che nessuno riesca distinguere dal vero canto.

  2. “presenza scenica e vertice assoluto del livello interpretativo è stato il magnifico canelupo che appare durante il racconto di Gurnemanz e l’inizio del terzo atto: certamente una metafora voluta da Castellucci per sottolineare il livello canoro sul palcoscenico”

    sei impagabile Marianne 😀

  3. Grande Marianne ! Anche se a me piacciono i gatti…:-). Scherzi a parte, ho ascoltato qualcosa alla radio, ma ho resistito una ventina di minuti. Ah, siamo nel 2014, finalmente: i festeggiamenti (diciamo così) per gli anniversari di Verdi e Wagner dovrebbero essere terminati, se Dio vuole…a chi tocca quest’anno ?

  4. Marianne, sai qualcosa di nuovo sul ‘vociferato’ T&I fiorentino?
    Sono d’accordo sulla fiacchezza orchestrale di questo Parsifal, sull’insignificanza della direzione e sull’eccessivo alleggerimento degli archi.
    Devo dire che non ho trovato negativa la prestazione di Richards. Quanto a Gurnemanz, sarebbe stato bello poter ascoltare Pape in un teatro delle dimensioni del Comunale di Bologna!

    U

  5. Ferma restando l’incredulità nel veder assegnato Parsifal ad un direttore come Roberto Abbado, la questione della riduzione dell’organico orchestrale ha, invece, senso: Parsifal – com’è noto – fu pensato espressamente per Bayreuth, per la sua particolarissima acustica e per gli effetti del posizionamento dell’orchestra nel golfo mistico. Come si sa nel teatro voluto da Wagner il suono strumentale viene dal profondo ed è meno brillante e voluminoso rispetto a quello prodotto da orchestre posizionate in modo tradizionale. Ridurre il numero di strumenti può essere funzionale a dare equilibrio sonoro e riprodurre gli effetti desiderati dall’autore.

    • Ti assicuro che l’equilibrio sonoro a Bologna era completamente sbilanciato, in più la secchezza del suono, la sporcizia degli attacchi e lo stridore degli strumenti affossavano, complice la direzione, tutto il resto, compresa la coesione con il palcoscenico.
      Se ci fosse stato un VERO direttore con una VERA orchestra che avessero voluto ricreare quel particolarissimo suono bayreuthiano in un teatro dall’ottima acustica come quello di Bologna l’esito non sarebbe stato questa “cosa” informe

        • Non è un reato, ma è un esperimento che va fatto con gusto e intelligenza. Nel caso del “Parsifal”, composto per Bayreuth e per quel numero di strumenti, occorrerebbe ripensare al suono da creare, ovvero: un suono adatto ad un teatro tradizionale o riproporre il suono di Bayreuth cercando di “alleggerire” il numero di elementi coinvolti? E “alleggerire” è la strada giusta?
          Queste cose dovrebbe pernsarle un direttore che abbia la volontà di studiarsi seriamente Wagner, ma anche altri compositori come Verdi ed il suo diapason tanto voluto e cercato.
          Hengelbrock ha fatto un tentativo proponendo una sua visione filologica-sperimentale del “Parsifal” con un cast poco filologico, ovvio, che vorrei ascoltare.
          Certo, per avere l’impressione esatta occorrerebbe ascoltare Parsifal a Bayreuth e poi altrove 😉

          • Contesto il fatto che si tratterebbe di un esperimento – che significa qualcosa di inusuale e incerto – è semplicemente una scelta che il direttore liberamente fa e può fare. Mi sembra che nessuno si lamenti mai dell’ipertrofia di certe esecuzioni storiche – eppure anche quelli sono arbitri fatti e finiti – che, anzi, passano per il modo “esatto” di eseguire questo o quel direttore: Beethoven è un esempio. A me non piacciono gli atti di fede e non mi sognerei mai di dire che certo Beethoven eseguito da orchestre con 50 archi sia “sbagliato”: certo è arbitrario, come ogni scelta esecutiva. Allo stesso modo eseguirlo con orchestre più ridotte non è “sbagliato” o “giusto” (anche se leggendo le partiture non si può negare che con troppi archi i disegni dei legni svaniscono). Sono opzioni esecutive di pari dignità. Nessuna di esse è un esperimento. E non c’entra nulla la filologia (soprattutto se intesa sempre con connotati spregiativi). Francamente trovo sia un esercizio ozioso dividere gli interpreti tra chi sbaglia e chi fa giusto…in nome di una tradizione priva di reale significato (se non del fatto che si tratta di mera abitudine e consuetudine d’ascolto). Parsifal può essere fatto al rallentatore come Kappertsbusch o in modo pi concentrato e controllato come Boulez, ma non è che unop sia giusto e l’altro sia un esperimento.

          • Invece parlo di esperimento proprio perchè, che io sappia, non si è tentato un approccio critico e consapevole del genere con Wagner e quindi l’esito non saprei come definirlo.
            Stesso discorso sulla filologia, come ben sai.
            Tutto dipende dall’esito, appunto. Kna e Boulez, entrambi a Bayreuth, hanno raggiunto due vette; Roberto Abbado non è arrivato neppure al primo gradino.

          • Ma che c’entra? Non parlo di questo Parsifal, ma del concetto per cui alleggerire lo strumentale sarebbe un “esperimento” o che necessiti di consapevolezze filologiche. Questo è un pregiudizio per cui si ritiene bizzarro un approccio liberamente diverso dalla stramaledetta tradizione. Di Parsifal ce ne sono tanti e non è un esperimento fare quello che un direttore DEVE fare cioè interpretare la musica che esegue. Non esiste un solo Wagner o un Wagner corretto. Un Wagner normale o uno sperimentale. Nè la filologia è quel mostro che viene descritto spesso.

          • Duprez forse non ci capiamo per nulla 😀 Ne parleremo a voce, perchè non ho detto né scritto nulla di quello su cui ti sei impuntato 😉

          • 1) Gli strumenti prescritti da Wagner sono numerati in partitura.
            2) Approccio diverso intendi sfoltire l’organico per alleggerire il suono. Perfetto. Ma in Haendel, Mozart, Beethoven, Lully, Gluck va bene, ma questo sfoltimento è necessario a Wagner? La cosa va bene o no? C’è un direttore (a parte Abbado) che abbia sperimentato in maniera critica questo sfoltimento? Se la risposta è si, l’opera ne ha giovato o risultava squilibrata? E ancora: possiamo considerare questo sfoltimento un arbitrio da accettare o da condannare?
            Il direttore può provare, ma deve anche saper bilanciare tutti gli impasti sonori dell’orchestra, visto che l’opera così come è stata concepita si riferisce a quell’organico, a quel suono, in quel teatro.
            3) Pregiudizi io??? A CHI??? Duprez, come se non mi conoscessi 😀
            4) L’interpretazione del direttore è cosa buona e giusta, mai detto diversamente.
            5) Non ho mai parlato di un solo Wagner o di un solo Wagner corretto.
            6) La filologia non è un mostro, ma si deve anche saperla fare, altrimenti vengono fuori orrori come il “Fliegende hollander” di Weil oppure il RING di Haenchen o il “Parsifal” di Hengelbrock nel quale la Denoke (ma anche il resto del cast) non mi pare paragonabile alla Materna o alla Malten o alla… Brandt per repertorio e peso vocale 😉

          • 1) gli strumenti prescritti sono solo una traccia (quasi tutti segnavano in partitura il numero degli strumenti), ma quasi nessuna orchestra dispone esattamente degli stessi numeri.
            2) variare l’organico NON è un approccio diverso. NON è un esperimento. E’ solo una scelta interpretativa che si è sempre fatta. Non è uno sfoltimento e non è paragonabile alla ricerca intorno al repertorio settecentesco: quest’ultimo ha beneficiato di un ripensamento che ha messo in evidenza talune caratteristiche di scrittura (e oggi sentiamo finalmente le trame dei legni in Mozart o Beethoven, non più affogate da certi eserciti di archi – a meno di trovarsi coi Wiener diretti da Thielemann in un grottesco tuffo sbilenco nel passato), un alleggerimento di suono che ha reso più vivido il repertorio (ma già I Musici lo facevano con Vivaldi, nello stesso tempo in cui Karajan incideva un’assurda versione delle Quattro Stagioni o dei Brandeburghesi coi Berliner). Con Wagner è diverso: non siamo di fronte a chissà quali spauracchi filologici…semplicemente alla libertà dell’interprete di fare il suo mestiere. Non si tratta di uno sfoltimento programmatico che necessità chissà quale studio, ma piuttosto di una scelta pratica che tende ad ovviare ad un problema: un volume sonoro diverso da quello tradizionale (quando Wagner scrive Parsifal sa PERFETTAMENTE che il suono dell’orchestra sarà più ovattato). E, ancora, se il numero degli strumenti segnato dall’autore (numero quasi mai rispettato) è vangelo, mi spieghi perché non dovrebbe esserlo l’indicazione dei metronomi? Io ho il sospetto che l’arbitrio cambi di significato coi propri gusti, per cui i tempi più spediti segnati in partitura da Beethoven sono una fesseria e avrebbe sbagliato pure l’autore, mentre i 30 violini segnati da Wagner non possono MAI diventare 15 se non con avvertenze al pubblico che si tratta di esperimento, ma che non si vuole intaccare la sacra scuola di tradizione.. Maddai! :)
            3) Perché mai definire “arbitrio” la scelta di un direttore di agire sui volumi? L’hanno fatto tutti. E poi – scusa se sono polemico – se non è un arbitrio quello di far eseguire Mozart o Haendel o Beethoven a orchestre adatte a Mahler (perché questo facevano), mi spieghi perché dovrebbe esserlo il contrario?
            4) Chiamiamolo pure “sfoltimento”, ma non condivido: Abbado non ha sfoltito un tubo in Wagner, mentre altri – anche in passato – hanno “alleggerito” il suono: penso al Parsifal di Boulez, di Kegel, di Kubelik, o al Ring di Bohm, dello stesso Boulez, di Moralt, ma c’è anche il Wagner di Janowski o di Rattle.
            5) Infine: la filologia. Ancora la visione per cui sarebbe qualcosa “da maneggiare con cura”. Ma perché? Si tratta solo di edizioni a stampa senza errori e qualche modifica esecutiva che interviene su modalità cristallizzate nei primi 50 anni del ‘900. Nulla di particolarmente “grave” o sospetto… L’Hollander di Weill non è certo mostruoso (solo leggermente diverso da come siamo abituati), quel Ring e Parsifal non li conosco, ma conosco i due direttori: Haenchen è tutto fuorchè un “baroccaro” (dirige Bartok, Strauss, Shostakovich, Wagner, Orff… Hengelbrock ha maggior approccio musicologico (e un repertorio più orientato al ‘700 e primo ‘800), ma è pure direttore della NDR, ortchestra piuttosto tradizionale. A Bayreuth ha diretto un bel Tannhauser (dal punto di vista orchestrale).

          • mi fa piacere tutto ciò, così sappiamo che l’interpretazione, che è il risultato finale, non è un fatto di progresso ma di estetica relativa al tempo in cui si esegue un brano. e sappiamo pure che il Beethoven romantico ha la sua ragione di essere, come pure le orchestre barocche old style. e che quindi con certe fisime sul suono asciutto, i pochi strumenti etc siamo alle prese esattamente con la moda e il gusto, ossia con fatti del tutto relativi.
            non toccatemi più Furty!

          • Ma è ovvio che i pochi o tanti strumenti, il suono più o meno asciutto, siano aspetti legati alle scelte esecutive del momento storico, della sensibilità dell’interprete, della volontà del direttore, delle circostanze ambientali etc. Non esiste un modo giusto o sbagliato. Il fatto che l’orchestra di Beethoven o Mozart o Wagner fosse diversa dalla nostra è, per certi versi, irrilevante, nel senso che l’opera musicale vive nel momento in cui viene eseguita, altrimenti è inchiostro sul foglio. La pretesa di suonare in modo “autentico” è archeologia, non musica. Allo stesso modo, però, non si può ritenere vincolante una tradizione più o meno recente. Alla fine quel che conta è il risultato finale che deve “emanciparsi” dalla volontà dell’autore. Non vincolante in sé, ma guida utile a chi vi si accosta. Il resto poi è gusto personale. Nel mio caso il fatto di preferire un Beethoven più asciutto, non significa ritenere “scorretto” quello di marca più romantica. Giusto e sbagliato sono categorie che non hanno a che fare con l’interpretazione musicale.
            Ps: Furtwaengler non mi sognerei mai di toccarlo, lo ascolto con venerazione (anche se di fatto preferisco un altro Beethoven), di fronte a interpreti storici si può solo imparare.

          • 1) Ok, ma a Bologna, perchè è l’esempio più recente che ho, era ai livelli del “Rape of Lucretia” o poco più 😀
            2) Ok e su questo sono d’accordo, tranne che per Thielemann ovvio che non trovo né vecchio, né grottesco, né sbilenco soprattutto dopo il magnifico concerto wagneriano a Venezia. Anche i metronomi vanno rispettati, certamente, anzi sarebbe auspicabile SEMPRE, perchè anche i tempi hanno un significato espressivo e interpretativo; ma non facciamo come Cosima a Bayreuth che correggeva anche il marito sull’orchestrazione e l’agogica. E non mi si venga a dire che quella è libertà interpretativa, perchè non lo accetto!
            3) Ma non me la prendo con chi agisce sui volumi!!! Me la prendo solo con chi dirige male senza rispettare i volumi, gli impasti, i timbri, i temi, l’orchestra.
            Se è un arbitrio far suonare Mozart e Vivaldi con orchestre mahleriane, dovrebbe esserlo anche per un Wagner di dimensioni cameristiche. O no? E te lo chiedo visto che sei il difensore della pagina scritta a tutti i costi (vedi l’ottavino rossiniano nel “Barbiere” eheheh :D)
            4) Forse intendiamo cose diverse: un conto è alleggerire il suono, un altro è levare proprio strumenti dall’orchestra, le interpretazioni che citi le conosco benissimo anche io 😀
            5) Si, la filologia è qualcosa da maneggiare con cura, soprattutto se nelle mani di gente che ne fa un pretesto per egocentrismi personali e sovrapposizioni e gli esempi si sprecherebbero. Tu stesso ti eri accanito sull’ Olandese di Weil, concordo invece sul Tannhauser diretto da Hengelbrock, che ritengo anche in quel caso un’occasione mancata, perchè non rispristina affatto la primissima versione del Tannhauser di Dresda come aveva predetto in varie interviste (mancanza dell’apparizione di Venus nel finale, delirio del protagonista con duetto tra Tannhauser e Wolfram, incendio lontano del Venusberg e coro dei pellegrini che inneggiano al miracolo), con un cast che non cercava nemmeno di avvicinarsi ai modelli originari. Filologia a metà?

          • 1) Ok, ma io astraevo dal caso di Bologna (che non ho ascoltato e che neppure mi interessa approfondire…visto il direttore e i cantanti coinvolti)
            2) Ti invito ad ascoltare la pessima integrale beethoveniana coi Wiener: lì Thielemann è grottesco e l’orchestra non è esente da mende tecniche (la Nona in particolare pare un’esecuzione dilettantesca).Non sono d’accordo sui metronomi: perché l’interprete dovrebbe essere “obbligato” a rispettarli? Si ridurrebbe l’esecutore ad un esecutore testamentario delle presunte volontà autoriali. I metronomi originali sono un suggerimento, ma il direttore ha tutto il diritto (e il dovere) di leggerli secondo la propria sensibilità): anche Bernstein interveniva sull’agogica e non credo che i suoi risultati siano da considerare inaccettabili (prendi l’esempio del Fidelio: la Leonore III è inserita prima del finale, ma non parte col colpo di timpano segnato in partitura, bensì tenendo legato l’accordo finale del duetto Leonore/Florestan che senza soluzione di continuità conduce all’ouverture: arbitrio? Certamente, ma che pezzo di musica straordinario!). Allo stesso modo vale per gli strumenti.
            3) Certo che è un arbitrio suonare Vivaldi o Mozart con orchestre mahleriane, ma non è un reato o uno scandalo o un “errore” soprattutto se il risultato è consapevole. Io difendo la pagina scritta, certo, ma vi sono diversi aspetti da considerare: gli errori ortografici o le incrostazioni della tradizione (timpani inseriti nel Barbiere ad esempio) sono una cosa, la modalità esecutiva è altra. Libertà assoluta per l’interprete, partendo da edizioni corrette (come è logico che sia). Oggi, almeno. Ovviamente quando non c’era la nuova edizione del Barbiere si usava quella precedente.
            4) Il suono lo alleggerisci in due modi: o suoni piano o levi strumenti per ottenere certi effetti. Certe volte non è possibile alleggerire suonando piano (soprattutto sugli ottoni, che oggi sono molto più sonori di un tempo: pensa alla differenza tra oficleide e tuba).
            5) Credo invece che la filologia andrebbe ritenuta elemento scontato, naturale…perché è sempre stato così: da sempre si cerca di usare le edizioni più corrette. Non confondiamo filologia (che è ricerca sulle partiture) con mode archeologiche. L’Olandese di Weil era criticabile per altri motivi, non per l’esecuzione strumentale. Quanto a Tannhauser: perché parli di occasione mancata? Wagner è intervenuto innumerevoli volte sul testo. La filologia non è la replica della prima esecuzione, ma l’uso di un testo corretto e l’utilizzo di determinate modalità esecutive…quindi non ha senso parlare di modelli originari (a parte che nessuno ha ascoltato i primi interpreti).

          • Infatti mi sono limitata al Thielemann wagneriano, quello beethoveniano non lo conosco, ma mi fido dei tuoi giudizi in merito 😉
            Per quanto riguarda i metronomi secondo me sarebbe interessante approfondire la questione, perchè è vero che è indicativo il tempo suggerito, ma è anche vero che pochi lo rispettano; non sto dicendo che debba essere rispettato come vangelo, ed è giusto usare la libertà interpretativa, ma penso anche al caso di Giulini ed al suo “Trovatore” in studio, o, per rimanere a Wagner al Ring di Boulez che rispetta il dettato wagneriano prosciugandolo da ogni caccola e ridonandogli nuova linfa, pur rimanendo fedelissimo: e fu rivoluzione, e fu una interpretazione personale straordinaria! Nessuna fredda esecuzione testamentaria, tutt’altro. Ma fu un caso isolato (Sawallisch cercò di fare lo stesso nella seconda incisione, ma ne nacque una cosa fredda, Lopez-Cobos con la Lucia fece un pastrocchio madornale). Fai l’esempio di Bernstein che forse ha realizzato l’incisione di “Tristan” più dilatata della storia, eppure funziona e non annoia, pur rimanendo una lettura libera e straordinaria.
            Dico solo che al fianco di interpretazioni libere, sciolte, e assolutamente leggittime, mi piacerebbe ascoltare delle edizioni fedeli, anche nell’agogica, al dettato wagneriano, cosa che non presuppone una totale mancanza di interpretazione, tutt’altro. In questo senso nulla di male mi pare.
            Per quanto rifuarda “Tannhauser” è rimasta per me un’edizione mancata, perchè Hengelbrock avrebbe voluto rifarsi alla primissima edizione di “Tannhauser”, prima di tutta quella messe di modifiche successive, che spiazzò il pubblico soprattutto per il finale inedito e per relegare la figura di Venus al solo primo atto.
            Da un teatro come quello di Bayreuth me lo sarei aspettato, sarebbe stata la prima volta che avremmo ascoltato questa edizione, avrebbero ricostruito una versione primigenia e sarebbe stata interessantissima, almeno per me, per aprire un confronto con le altre.
            Visto che Thielemann nel precedente allestimento aveva inserito una serie di battute che lui stesso aveva ritrovato, a Vienna se non sbaglio, destinate all’introduzione del Pastorello dopo il cambio scena del primo atto, era naturale avvallare e approfondire questa scelta di Hengelbrock.
            Invece alla prima, andata anche per radio, abbiamo ascoltato la consueta versione di Dresda, molto ben diretta, ma non era quello che era stato sbandierato fino ad allora. Nulla di male, ma resta l’amaro in bocca. Il cast fu balordo, contestato, come consuetudine bayreuthiana e sottolineò l’incapacità di trovare voci che potessero sostenere quelle tessiture ed Hengelbrock, purtroppo, non tornò negli anni successivi.

          • Il vero problema è che di Parsifal e di Wagner, in questa produzione, ce n’è stata qualche miscroscopica traccia…..

  6. Ho avuto la fortuna, nella mia unica salita alla collina, d’ascoltarvi proprio Parsifal . È vero, in un teatro tradizionale, al direttore sta il compito , concertando, di calibrare lo strumentale, il che vale per ogni opera, ma per questa forse più che per altre. Abbado il piccolo non mi sembra abbia neppure tentato. La quantità di strombazzamenti, spernacchiamenti degli ottoni, sempre indicibilmente prevaricanti ha superato i limiti di guardia. In altri momenti poi c’era la stasi assoluta.
    Per il resto, lo spettacolo ha avuto momenti teatralmente forti, come la transizione dalla foresta al Monsalvato, o il buio che invade il palcoscenico a partire dalla ferita di Amfortas. Neppure mi è dispiaciuta l’atmosfera venefica del II atto, anche se il canto delle Fanciulle Fiori era ancor più venefico. Ma chi non conosceva Parsifal non poteva non rimanere alla fine che come il regista lascia il protagonista: perplesso.
    A me Richards e Bretz sono piaciuti, un orrore la Larsson, Roht e Gallo.

  7. Ragazzi che gioia leggere il comunicato del comune di Bologna: vorrei solo che mi spiegassero queste due semplici parole: “la natura prismatica” Che cosa è? Cosa vuol dire? .La Natura è un soggetto in Italiano, il “prismatica” a cosa si riferisce? All’opera, al direttore, al pubblico, o alla fantasia dell’estensore? Un dipendente comunale che scrive come nel caso del comunicato lo manderei alla seconda elementare (se esiste ancora) a studiare grammatica. Circa la recita in oggetto dall’ottobre scorso (2013) avendo subito uno schock dal teatro la Fenice per via della Africana, costì (si fa per dire) eseguita non intendo più ascoltare opere saccentemente stuprate da chicchessia.

  8. Mi chiedo: se un testo di teatro musicale deve servire da occasione a un regista-autore – vuoi come esercizio di stile (Bob Wilson) vuoi per dire la Sua (molto molto sua) sul mondo che tale testo incarna (Castellucci) – non sarebbe forse meglio uscire dagli spazi canonici dell’Opera e usare una registrazione, così come fanno i Colla o Le Marionette di Salisburgo?

    In cinema è già successo, e con risultati meno traumatici: Parsifal di Syberberg, Flauto Magico di Bergman, Don Giovanni di Losey, ecc.

    Il traghettare l’opera da una sponda a un’altra sarebbe cosa più onesta, meno violenta nei confronti della stessa e del pubblico, ed eviterebbe la creazione di questi mostri del dottor Frankenstein cui – a giudicare dalle reazioni che si vedono in giro – si è diventati tutti così allergici.

    La linea di confine tra La Scala (o il Met, Bastille, Covent Garden, ecc.) e La Gran Scena Opera Company si sta facendo sempre più sottile.

    • Cara Lily, vedi, la verità è che l’inaspettato è diventata routine, la nuova drammaturgia sovrapposta all’opera è diventata ormai brutta tradizione, le contorsioni intellettuali sono diventate (fatte così) noiosa esibizione di ego, il cattivo teatro di regia è parodia di se stesso e dei suoi membri e tutte queste componenti insieme non stupiscono più, perchè il pubblico, anche quello che reagisce, si aspetta questo se non peggio quando va a teatro.
      Il vero scandalo di questa produzione che, volesse il cielo, conclude in linea con le produzioni dell’anno, le celebrazioni wagnerian-verdiane aprendo un vuoto pauroso sul modo di intendere il canto e la direzione, sono proprio queste ultime.
      Poi il palco e Titurel microfonati… bah

  9. Mi inserisco con timore e tremore in una discussione così interessante e difficile. Credo che tanto Marianne quanto Duprez abbiano validi argomenti ; ma a Duprez in particolare vorrei sottoporre qualche considerazione. In alcuni casi la composizione dell’orchestra e il numero degli strumentisti risulta indicata, talvolta in termini “vincolanti” , dal compositore stesso. Per il Parsifal l’orchestra, per volontà di Wagner, alla prima risultava di 107 elementi ; per la Grande Symphonie funebre et triomphale di Berlioz, doveva esserci una banda di 200 elementi rinforzata da un buon numero di archi; per la Grande Messe des mortes, dello stesso Berlioz, il coro avrebbe dovuto arrivare fino a 800 elementi, con un’orchestra adeguata (prendo degli esempi macroscopici per farmi capire meglio). In tutti questi casi penso che il compositore avesse precise ragioni estetiche e di tecnica musicale per pretendere una certa formazione orchestrale; e quindi che l’andare ad alleggerire, sfumare, ridurre, sia un’operazione da fare con prudenza, a ragion veduta e, come diciamo a Bologna, “con le mani della festa”. Soprattutto, questo tipo di interventi dovrebbe essere sorretto da una precisa, percepibile ed attendibile motivazione estetica ed artistica (tralascio il caso in cui si sfumi e si riduca perché si ha a disposizione un’orchestra ridotta e non ci sono soldi per rimpolparla; ma in questi casi gli antichi direttori, infischiandosene della filologia, ottenevano ottimi risultati ). Si dice, giustamente, che siamo nel campo dell’ interpretazione, che deve godere di una sfera ampia di libertà: ma tra interpretazione e deformazione arbitraria c’è un fosso; e in non pochi casi questo fosso viene saltato, o ci si casca dentro. Sono assolutamente d’accordo, per esempio, che un alleggerimento degli archi consenta di percepire finalmente la bellezza e la delicatezza dei disegni dei legni e degli ottoni in Mozart e in Beethoven: anzi, in questo caso credo che si rispetti finalmente la volontà del compositore che ha scritto le parti di legni e fiati perché fossero ben sentite. Sono meno d’accordo quando, con la giustificazione della filologia, si riducono le orchestre a zanzarine fastidiose dichiarando che Mozart e Haydn avevano orchestrine così : per forza, era quello che passava il convento ! Quindi : libertà, ma vigilata, di interpretazione; repressione per le deformazioni cervellotiche o intellettualoidi : altrimenti si arriva a far suonare la marcia dell’ Aida agli “Ocarinisti di Budrio” (ottimi musicisti, peraltro ), o ad affidare le Sonate a quattro di Rossini ad un’ orchestra di 100 elementi (Von Karajan ci è quasi arrivato ). Chiarisco che quanto ho scritto non è certo una contestazione a Duprez, sempre puntuale e acuto :è solo la richiesta di un parere da parte di un musicomane incolto ma appassionato.

  10. Caro Duprez, questo tuo chiodo fisso della massa di archi che impedirebbe di ascoltare i legni o gli ottoni è, per lo meno riguardo a Karajan, completamente falso; è una tua invenzione. Io, come sai, ho ascoltato Karajan un’infinità di volte. Come un’infinità di volte ho ascoltato Boulez, Abbado o Gardiner o Herrweghe. Io posso dire, e nessuno può smentirmi, che Karajan è stato in assoluto il direttore più analitico che io abbia mai ascoltato. Usava molti archi, è vero. Ma il suo immenso talento era tale che io non ho mai sentito risuonare i legni con una tale limpidezza; mai, con nessuno dei direttori che ho nominato prima. Come faceva anche Klemperer, pur in una prospettiva praticamente opposta. Questo per la verità.
    Marco Ninci

    • Ma che c’entra Karajan? Davvero vuoi contestare un gusto personale? Io dico solo – e credo ne converrai – che non esistono modi “giusti” o “sbagliati” di interpretare una partitura musicale, ma approcci differenti: non capisco per quali astruse ragioni si debba considerare un delitto ridurre gli organici e ridimensionare gli archi (magari per esaltare i disegni dei legni, spesso motore del brano), mentre l’esatto contrario sia non solo lecito, ma pure “giusto, anche a costo di travisare il brano eseguito. Per l’ennesima volta: non critico affatto la tradizione tardo romantica, ma così come credo sia sbagliato ritenere “autentico” il suono barocchista, allo stesso modo lo è quello di interpreti storici.
      Quanto a Karajan: ho ascoltato praticamente tutti i suoi dischi (e non mi si dica che andava ascoltato dal vivo) e ho le mie idee in merito: vuoi dirmi che i Brandeburghesi, le Quattro Stagioni, la Patetica, Corelli etc..non affogano in archi e melassa?

      • Scusa Duprez, ma francamente faccio davvero fatica a comprendere il tuo pensiero, perchè lo ritengo colmo di contraddizioni.
        Cioè, il compositore che ne sa di sicuro più di me, di te e del direttore, pretende un certo numero di strumenti per generare un tipo di effetti da lui prescritto e ricercato, che tu ritieni solo una “traccia” un “suggerimento” nei confronti del direttore che però può fare ciò che vuole (?).
        Se sfoltire gli archi è anzi da ricercarsi per esaltare gli impasti e gli arabeschi dei legni, allora perchè non è giusto il contrario?
        “Perchè il direttore è libero di interpretare e ricercare determinati effetti”, ok, ma perchè togliere è ok e aggiungere, o seguire la prescrizione del numero degli strumenti no?
        In entrambi i casi, seguendo il tuo ragionamento, il direttore interpreta liberamente: nel primo vuole esaltare i legni, nel secondo gli archi o seguire le prescrizioni della partitura… ma per te però il secondo caso non va bene, contraddicendo di fatto quanto dici nella premessa (“non c’è un modo giusto o sbagliato di fare musica”)
        A questo punto ho sinceramente perso il filo 😀

        Resto del parere, e non me ne volere se non riesco a seguirti (limite senz’altro mio), che per fare le cose in un certo modo bisogna semplicemente seguire quanto dice l’autore e la pagina scritta, interpretandola senza tradirla o vanificarla.

        • Forse davvero non ci comprendiamo: ho scritto e ripetuto che alleggerire gli organici ha la stessa ragione d’essere di ingrossarli, anche se rispondono ad esigenze estetiche differenti. Io personalmente preferisco in certi repertori un suono più asciutto, ma non mi scandalizza il fatto che altri usino orchestre mahleriane per Mozart (a parte i casi di cattivo gusto, come i già citati Brandeburghesi di Karajan). Il fatto è che spesso leggo critiche feroci all’alleggerimento e non al suo esatto contrario. Quanto alle volontà dei compositori: né tu né io li abbiamo conosciuti quindi possiamo basarci su quel che conosciamo, ossia la partitura, ma siccome la musica va anche eseguita occorre lo strumento dell’interprete libero – in limiti stabilito – di cavare da un testo quel che sente. Ora se in direttore, un cantante, uno strumentista non è più libero di agire sui tempi, sulle dinamiche, sugli organici, sul metronomo, allora basta un computer e un campionatore per riprodurre i segni scritti. Certo non è musica. Quanto agli organici: dal ‘700 a oggi l’orchestra è mutata nella formazione e nel numero, gli strumenti sono più sonori (ottoni in particolare), le corde di budello sono state sostituite da quelle metalliche e il diapason si è alzato. Questo rende gli effetti voluto dai compositori non più realizzabili seguendo le prescrizioni. E comunque eseguire musica “come si faceva nel 700 800 o 600 è impossibile (pubblico ed esecutore hanno un vissuto diverso, non hanno orecchio vergine e se ascoltano Bach hanno anche già ascoltato Bruckner). Ma poi rendiamoci conto che molte indicazioni derivavano da circostanze particolari (Händel indicò per la suite dei fuochi d’artificio 24 oboi 12 fagotti 9 corni 9 trombe 9 timpani)…si deve eseguire così per forza?

  11. No, Duprez, io ho contestato un fatto preciso. Tu dici che nelle esecuzioni di Karajan tutto affoga negli archi e io ti dico che non è vero assolutamente. I disegni dei legni e degli ottoni sono percepibili nelle sue esecuzioni quanto in nessun altro direttore. Questo è un fatto incontestabile. Potrà non piacerti l’interpretazione ma ciò rimane.
    Marco Ninci

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