Elektra alla Scala

elektra_homePochi minuti dopo le 20 di domenica 18 maggio, il sipario della Scala si è aperto su uno degli spettacoli più riusciti delle ultime stagioni (insieme al già recensito capolavoro di Berlioz). Dopo una breve introduzione del sovrintendente uscente (di cui stupisce, negativamente, la scarsa dimestichezza con la nostra lingua) per ricordare l’amico Patrice recentemente scomparso e di cui questa Elektra costituisce il testamento artistico, il buio della sala e i gesti meccanici delle serve che puliscono il palco introducono l’attacco dell’orchestra che come un pugno nello stomaco risuona del tema di Agamnennone. Questa Elektra era attesa essenzialmente per due ragioni: la seconda volta di Esa-Pekka Salonen – ossia uno dei maggiori direttori viventi – sul podio scaligero e l’ultima regia di Patrice Chereau, scomparso nell’ottobre dell’anno scorso, poco dopo aver presentato questo spettacolo ad Aix-en-Provence. Elektra è un snodo di fondamentale importanza sia per la definizione della poetica straussiana (che si allontana dall’espressionismo ancora presente in Salome per intraprendere nuove vie e formule espressive) sia per la storia della musica europea che si apre ad un linguaggio diverso e che finalmente  si lascia alle spalle il tardo romanticismo, avviandosi verso gli approdi della seconda scuola di Vienna, sganciandosi dal lessico di un sinfonismo già messo in crisi da Mahler e svincolandosi dalle forme tradizionalmente intese in termini di tonalità, melodia, ritmo e struttura. La scrittura di Strauss – deflagrata in Elektra e poi assunta a modello del suo modus compositivo (pur declinato in modo eclettico e persin parodistico nei lavori successivi, sino all’apparente romanticismo di ritorno degli ultimi lieder) – si caratterizza per la successione continua di situazioni musicali connesse tra di loro dalla continuità del discorso sinfonico e dall’impiego perfezionato dei Leitmotive di ascendenza wagneriana; per la “cellularizzazione” delle formule musicali che abbandonano l’ampiezza e il respiro della tradizione a favore di una concinnitas di estrema compattezza in un rapporto simbiotico tra parola cantata e significato della stessa; un’armonia dilatata e allargata che alterna cromatismi, modulazioni a toni lontani, dissonanze e diatonismo;  una strumentazione ricca e varia ed un’orchestra di vaste dimensioni per poter sfruttare ogni possibilità d’espressione; una vocalità aspra ed estremizzata che sfrutta ogni registro, con frequenti ed improvvisi slanci verso le zone più acute (anche per lunghe frasi tenute), parentesi liriche e un centro di grande robustezza in una scrittura che richiede resistenza fisica e capacità di reggere un’orchestra compatta massiccia. Ma non è questo il luogo per parlare diffusamente di Elektra. Lo spettacolo scaligero – dicevo – si svolge intorno ai due poli di cui in premessa: regia e direttore. Chereau spoglia la vicenda sia da eventuali incrostazioni oleografiche (la tragedia di Hofmansthal è un luogo fuori dal tempo che prescinde dalle cartoline di una Grecia classica o pre classica, ma che racchiude la forza di una drammaturgia barbara e primordiale), sia da letture psicanalitiche e freudiane, ormai abusate sino allo sfinimento: in uno spazio neutro e chiuso si svolge “solo” un dramma di vendetta e cattiva coscienza, risparmiandoci metafore sessuali e rimandi agli studi sull’isteria. Protagoniste tre donne, che poi, forse, sono le incarnazioni di una sola, di fronte alla violenza di una perdita: tre donne “normali” la cui raffigurazione è ripulita da quei grotteschi eccessi che le tramutavano in streghe, ossesse o vergini ingenue. Tutto gira intorno a loro, senza bisogno di elementi scenici, costumi elaborati, architetture o arredi: una semplicità ricca di significato senza l’abuso di simboli e senza l’inutile ricorso al grand guignol (come nella pessima versione di Ronconi con le sue sfilate di vacche, il sangue, la macelleria e i quarti di manzo appesi a gocciolare…semplicemente ridicolo). Coerente a questa visione “semplice” è la lettura di Salonen che proietta decisamente Elektra nel ‘900 europeo, ripulendola da ogni suggestione espressionistica o tardo romantica: una lettura aspra che smussa i contrasti non alleggerendoli, ma razionalizzandoli in una visione oggettiva e straniante. Il suono dell’orchestra – che finalmente suona come si deve – è teso, stirato, assottigliato quasi fino a rompersi, non lascia prendere fiato. In questa lettura – personalissima – anche la violenza pare controllata e trattenuta: persino il finale lascia un senso di inquietudine, con Oreste che dopo aver ucciso Clitemnestra esce in silenzio dal portone, senza guardare nessuno, senza alcun cenno alla sorella che danza allucinata. Salonen non molla la tensione neppure alla fine, così da chiudere l’opera in un punto interrogativo. Trionfatrice della serata – insieme al direttore – è l’Elektra di Evelyn Herlitzius a cui va un convinto “brava!” e che dà prova di grande forza e resistenza (è una parte massacrante): si pone sulla linea interpretativa tracciata da Inge Borkh (a mio gusto l’incarnazione più completa del personaggio), privilegiando l’asprezza della scrittura alle rotondità più rassicuranti di una Nilsson (più coerente, invece, alla lettura espressionista e lussureggiante di Solti). La Klytämnestra di Waltraud Meier è ormai vocalmente improponibile (la fatica è palese e il mezzo – dopo tanta carriera – è decisamente usurato), ma l’intelligenza dell’interprete la rendono credibile in un ruolo spogliato dalle tradizionali caricature di megera: una “regina” disillusa e inaridita che si aggrappa ai sogni e alla superstizione, non una strega sanguinaria. Certo la voce fatica, ma non è solo nella correttezza tecnica che si esaurisce un personaggio che lo stesso Strauss non apprezzava nell’esecuzione – immagino vocalmente inappuntabile – della Schumann-Heink (e noto l’aneddoto del compositore che, durante le prove, invitava gli ottoni a suonare ancora più forte in modo da non sentire più la voce della celebre cantante). Elemento debole – debolissimo – del cast è la Chrysothemis di Adrianne Pieczonka: voce incerta, incapace di reggere intonazione ed espansione lirica (e la parte vanta la scrittura meno aspra, proprio per caratterizzare la presunta innocenza del personaggio). René Pape fa il suo lavoro onestamente come Orest (parte che rimane secondaria) e Tom Randle fatica come Aegisth, senza infamia e senza lode il resto del cast. Ma in Elektra si tratta di dettagli marginali. Alla fine grande successo di pubblico (numeroso stavolta) e trionfo per la Herlitzius e Salonen. Temo, purtroppo, che questi ultimi due spettacoli siano un’eccezione nella recente programmazione scaligera, che infatti confermerà la regola consueta con il prossimo Così fan tutte che, sulla carta, pare uno scherzo di cattivo gusto.

Gli ascolti:

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77 pensieri su “Elektra alla Scala

  1. Totalmente d’accordo, gilbert. Uno degli spettacoli meglio riusciti da 10 anni a questa parte. Mi sto attrezzando per andare a tutte le repliche. Sotto di me avevo Isotta, non ho visto se gli sia piaciuta: è scappato via nel buio della sala… E il suono mi ricordava l’ultimo Strauss di sinopoli.

  2. E’ stato uno spettacolo stupendo, sin dall’inizio in cui il silenzio era rotto solo da una ancella che spazzava uno ad uno i scalini che portavano al piano rialzato. Regia e scene molto molto belle.
    Piacerebbe anche a me, come ad otto, rivederlo ancora…

    E a proposito di Waltraud Meier voglio ricordare l’incontro con lei a cui partecipai ad Aix-en-Provence lo scorso luglio, in occasione delle recite di Elektra al festival di Aix. Ricordo come avesse insistito molto sulla caratterizzazione del personaggio di Klytaemnestra come donna ferita e oppressa dal senso di colpa, di come intendesse portare *quel* personaggio sul palcoscenico. Dedicò anche una frase al rapporto tra interpretazione teatrale e interpretazione canora del ruolo, dicendo che in un’opera come questa l’interpretazione teatrale doveva essere più importante (mentre disse che avrebbe abbandonato il ruolo di Isotta in cui il canto mantiene un ruolo maggiore). Detta così ricordo di essermi un poco accigliato, però dopo averla vista e ascoltata sia a luglio che domenica devo dire che le mende vocali le perdono tutte!

    • Sì la signora Meier è fedele al dettato pkstwagneriano, o cosimesco, che interpretare serve più che cantare. Le conviene crederci, essendo più una attrice che una cantante. L altra sera nemmeno si sentiva, parlava o gorgogliava. Poco per la sua fama, occorre ritirarsi

    • La Meier era vocalmente al lumicino, ma in una parte del genere (e una scrittura così) le mende vocali passano in secondo piano rispetto alle indubbie capacità dell’interprete: a me ha convinto la chiave di lettura (pur con tutti i problemi di una vocalità in fase più che calante), ossia aver sottratto Clitemnestra alla categoria “megere” (così ottocentesca e stereotipata) per farne un ritratto più complesso, esaltando il senso di colpa e la fragilità. Credo nessuno si aspettasse la Schumman-Heink (atteso che non sarebbe piaciuta neppure a Strauss).

    • Non son se vuoi essere ironico o meno, ma non credo occorra ripetere che il problema maggiore oggi è il cosiddetto repertorio. Credi che la signora erlizius, che a mio avviso ha fatto una gran cosa l’altra sera, meglio anche di pekka salonen che mi ha toccato molto poco pur essendo tecnicamente molto bravo, potrebbe cimentarsi nel ballo in maschera con eguale risultato? Di nilsson ne conosco una sola, che suonava il ballo in maniera impeccabile come pure l’elettra.

    • passano diciamo indenni per un banale motivo ossia che si nega in generale che si debbano cantare e quindi si tollerano i berci della protagonista od il sordo ciangottare di una sfasciata Mayer (non che sia mai stata una cantante professionale sotto il profilo tecnico-vocale). Se le due signore e tralascio la terza, che era la peggiore, emettessero quei suoni anche in Turandot o Francesca da Rimini verrebbero coperte di insulti e contumelie.
      personalmente, non ritenendo il canto una gara di resistenza fisica, non trovo alcun merito – riconosciuta la difficoltà e lunghezza del ruolo della protagonista – nel solo “arrivare in fondo”.
      E siccome mi attengo alle opinioni dell’autore ed alle indicazioni si partitura propongo due osservazioni:
      a) nel 1909 quindi poco dopo la prima di Dresda, Elektra venne proposta al pubblico scaligero con protagonista Solomea Kruscenivsky, Crisotemide la Canetti e Clitemnestra la de Cisneros, diretta da Edoardo Vitale. Ebbene lo stesso Strauss, che poco tempo prima era stato maltrattato dalla Scala per l’affair prima italiana di Salome, scriveva al proprio librettista Hoffmanstal che quell’esecuzione era la migliore effettuata e che nei teatri italiani le esecuzioni erano sempre molto curate sotto il profilo musicale. Allora, aggiungerei. Invito chi ne abbia voglia ad un mini tour sul solito soccorrevole tubo per sentire o fare la conoscenza delle tre cantanti citate e meditare che cosa “azzecchino” le tre sciagurate di domenica sera con il pensiero dell’autore.
      b) comparare la Meyer con la Schumann-Heink è, utilizzando una categoria logico-matematica, incongruente essendo solo la seconda una cantante d’opera. Invito, dopo un ascolto della Schumann-Heink wagneriana e liederista, a guardare quale esiguo -rispetto a Strauss- orchestrale ci sia (un po’ come per l’Imperatrice della Frau) quando canta la vecchia esausta regina e, quindi, a comprendere la frase di Strauss (vero poi che i due non si amarono, ma mezzosoprani di grande tecnica e gusto come la Mentzger, la Anday, la Hongen, la de Cisneros frequentarono molto il personaggio, che oggi è uno dei più traditi in sede esecutiva dato il vizio di affidarlo a soprani vecchi e quasi sfasciati con la sola recente eccezione di Grace Bumbry) assuma un ben diverso significato e non certo quello di anticipata difesa di cantanti privi di voce.
      Se, poi, devo dirla sino in fondo e Duprez già lo sa non mi ha scaldato neppure la direzione. Che il direttore sia uno dei più famosi oggi in carriera non significa nulla, perché da tempo, sulla nostra groppa, abbiamo appreso come si possa (attenzione utilizzo il congiuntivo!) diventare famosi e quindi bisogna stare ai fatti.
      Se ascolto in Elektra un direttore che non passa certo per tellurico, espressionista, ma anzi per gelido e compassato (insomma un purgante anglosassone, vista la ragione della sua ricchezza) ovvero Thomas Beecham trovo una varietà di accenti e di colori orchestrali che l’altra sera, pur nella pulizia e correttezza e in un’idea di tragedia asettica (quando di più confliggente con il periodo vissuto da Strauss) proprio non ho trovato.
      Poi che le cose siano andate meglio che nel recente Verdi non è merito della bacchetta dell’altra sera, ma più banalmente demerito di quelle cui affidato il povero Verdi. Talvolta le cause si vincono non già per bravura, ma per altrui errori!

      • Certo caro Donzelli: “in un regno di ciechi anche un orbo è Re”, comunque , a parte le battute, a me la direzione è piaciuta molto proprio perchè controllata e non ipertrofica. Se ci avesse anche liberato dagli urli delle cantanti (credo sia difficile scovare un’opera dove si urli di più di questa, per me fattore insopportabile!) sarebbe stato un miracolo…andrò a risentire Mitroupoulos

      • Concordo completamente con l’intervento di Donzelli. In particolare sul canto in Strauss. Non si sta parlando di volersi aspettare il belcanto nelle voci ma il canto! Qui stiamo parlando in maggioranza di urlatrici e no, sopravvivere alla parte (pur durissima) non basta per risultare piacevoli. Ancor di più quando (come ormai abitudine) ci si produce in una mistificazione del proprio strumento vocale: la Herlitzius è come tante colleghe (si vedano Matos, Urmana, etc.) un soprano lirico di corpo (magari anche spinto) che trova nell’urlo e nello sforzo la chiave di trasformazione in un soprano drammatico. Ne deriva il tipico effetto vocale “voce dalla sonorità stritolata e aspra in acuto” con perdita di armonici (e usura vocale progressiva in un decennio (che è molto poco…)) e l’assoluta incapacità di legare e fraseggiare. Se una Otrud urlatrice può risultare per alcuni accettabile (possa frau Ludwig perdonarmi), nel caso di Elektra non funziona, a mio parere.

        • Semplicemente, la herlizius spinge. E affonda per avere volume, che ha cmq..sonora pure sotto. Nella vocalità esasperata di Elektra ci sta, e, salvo pochissime, si allinea al modo unilateralmente isterico e pazzo di essere elettra. Se senti la bork, che l ha fatta tanto, senti un centro più pieno ma una cantante analoga, che poi arriva anche a stonare molto più della herlizius. Il finale con mitropoulos a Salisburgo è pieno di urla e stonate, ad esempio. Ci si domanda se elettra sia solo così, o meno. Già con la nilsson, che fa tante messe di voce fantastiche, piani, e lega, il personaggio esce molto espressionista, diciamo così, ma composto, è magnifica da ascoltare e rende gli stati d animo con grande varietà. Se sei un fenomeno allora riesci ma gestire il lato lirico, penso al finale Orest Orest. Ma cantare questo ruolo senza innescare il duello di forza con la linea di canto è roba da fenomeni assoluti.

    • O forse, violino62, c’è un problema di rapporto tra l’attuale gestione scaligera e il repertorio italiano. I cast e i direttori impiegati per il repertorio tedesco sono decisamente più curati di quelli assemblati (al discount) per quello italiano: confronta Elektra a Trovatore, Troyens a Lucia, Peter Grimes al Ballo… Le differenze sono evidenti. E il problema è notevole: non si può presentare sempre un buon Janaceck e ricorrere ai saldi per Verdi o Donizetti.

  3. Ci vado questa sera e non vedo l’ora! Opera che mi “sconvolge” con un finale in cui difficilmente riesco a trattenere l’emozione.
    Son contento di leggere qui una recensione positiva.
    Saluti

  4. Rispondo a Donzelli che, evidentemente, non ama e non frequenta il repertorio tedesco o post ottocentesco e che, quindi, incorre, a mio parere in errori valutativi.
    1) considerare un’opera di rottura come Elektra al pari di una qualsiasi Francesca da Rimini e accomunare due tipologie di scrittura vocale TOTALMENTE diverse, significa non aver approfondito la poetica straussiana e non aver aperto la partitura dell’opera: è chiaro, infatti, che a fronte di una scrittura aspra e svincolata dalle forme, pretendere il rispetto delle regoline del belcanto sia fuorviante. Così magari da trasformare Elektra in una pesante e roboante paccottiglia liberty ad uso di svenevoli primedonne vittoriane (che magari interpolano cadenze e acuti) nel conclusivo “rondò” (a questo punto chiamiamolo così) di Elektra..pardon Elettra.
    2) sostenere che domenica nessuno cantasse è un eccesso…certo nessuno cantava Semiramide (grazie a Dio) e sicuramente si tratta di cantanti che funzionano in quel repertorio e non nel melodramma. Ma non si vive di solo melodramma e si può essere grandi cantanti senza mai aver emesso una nota di Rossini.
    3) piaccia o meno la cosa, ma Strauss ha espresso un giudizio assai poco lusinghiero sulla Clitemnestra della Schumann-Heink. Inutile arrampicarsi sui vetri per salvare capra e cavoli: o si dice che Strauss era un cretino che non capiva neppure quel che scriveva (e non sarebbe possibile senza risultare ridicoli) oppure si deve accettare che il canto perfetto della Schumann-Heink (testimoniato da dischi e registrazioni), così limpido, pulito e rotondo non fosse adatto alla parte. Non ci sono alternative o terze vie.
    4) la questione Schumann-Heink apre poi un discorso circa l’affidabilità dei primi interpreti come interpreti ideali o – a contrariis – rivelatori della cifra stilistica da dare ad un personaggio. Falso falso falso (o meglio poteva valere per Rossini, ma grazie a Dio – sempre – non c’è solo Rossini): a partire dalla seconda metà dell’800 il compositore – soprattutto in area tedesca – scrive in base ad una sua idea di suono e voce, e non PER questo o quell’interprete. Oltretutto i tempi di composizione si allungano e quasi sempre l’autore conosce gli interpreti solo dopo aver terminato l’opera.
    5) mi spiace leggere da Domenico quel che scrive sulla direzione di Salonen, non perché debba difenderlo – si difende benissimo da solo, e metterne in dubbio le capacità è puro snobismo – ma perché denota molti pregiudizi. Innanzitutto l’idea per cui i propri gusti o quelli di certa tradizione siano “giusti” e corrispondano al modo autentico di interpretare un pezzo e tutti gli altri siano “sbagliati” (un atteggiamento questo, che è più tipico del mondo “baroccaro”). Poi per il ritenere accettabile una sola chiave di lettura, quella espressionista e tardo romantica, con colori sgargianti e strumentale lussureggiante…perchè mai deve essere quella giusta? Perché mai si dovrebbe “colorare” Elektra? Non viene il dubbio che la scelta di Salonen non sia dettata da incapacità, ma da una precisa visione? E che vuol dire che tale visione non era quella del compositore o dell’epoca di composizione?..e se anche fosse? Non capisco perché fare Mozart o Beethoven con orchestre da 100 elementi o Bach al pianoforte sia giusto (quando SICURAMENTE all’epoca loro non era così) mentre fare Strauss in modo meno espressionista sia una specie di bestemmia. Due pesi e due misure? Credo proprio di sì. A parte che rifiuto l’idea che esista un modo corretto e uno scorretto di interpretare (chi l’ha deciso, in base a cosa?), ma resta INACCETTABILE che tale “correttezza” si riassuma nell’approccio cosiddetto “storico” o “di tradizione” tra gli anni ’30 e ’60. Secondo tale ragionamento fare Haendel come Bruckner è giusto, ma fare uno Strauss diverso da quello tradizionale è sbagliato. Mistero… Peraltro se si ascolta come dirigeva Strauss le sue opere o altre musiche (un Beethoven asciugato, veloce ed essenziale) si dovrebbero mettere in discussione molte certezze. Non per questo deve piacere o convincere per forza la lettura di Salonen, e a dirla tutta preferisco altre letture di Elektra (una direzione più violenta: Bychkov o Reiner), ma non per questo mi sognerei di definire “sbagliata” quella di Salonen, o di tacciarlo di essere più o meno un bluff (non è certo esposto mediaticamente, ha inciso poco e non ha contratti con grandi orchestre, quindi davvero non comprendo l’astio…). E questo che mi infastidisce, non il proprio legittimo gusto, ma il ritenere un fesso o un prodotto di plastica uno dei migliori direttori viventi. Quanto all’asettico e superficiale Beecham non aggiungo nulla, ho già espresso più volte il mio personale giudizio.

  5. Buonasera a tutti.
    In primis vorrei complimentarmi con Duprez per il dettagliato resoconto dello spettacolo e soprattutto per la puntuale, documentata, impeccabile risposta al commento di Donzelli.
    A quest’ultimo e alla Signora Grisi desidero precisare quanto segue:
    – Erlizius è in realtà Herlitzius;
    – Pekka Salonen è in realtà Esa-Pekka Salonen;
    – Meyer è in realtà Meier.
    Giulia Grisi suggerisce a Waltraud Meier il ritiro dalle scene. A fronte di affermazione espressa con tanta perentorietà, mi domando se Ella potesse indicarci quale cantatrice d’oggi potrebbe costituire una valida alternativa a Waltraud Meier, che scopro essere attrice ma non cantante (o non più cantante?) in quanto “fedele al dettato pkstwagneriano, o cosimesco”, nel ruolo di Klitennestra.
    Si potrà così compiere un’azione meritoria nei confronti del Belcanto, potendo finalmente liberare i palcoscenici di mezzo mondo da chi Donzelli definisce “sciagurata”, “sfasciata” e ciangottante.
    Grazie.
    Un cordiale saluto.

    • Hai ragione ma il tablet corregge e scrive spesso quello che vuole. Chiunque può andare meglio della Meier, perché parla e poco si sente. Del resto la signora presume come pochi, dato che ancora canta, o meglio, boccheggia pure l Isotta. Quando un cantante è incapace di reggere il confronto anche solo con sé stesso deve smettere. Si chiama dignità. Quella che la sua generazione ha dimenticato, come i vari domingo, Nucci, etc . quanto alla presenza scenica, beh, la ortrud era fenomenale almeno in quello, qui, invece, per quello che si vede, on si giustifica per nulla. Si chiama Meier e basta. Ed è da lungo tempo inascoltabile, ora anche per ragioni di decibel. Che poi ci sia o non ci sia una alternativa, non significa che se unomcanta male si debba dire il contrario. Se non va, non va cmq e non si deve dire che va bene, anzi. Sennò si è solo degli acritici. Fans!

    • Quanto alla tua osservazione finale, credo che sarebbe atteggiamento molto più logico ed utile interessarsi al buon canto anziché ostinati q dire che il cattivo canto è buono anche se non è vero. Così anziché continuare ad inseguire etichette di agenzie cercheremmo cantanti adeguati anche fuori dalle Caine specialistiche come quella del canto wagneriano e straussiano, composta dal peggio del mondo lirico . Ti rammento le prove imbarazzanti della Meier al massimo della suancarriera nelle opere italiane etc. Dunque oggi troveremmo qualche crisotemide dotata degli acuti e faremmo a meno delle stecche di madame piezonka che ha ammirato la sua parte. Ma forse il pregiudizio è di chi osanna questi non cantanti, ritenendo che qui non ci sia bisogno o di sapere cantare. E dire che la nilsson ed altre hanno lasciato grandi lezioni, ma…magari sentire latrare a voi piace di più o non conoscete altro che le brutture degli ultimi anni.

    • Ora kurwenal, io chiedo a te, invece, una disamina vocale e musicale dello spettacolo, e pure della regia. A me è piaciuto e nescrivero appena il mio PC me lo permetterà, ma dopo la lezione di ortografia, attendo di leggere cosa tu pensi. E cosa senti. Diversamente interventi come il tuo verranno pubblicati solo nella parte utile alla conversazione, cioè le prime due righe. Mi piace tenere alto il livello delle conversazioni del sito, come sa bene albertemme ultimamente. A presto

  6. Non condivido il giudizio positivo su questa Elektra che ho visto alla generale e ascoltato in diretta radiofonica. Ho trovato bello lo spettacolo, scarno essenziale, suggestivo. L’orchestra ha suonato molto bene, ma la direzione non mi ha convinto, poco drammatica, troppo cerebrale, il suono opaco, a tratti fiacco.

    Tremende le 3 donne, diversamente ma in egual maniera. L’osannata Herlitzius non ha cantato mai, solo strillato dalla prima all’ultima nota, un’emissione sempre spinta, la voce malferma negli acuti; la Meier con un rimasuglio di voce traballante piana di buchi e gradini; la Pieczonka vuota in basso e nel centro, suoni presi da sotto, spinti, non sempre intonati, poco legati; Pape scarsamente sufficiente e solo quando canta al centro, l’Egisto di Randle, come pure le varie ancelle, sotto ogni limite di decenza. Peccato, speravo in qualcosa di meglio.

  7. Anche io sono rimasto piuttisto deluso dalla direzione, che ho trovato poco teatrale. Non ho sentito un solo rubato. L’orchestra mi è parsa distante dal palcoscenico, con il quale non respira, non palpita e non dialoga.

    • vero?! Ecco, lo penso pure io! Percho fare di elettra un’opera moderata, sinistra ma non troppo,agghicciante ma non troppo, primitiva ma non troppo, angosciata ma non troppo, ossessionata ma non troppo, edonista ma non troppo??? Perchè moderare ciò che non è moderato per definizione, che nasce eccessivo perchè tale è la tragedia? ti dirò, ho avuto anche la sensazione che la herlizius avrebbe gradito da parte del direttore piu slancio, per darle maggior forza….. Durante il primo monologo ho avuto questa sensazione……

    • Salonen fa una scelta: può piacere o meno, può convincere o meno. Ma non può essere liquidata come “mediocre”. Non si tratta, Giulia, di “moderare” Elektra, ma di enfatizzarne il carattere di ponte verso la Seconda Scuola di Vienna. Salonen – che abitualmente frequenta un certo tipo di repertorio (Part, Messiaen, Schoenberg, Ligeti, Lutoslawski, Sibelius…) – interpreta Strauss in modo NON espressionista o lussoreggiante o violento: è una lettura assolutamente legittima (e per me molto affascinante). Ulisse, siamo seri, non si può imputare ad un direttore di “non aver fatto i rubati”…dove sta scritto che li avrebbe dovuti fare? Dove sta scritto che avrebbe dovuto replicare la direzione di Mitropoulos o di Solti? Francamente chi si aspettava da Salonen una lettura violenta o lussoreggiante ha sbagliato completamente serata e non ha mai sentito altro diretto da lui. Io non discuto i gusti personali, ma non si può lamentarsi di ogni direzione che non sia la fotocopia di Mitropoulos o di Beecham! E poi, francamente, chi l’ha detto che Elektra deve essere eccessiva? Io non ho notato che la Herlitzius avrebbe gradito maggior espressionismo (peraltro già lo spettacolo è stato rodato – con esiti superiori – ad Aix e quindi è una lettura meditata), però se ci si aspetta dal direttore che faccia fare ai cantanti ciò che vogliono, davvero si ritorna alla figura del battisolfa da tourné sudamericana… Un direttore ha una lettura e la propone. Punto. E’ il suo lavoro, è pagato per questo.

  8. Ma io apprezzo, da modesto cultore di Racine, l’effetto ‘sordina’ teoricamente adottato da Salonen. Sono convinto che lo stile che rappresenta asprezze e lacerazioni di una tragedia dissimulandole sia molto efficace e vivido, perché meglio riflette il modo in cui una tragedia effettivamente matura e si manifesta. Per certi aspetti anche il grande romanzo di Musil, che racconta la stagione che ha immediatamente preceduto lo scoppio della la Prima guerra, cioè la stagione in cui venne composta l’Elektra (1909), rappresenta una tragedia apparentemente asettica. Ma la rappresentazione in Racine e Musil è increspata da una microirrequietudine che nella direzione metronomica di Salonen è risultata alle mie orecchie assente.

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  9. Infatti non comprendo che c’entrino Racine o Musil…vabbé. Però pongo una domanda a Giulia: di chi è l’opera che si rappresenta? Dell’autore e del suo tempo oppure di chi oggi la esegue e ne fruisce? Ha senso parlare di “intenzioni” dell’autore per un prodotto di 100 anni fa? Secondo me si deve scegliere dove stare: o si ritiene che compito dell’interprete sia SOLO eseguire le volontà dell’autore con la freddezza dell’esecutore testamentario e riproducendo le condizioni dell’epoca di composizione limitando, di fatto, l’opera ad un’attività archeologica fingendola atemporale e astorica; oppure si ritiene che la musica viva solo quando eseguita e pertanto “contaminata” dalla storia personale degli interpreti, dal tempo presente, da ciò che oggi può comunicare a chi ascolta. Nel primo caso il gioco però deve valere per tutto, e allora – se bisogna ricercare le volontà autoriali e le condizioni dell’epoca di composizione – questo vale per Strauss, ma anche per il melodramma o il barocco…e quindi si DEVE ritener legittimo il barocchismo con i suoi strumenti originali, gli organici ridotti, l’assenza del vibrato etc… Invece, spesso, chi riconosce l’auctoritas di Mitropoulos o Beecham come dogma irrinunciabile all’interpretazione di Elektra (espressionismo, colori lussureggianti, ipertrofia sonora), tanto da definire “sbagliato” un approccio diverso perché NON CONFORME alle presunte volontà dell’autore, accetta senza problemi le letture iper romantiche di Beethoven, Mozart, Haendel e Bach che si facevano negli anni ’50! Ma come? E’ chiaro che alla loro epoca l’approccio musicale era del tutto diverso…perché in questo caso non se ne tiene conto? Ci leggo una grossa ed evidente contraddizione. Io penso che la musica appartenga agli interpreti, perché solo attraverso loro vive e parla alla modernità. Riprodurre le volontà di gente trapassata da secoli (o decenni) è un’illusione metodologica che si scontra con la logica: vale per il barocco e vale per Strauss. Tutto è immerso nella storia e si deve confrontare con la sensibilità del presente, altrimenti si riduce la musica ad una specie di sperimentalismo da laboratorio. Salonen legge Elektra come anticipo di quel che accadrà dopo. E’ più che lecito. Del resto che faceva Furtwaengler con Beethoven o con Bach?

    • Esemplificativo con due scene. Quella di Egisto che arriva e lei che lo attende . La musica descrive una tensione altissima, quasi un thriller, ma anche l ironia di lei. Pekka s non era ne ironico ne la tensione era alta. Però diretta squisitamente.
      La scena di clitemnestra. Una entrata parossistica, ma era poco parossistica e poco incalzante. Poi lei racconta il suo dramma, le angosce e le paure. Ma sotto non c era nulla, la scena era moscia, per giunta la Meier che canta poco. Solti, mitropoulos, kleiber, Abbado dal vivo, fanno tutto, e tutto rendono. Qui il senso era di distacco. Non ha fatto nulla di anomalo o specialmente originale, dico solo che tutto suonava bene ed armonizzato ma poco emozionante. C è chi fraseggio bene, chi male chi poco e chi tanto . lui fraseggia poco ma suona bene perché tutto è omogeneizzati,ma poco cararatterizzato

      • Qui sta il punto Giulia: quale emozione. Salonen non vuole emozionare (come un Kleiber o un Solti). Non vuole dare pugni nello stomaco. Da Elektra leva tutto quell’apparato espressionista che tradizionalmente l’accompagna. Non ha senso chiedersi se sia giusto o sbagliato. Rispetto a cosa? Può piacere o meno, convincere o meno, ma è una precisa scelta – tipica di Salonen peraltro – che rende uniche le sue letture. Angosce, paure, drammi…possono essere espressi o interiorizzati: Salonen fa trasparire poco, ma il suono così morbido e rarefatto, però teso sino al limite è una scelta che enfatizza l’interiorizzazione del dramma. Ciò che contesto è la critica a Solonen perché fa Salonen…e non Mitropoulos. Sono mondi diversi.

    • Duprez, il discorso sulla totale libertà d’interpretazione che fai è una questione mica da ridere. Su cui è importante riflettere ma per la quale non credo sia possibile dare risposte definitive o comunque che pretendano di esserlo. Una cosa è certa: qualora si accetti la premessa che tu poni, cioè quella che l’opera appartiene in toto all’interprete ( e la volontà dell’autore, in quanto trapassato , non sia da prendere in considerazione ) nessuno potrà rimproverare un interprete, ad esempio, di non rispettare i segni di espressione, di interpretare Rossini secondo gusto verista o eseguire il Giulio Cesare come se fosse un Wor Ton Drama o eseguire Monteverdi con Di Stefano, come è stato fatto. Non vi vedrei nemmeno la necessità di eseguire le opere nella lingua in cui sono state scritte. Rossini si mise a scrivere di proprio pugno le fioriture dopo aver ascoltato quelle ritenute stravolgenti di Velluti. Aveva ragione Velluti? No saprei.

      • Ti rispondo con una domanda. Secondo te chi esegue Rossini o Mozart o Beethoven “filologicamente” può davvero riprodurre le condizioni dell’epoca? C’è una verginità d’ascolto che irrimediabilmente abbiamo perso. Oggi ascoltiamo Mozart o Beethoven, ma conosciamo Mahler, Schoenberg, Bruckner…è nel nostro DNA d’ascolto: com’è possibile fingersi nel XVIII secolo e calarsi nell’approccio di chi era contemporaneo di Haydn (e che quindi Bruckner neppure l’aveva sognato)? Attenzione però a confondere libertà con modalità storicamente definite. Come non può scandalizzarci l’Haendel degli anni ’50 o il Bach su pianoforte, così non deve scandalizzarci il ricorso alla prassi dell’epoca, a patto di prendere tutto con la dovuta considerazione: ossia in modo non dogmatico. L’errore dei barocchisti (e di contro dei tradizionalisti a tutti i costi) è quello di non concepire altre modalità esecutive aldilà di quelle da loro praticate. Il concetto di verità non può essere applicato all’esecuzione musicale storicamente intesa. E’ scontato che ciascun interprete ci metta la sua storia personale. Ti faccio qualche esempio: se ascolti le incisioni di Furtwaengler negli anni di guerra, si sente un approccio differente rispetto a quelle successive. E’ la vita e la storia che irrompono sempre.

      • credo che l’avocazione a se degli abbellimenti post Velluti sia piuttosto fantasiosa e non del tutto vera. Credo che sia vero, invece, che il progressivo implemento di melismi da parte di Rossini rendesse più difficile per l’esecutore gli inserimenti.
        Comunque non so che darei per sentire gli inserimenti di Velluti nell’Aureliano
        Premesso che si conoscono quelli di Garcia nel Barbiere arriveremmo a concludere che davanti a questi cabtanti coautori una Sills od una Horne fossero parche e toscaniniane.

  10. Dato che la conversazione ha assunto una prospettiva più generale, dico sommessamente la mia pur non avendo visto lo spettacolo.

    Io mi ritrovo nella linea di Donzelli e della Grisi e non condivido alcune affermazioni di Douprez. Siamo d’accordo che Strauss non è Rossini (per sfortuna dei cantanti dico io, dato che il secondo sapeva scrivere divinamente le parti vocali senza richiedere sforzi o doti di resistenza più affini all’atletica che al canto, a quanto ho inteso) e che Elektra non è Semiramide (e qui, anche se Semiramide è la mia opera del cuore, non dico nulla perché non conosco Elektra) ma sempre di opera si tratta.

    L’opera è per essenza canto e musica (e scena) e non vedo perché la prima delle componenti debba essere svilita solo perché si tratta di un repertorio non belcantista. Secondo me è pericoloso far passare l’idea che Rossini si canta e Strauss o Wagner o chissà chi invece si devono “interpretare” e del canto chisseneimporta, perché arriviamo a giustificare lo stato attuale del canto, che non è proprio un balsamo per le orecchie. E poi, di questo passo, se il gridare, sospirare, gemere etc. etc. valevano solo per la musica “moderna”, Strauss, Wagner ora questo pensiero si inizia ad applicare sistematicamente ad ogni repertorio, compreso quello del belcanto. Ed è ovvio! Perché se va bene da una parte, perché non dovrebbe valere dall’altra? E’ sicuramente più facile intendere l’opera come un teatro di prosa con la musica, ma si snatura nella sua essenza e ciò mi pare assolutamente inaccettabile e disonesto.
    Ben venga l’interpretazione, ci mancherebbe! A pochi piace vedere in un allestimento delle statue gelide che come robot cantano la parte, ma l’interpretazione deve passare attraverso il canto e la tecnica altrimenti potremmo chiamare Vasco Rossi per cantare Assur e la Pausini per cantare Semiramide, tanto il canto non conta oppure è secondario: se c’è tanto meglio, se non c’è ce ne faremo una ragione.

    Io capisco che ci sono molti come Kurwenal che cercano di vedere il bicchiere mezzo pieno e, in modo leggermente infantile (ma chi non lo è?), dicono “chi farebbe di meglio?” (domanda spontanea che in qualche frangente, credo, tenti tutti quanti), senza pensare che meglio non significa bene e che voler vedere il bene in ciò che è male, anche se meno male rispetto ad altro, è assurdo.

    Ogni valutazione sul canto dovrebbe partire dalla valutazione se siamo in presenza di canto oppure no e trarre a partire da ciò le proprie considerazioni. Non si possono paragonare due cose differenti, lo insegnano alle elementari con l’esempio delle pere e delle mele e penso che valga anche in questo ambito.
    Solo a quel punto possiamo discutere sullo stile, sul gusto, sulla proprietà d’accento etc. che sono elementi dipendenti dall’epoca di creazione dell’opera e dall’epoca di ricezione e, più spesso, dal gusto personale. Possiamo confrontarci per giorni discettando se il gusto e l’approccio della Gruberova al belcanto sia condivisibile oppure no. Forse non lo è e a moltissimi fa storcere il naso, io invece personalmente la amo molto e mi piacciono quei vezzi che altri reputano difetti. Ma a nessuno che capisce qualcosa di canto verrebbe in mente di dire che non canta e che non abbia una tecnica fenomenale.

    Una domanda: che edizione mi consigliereste di ascoltare per un approccio all’Elektra? Possibilmente una facilmente reperibile:) Ringrazio in anticipo :)

      • Scusa Giulia, ma a me pare di ricordare che la Della Casa faccia Crisotemide nella versione diretta da Mitropoulos con la Bork…o ricordo male io ? Comunque, io, personalmente, preferisco la versione più “educata” della Nilsson.
        PS: l’unica Elektra che ho sentito dal vivo è stata nel 1999 (o giù di lì) alla Bayerische Staatsoper con la Schnaut (che si fece annunciare indisposta prima dell’inizio) e la Lipovsek, direttore Schneider. Ricordo che la di urla belluine ne sentii parecchie…

        • Vidi quella bruttissima della scala con la schnaut, e l orrenda macelleria di Ronconi che ben si intonava con la buca berghiana di sinopoli.poi quella stupefacente di Abbado con i berliner al maggio, e la Polanski.serata mitica di Abbado e della sua orchestra.

          • Io vidi la ripresa di qualche anno successivo agli Arcimboldi, in buca c’era Bychkov…l’allestimento rimane una vera schifezza! Di Sinopoli, live, vidi solo la Frau.

    • Però Ninia, parli di cose differenti. Ogni repertorio ha modalità espressive differenti. Del resto anche noi non parliamo l’italiano del ‘700. E comunque non si può porre l’alternativa tra belcanto e urlo. E poi l’interpretazione è qualcosa di immanente all’esecuzione musicale: non può esistere esecuzione senza interpretazione. Dici però una cosa Ninia, che rivela un tuo approccio personale e un tuo gusto: la frase per cui “purtroppo” Strauss non è Rossini…ecco fermiamoci qui, perché è evidente che Elektra e quella che chiami musica “moderna” (vabbè…) non potrà rientrare nei tuoi gusti. Quel che dici, poi, sulla Pausini o Vasco Rossi, non c’entra nulla con la questione.

      Ps: io ti consiglio l’edizione diretta da Bohm con la Borkh (DGG) oppure quella diretta da Bychkov.

      • Ma siamo d’accordo che tra belcanto e urlo ci passi un abisso, ma non trovi sia limitativo relegare il canto ad elemento secondario o giustificare per “motivi interpretativi” cantanti che gridano e strepitano? Io personalmente sì, proprio perché vorrei rispettare ciascun repertorio (che va eseguito con le caratteristiche che gli sono proprie e la relativa libertà a interpreti e direttore) e non discriminare né Rossini né Strauss affibbiando all’uno direttori scadenti e all’altro attori di prosa che nel tempo libero provano a cantare.

        Sul fatto che non ci sia un modo giusto e unico di interpretare mi trovi completamente d’accordo. E sul fatto che ciascuno abbia i suoi gusti certamente, ma quelle parentetiche erano, banalmente, ironiche risposte alla tua menzione di Semiramide:) E perdona l’evidente paradosso sulla Semiramide popXD

        Lasciami dire che la tua conclusione sul fatto che Elektra non potrà piacermi lascia davvero il tempo che trova, perché io, da par mio, non mi precludo nessun ascolto. Semplicemente non ho avuto il tempo o l’occasione fino ad ora di accostarmi a moltissime opere, ma non credo che questa sia una colpa. Parto da amante del belcanto e del grand opera, ho dei gusti ben definiti, ma apprezzo moltissimo anche opere moderne (uso questo aggettivo in senso temporale non spregiativo: anche Rossini è moderno rispetto a Monteverdi.) e molte ne ascolterò in un futuro prossimo o remoto. Poi non è che tutto deve piacere, ma bisogna saper vedere la grandezza anche se non si apprezza completamente una cosa. Non sono del partito dell’amore a prima vista: i gusti cambiano, non tutto deve piacere hic et nunc, si cambia, si matura, la mente col tempo si apre ad abbracciare molte più realtà di quanto si possa immaginare. E questo, pur essendo giovane, lo posso testimoniare: ora come ora il Ring mi piace molto e fino a 2 anni fa non potevo neppure ascoltare Wagner, recentemente grazie al blog ho scoperto quell’opera bellissima che è Iris e così via…
        Ho un atteggiamento propositivo, per nulla esclusivo, nonostante non sia propriamente germanofilo operisticamente parlando (questo lo concedo :)

        Grazie alla Grisi e a Duprez per i consigli discografici:) Cercherò di ascoltarla il prima possibile. Se arriverò vivo alla fine della sessioneXD

  11. Certo Ninia, tra belcanto e urlo ci passa un abisso, ma non è che tutto ciò che non sia belcanto automaticamente diventa urlo. E’ chiaro che non si può ricondurre tutto ad un ideale di perfezione assoluta – secondo quali paramtetri poi, perché mi darai atto che tra la scrittura di Rossini e quella di Berg c’è un’abisso: entrambi vanno cantati, ma in maniera differente (altrimenti come spiegare le differenze di repertorio tra interpreti anche eccellenti?). Neppure si vuole giustificare il malcanto con la cosiddetta interpretazione: bisogna però intendersi sul significato dei termini…qualsiasi esecuzione è un’interpretazione. Andando nel concreto, però, bisogna abbandonare – secondo me – la penna di Beckmesser e considerare ogni esecuzione come un esame al Conservatorio, trasformando l’ascoltatore in giurato o giudice o, addirittura, boia. L’esecuzione non può essere perfetta, ci sono mille circostanze che influenzano la stessa: ecco perché non mi piace vivisezionare un’esibizione, ma preferisco cogliere il complesso e la riuscita musicale generale perché l’opera è, principalmente, musica e la musica è fatta da tanti fattori che concorrono alla riuscita (canto, orchestra, interpretazione, comunicazione, coinvolgimento). Diamine, non siamo mica professori! Che poi – andando a ben analizzare certi ascolti del passato – si ascolteranno tanti errori, tante mende (magari differenti)…insomma la perfezione non può esistere nelle cose umane. E poi ci sono momenti e particolari circostanze che davvero fanno passare in secondo piano eventuali difetti o errori: ti faccio alcuni esempi tratti da altro genere (più pacato nella fruizione). Se si dovesse applicare certo rigore assoluto si arriverebbe a dire che Richter o la Argerich sono pianisti mediocri perché in diverse esecuzioni live (testimoniate dal disco) fanno qualche errore. Idem della celebre Nona di Mahler diretta da Bernstein coi Berliner, dove gli ottoni in un paio di punti cannano in modo decisamente evidente…eppure si tratta di interpretazioni storiche. Ma vale anche per il canto: prendi la Callas, quella della sua ultima e sofferta Norma o nella Tosca o nel Poliuto…magari vocalmente non sarà impeccabile, ma è davvero importante?

    • Io però, Duprez, credo che se un cantante ha acquisito la tecnica allora quando affronta il ruolo può davvero interpretare. Non si possono mettere sullo stesso piano le intenzioni di cantanti che non hanno tecnica (dunque è giusto definirli cantanti?) con quelle di chi sa cantare. E’ improprio. Inoltre non mi sentirei di paragonare la Callas, pur a fine carriera, con altre signore… Mende ce ne sono, ma la differenza si coglie eccome.

      Anch’io sono d’accordo che bisognerebbe cercare di non fare troppo i professori, infatti se si riscontra la tecnica di base non sono io quello che va ad infierire e a sottolineare ogni difettuccio, anzi, ci passo sopra. Poi è naturale che mende, difetti, cadute di stili etc. ci siano in ogni cosa antica e moderna, live e studio. Va giudicato il complesso, è vero! Ma bisogna considerare le priorità: forse tu dai più importanza al direttore e all’orchestra, io invece al canto e quindi abbiamo approcci diversi. Però credo che pretendere un livello minimo da entrambi sia l’atteggiamento più giusto quando si valuta un’opera. Mi pare un dato di fatto purtroppo, che oggi a ben pochi interessi davvero del canto nell’opera )oppure gli standard si sono davvero abbassati di molto) e questo, a mio avviso, resta il più grande paradosso.

  12. dopo la diretta radiofonica,mi sto ascoltando la registrazione,che mi hanno mandato,per me è stata una recita piu che
    dignitosa,anche (sopratutto) della protagonista,sono d’accordo con la recensione di Duprez

  13. Condivido ovviamente tutti gli interventi di Duprez in questo post. Duprez santo subito. Solo una piccola chiosa da parte mia (che probabilmente Duprez condividerà, e dunque non è certo una correzione): non vedo una contrapposizione fra due strade diverse, l’attenzione alle intenzioni dell’autore OPPURE l’espressione del presente e della contemporaneità. Si tratta in realtà di due poli in perenne dialogo e dalle infinite possibilità di reciproco equilibrio (o disequilibrio). E direi anzi che proprio una profonda comprensione delle intenzioni del compositore e del suo ambiente storico può (e forse dovrebbe) aiutare l’interprete ad attuallizzare l’esecuzione a distanziarla da quelle che erano probabilmente le modalità esecutive originarie. Mi spiego con un esempio arciusato: nel settecento una dissonanza di seconda maggiore aveva per l’ascoltatore una potenza espressiva infinitamente maggiore che per le nostre orecchie, abituate a tutto quello che è venuto dopo (da Wagner a Strawinsky a Ligeti). Non c’era bisogno che l’interprete la sottolineasse particolarmente, era sufficiente il linguaggio armonico a colpire e direi urtare l’orecchio dell’ascoltatore. Oggi non è più così, e se l’interprete vuole ricreare un simile effetto di “urto” dovrà enfatizzare espressivamente la dissonanza…. Ci sono infinite questioni interpretative di questo tipo, ed è positivo che ogni tanto se ne discuta senza dogmi e con apertura mentale.

  14. Grazie per la chiosa, Idamante, che naturalmente condivido, così come condivido le tue considerazioni circa la valorizzazione di certi elementi di rottura che negli anni e nei secoli hanno mutato l’impatto nei confronti del pubblico. Colgo anche l’occasione per meglio esporre il mio pensiero al riguardo. La questione è sempre la stessa: accettare la legittimità di diversi moduli espressivi senza imprigionarsi nel rispetto a presunte auctoritas che, sempre più spesso, diventano dogmi incontestabili o termini ultimi di paragone a cui riportare qualsiasi esecuzione, misurandone la pretesa “correttezza” dal grado di simiglianza a suddetti modelli. Che queste auctoritas si chiamino prassi autentica, filologia, volontà autoriale o tradizione poco importa e poco cambia. Però se si accetta come regola assoluta il rispetto di una di tali auctoritas, allora bisognerebbe declinarla con coerenza e, quindi, se si ritiene “scorretto” un approccio a Strauss anti espressionista e asciugato, quasi rarefatto, nei suoni e a cui viene negato ogni eccesso di colori, e lo si ritiene “scorretto” proprio perché non coerente alle presunte volontà di Strauss o all’epoca storica in cui autore e librettista si sono trovati ad operare, allora la medesima attenzione e cura andrebbe rivolta al repertorio barocco o prebarocco o al melodramma, e ritenere – coerentemente – lo specialismo barocchista come l’unica formula corretta di esecuzione. Se è “sbagliato” lo Strauss di Salonen – perché non aderente al presunto originale – lo è anche il Bach di Gould o il Beethoven di Furtwaengler o il Mozart di Bernstein. E’ chiaro che non può essere così: non ha senso inserire categorie morali nell’esecuzione musicale e fingere che l’interpretazione sia svincolata dal tempo e dalla storia. E questo vale per la presunta volontà dell’autore (che non conosciamo e non possiamo conoscere) e per la cosiddetta “prassi autentica”. Parto da un esempio preciso: “Il ritorno di Ulisse in patria” nella revisione di Hans Werner Henze (Salisburgo 1985). In questi ultimi anni la diffusione del genere prebarocco (così lontano dalle forme consuete dell’opera classica a cui – piaccia o meno – siamo abituati), ha portato ad una paradossale eliminazione di un problema: da una parte, infatti, percepiamo un vivo interesse per Monteverdi e la sua epoca, ne cogliamo certa modernità di linguaggio, addirittura rileviamo i tanti punti di collegamento con la nostra modernità, ma dall’altra fingiamo di ignorare (o spesso liquidiamo con accuse di volgare reazionariato) il problema esecutivo. Oggi è “obbligatorio” adottare modalità cosiddette “storicamente informate” e che ripropongono la “prassi autentica” (anche se si tratta di ricostruzioni convenzionali di quello che noi – uomini del XXI secolo – abbiamo deciso cosa essere autentico o meno: l’esempio del diapason “fasullo” a 415 Hz è emblematico). eppure – contestualmente – si dà massima libertà di stravolgere la drammaturgia originale. Senza contare l’aleatorietà di recuperare una prassi che si presenta come “vera”, “corretta” e “autentica” quando si è persa quella verginità d’ascolto che rende impossibile eseguire Monteverdi senza pensare a quel che è successo dopo (oggi abbiamo nel nostro DNA musicale Beethoven, Bruckner, Mahler, Shostakovich etc…per cui appare impossibile riprodurre l’animus di chi eseguiva Monteverdi nel 1610!). Oggi si eseguono opere come l’Incoronazione di Poppea o La Calisto in teatri ottocenteschi, magari sfruttando la buca sotto il palco, con prosceni enormi, torri sceniche gigantesche e 2.000 posti davanti…eppure si pretende di utilizzare l’orchestra dei teatri veneziani dell’epoca di composizione (che contavano una dozzina di strumentisti e spazi ridotti). Questo, piaccia o meno, crea una distorsione fruitiva dell’opera. Così da far ritenere l’operazione, non la riproposizione di una prassi creduta autentica e di condizioni che riprodurrebbero esattamente l’epoca perduta, ma un’idea della stessa che è il risultato di convenzioni accettate. In questo senso credo che riprendere il discorso di operazioni simili a quella compiuta da Henze con l’Ulisse sia non solo lecito e legittimo, ma anche auspicabile. Questo non in chiave esclusiva – per sostituire una convenzione con un’altra – ma in funzione unicamente artistica. Ovviamente bisogna intendersi prima sull’individuazione di quella che è la funzione esecutiva: riproposizione scientifica di un mondo perduto oppure rivivificazione attraverso lo sguardo della modernità su un antico che ha ancora da comunicarci molto? Archeologia o vitalità creativa? I due aspetti possono coesistere, ma si dovrebbe abbandonare quell’atteggiamento snobistico – largamente diffuso – per cui coloro che mettono in dubbio non la liceità del modo antiquo inteso come utilizzo di una prassi ricostruita, ma la sua presunta “correttezza” rispetto ad altre modalità ritenute, conseguentemente, “scorrette”, vengono rappresentati come ottusi reazionari, provinciali cultori di una tradizione sorpassata e altre amenità. Dicevo, dunque, che sarebbe interessante che musicisti dell’oggi si confrontassero con l’antico, cercando di colmare quell’innegabile divario – che rimuoviamo – tra la prassi di allora e il moderno teatro d’opera. Per uscire, insomma, da quegli assolutismi che caratterizzano gli ultimi tempi di passioni musicali: in un senso o nell’altro. Henze quindi non fa un’operazione da retroguardia culturale, ma fa rivivere Monteverdi superando i vincoli dell’adesione ad una certa prassi ricostruita. Porta Monteverdi al di fuori dagli ambiti ristretti di una specializzazione che troppo spesso è autoreferenziale e cerca di coglierne i rapporti con la modernità attraverso un linguaggio più comprensibile (ma non per questo più facile). L’opera è comunicazione e per comunicare deve parlare un linguaggio noto. Henze scrive che “il mondo non si può lasciare fuori, esso penetra nella stanza di lavoro”, e così la modernità non si può sospendere per riprodurre qualcosa di irriproducibile. Henze non fa che declinare il concetto. Rivivere la partitura, finalizzata a comunicare sul palco ad un pubblico più vasto, all’epoca di composizione inimmaginabile. In un certo senso per il compositore il momento dell’esecuzione sul palco è più importante del testo: “il palcoscenico è l’occhio della partitura”, così scrive Henze. Desacralizzare l’approccio museale e consentire alla musica viva di appropriarsi di un passato lontano e di difficile comprensione. Perché considerarlo “scorretto” o peggio “stupido”? Era scorretto Shostakovich quando rielaborò le opere di Musorgskij? Era scorretto Rimskij-Korsakov? Purtroppo oggi si tende a considerare tali operazioni come “falsificazioni” come se non si riuscisse a prescindere dalle categorie morali applicate all’arte (giusto/sbagliato o buono/cattivo). Io rivendico, invece, l’autonomia artistica di questi interventi così che il Boris di Shostakovich è cosa diversa dall’originale, ma non scorretta o sbagliata. Così vale per l’Ulisse. Ma così vale anche per i Wesendonck-lieder che nella versione di Henze per contralto e orchestra da camera acquistano un erotismo più carnale della classica versione Mottl che cerca di farne una prova generale per il Tristan. Eppure c’è ancora diffidenza. Quasi si stesse deturpando un’opera d’arte compiuta. Ma chi dice che quell’opera è compiuta? Se proprio solo con l’esecuzione quell’opera diviene fruibile, allora non si può ancorarsi ad una autenticità convenzionale. Autenticità spesso affidata a specialisti che rispondono a mere velleità (quanti complessi cosiddetti “autentici” stanno sorgendo come funghi dopo la pioggia? E per quanti di loro si può giustificare la presenza in base ad un’effettiva qualità o interesse?). E non è solo la prassi esecutiva che risponde a dogmi che hanno scardinato il rapporto tra composizione ed esecuzione: si pensi ad un altro tabù ancor più duro da scardinare, ossia la lingua originale. Oggi solo porre dubbi in merito equivale ad essere fulminati da accuse d’ogni sorta (come le vecchine devote che se la presero con Paolo VI quando tolse loro la messa in latino), eppure il problema della comunicazione nell’opera è fondamentale (e non si risolve certo propinandoci le vecchie versioni ritmiche, oggi ridicole nel lessico e spesso più incomprensibili dell’originale, quando addirittura incoerenti al testo musicale, come quella di Bassi del Tell)! Anche qui è sempre l’ottica museale a prevalere. Eppure l’opera è teatro in musica. E il teatro è parola e spesso la musica traduce in forma sonora la parola e il suo significato. Non comprenderlo significa non capire del tutto quel che si ascolta, così come quelle vecchine che ripetevano i loro “santificetur” senza capire che volesse dire (atteggiamento talvolta così assurdo da produrre follie, come l’adozione del testo “originale” pure nell’operetta – accadde alla Scala proprio con La Vedova Allegra, rectius Die Lustige Witwe del 2008…). Lo stesso vale per il rispetto della tradizione o delle presunte volontà dell’autore.

  15. Caro Duprez, tu poni sul piatto una serie di questioni ognuna delle quali meriterebbe in effetti una approfondita disamina a sé stante. In generale condivido pienamente il tuo approccio, sia nella necessità di storicizzare sempre l’interpretazione, sia nell’opportunità di concedere “a priori” pari dignità artistica sia ad operazioni che cerchino di avvicinarsi per quanto possibile all’originale (con tutti gli equivoci del caso), sia a operazioni che al contrario ne prendano esplicitamente e consapevolemente le distanze, come appunto quella di Henze. Poi certo, i risultati andranno valutati volta per volta.

    Magari su alcune singole questioni io personalmente metterei una diversa accentuazione. Ad esempio, mi sembra che fra gli indubbi meriti del lavoro di Henze tu sottolinei quello di ricondurre almeno in parte il linguaggio al “già noto”. D’accordo, io però allora sottolinerei come al contrario fra i meriti dei gruppi “filologici” ci sia stato principalmente proprio quello di proporre alle orecchie di oggi delle sonorità “diverse”. Cioè, al di là di quanto fallaci possano spesso essere stati i tentativi di “ricostruzione” (e spesso lo sono stati), sotto l’egida di quel progetti si sono riscoperte o magari addiritura inventate sonorià che altrimenti sarebbero state lasciate a dormire. Tipico esempio quello dei falsettisti: certo che è un falso storico proporli come alternativa ai castrati, però questo “surrogato” ha aggiunto un nuovo importante ingrediente allo scenario sonoro della contemporaneità, e ormai non si contano i compositori contemporanei che introducono il controtenore nel loro pezzi (da Berio a De Pablo a Sciarrino). Che poi tali operazioni a qualcuno non piacciano, e che lavori come quello di Henze siano indubbiamente più “mainstream” è tutt’altro discorso.

    Anche sulla faccenda della lingua originale la penso un po’ diversamente da te. A me quello che personalmente disturba delle “versione ritmica” è che spesso ne avverto profondamente l’incongruenza con la linea musicale nonché talvolta l’intrinseca bruttezza del testo. Vedi il Don Carlo: certo che la (o le) versione italiana è un prodotto a sé stante rispetto all’originale francese, però è difficile non avvertire come il testo italiano sia spesso astruso e involuto, e comunque completamente carente di quella “parola scenica” a cui Verdi tanto teneva. Si sente puzza di traduzione lontano un miglio, e non potrebbe essere diversamente. Verdi ne era certo più che consapevole, ma ovviamente non gli sarebbe mai venuto in mente di riproporlo in francese proprio per le esigenze di comunicazione a cui ti riferivi. Ore però le cose sono completamente cambiate, e fra libretti stampati, internet e traduzione su display in teatro, il pubblico ha molto più agio di comprendere il testo anche se cantato in lingua straniera: storicizzare significa anche tener conto di questo. Poi certo, anche qui nessuno steccato e nessun dogma: in determinati contesi le traduzioni possono funzionare eccome (e del resto nei teatri di provincia tedeschi e inglesi si traducono ancora le opere italiane), e se per avere l’originale mi devo beccare l’ultimo Tell pesarese, anch’io opto volentieri per Calisto Bassi…

    • al volo una risposta sui castrati qui credere che un falsettista sia la soluzione alternativa che permette l’esecuzione di certi melodrammi è un disonesto falso storico. Castrati e contralti donne erano a perfetta vicenda. Non solo quando non si disponeva del castrato si scritturava una donna, ma quando non si disponeva di un contralto donna si poteva impiegare un castrato. A Londra nella stagione 1825 Velluti cantò Arsace, ma quello di Semiramide. La ricerca della verità storica, della prima esecuzione etc è importante ed essenziale ai fini della riproposizione di certi titoli e di determinati periodi per i quali non si dispongono di testimonianze dirette ed autentiche ( a differenza di quello che accade per Strauss, visto il post in cui siamo), ma la bufala, la sola, la patacca sono sempre in agguato, magari condite da ricerche di cettedradici la cui sola cattedra è quella codificata dal buon Tito Vespasiano!

  16. Ma Donzelli, caro, o non capisco quello che mi vuoi dire o a te è sfuggito qualcosa di qualcosa di quello che ho scritto: l’ho detto anch’io a chiare lettere che l’uso dei falsettisti come alternativa ai castrati è un falso storico…e dunque?

    P. S: Comunque mi accorgo ora che a me era completamente sfuggita la parentesi di Duprez sulle “versioni ritmiche”, e che quindii anche su questo argomento le nostre posizioni non sono poi così distanti.

    • Il problema – a mio avviso – non è tanto l’uso dei falsettisti (che comunque è, paradossalmente, antifilologico poiché, come ricorda Domenico, quando non si disponeva del castrato si ricorreva al contralto o al soprano, e il falsettista, quando utilizzato, era esplicitato), ma la fictio per cui si ritiene “doveroso” il loro utilizzo: è la questione di cui parlavo prima, ossia la ricostruzione ex post di una prassi pretestuosamente definita “autentica”, ma che – nella sostanza – è un barocco virtuale, astorico e convenzionale. Una specie di “falso autentico” (quello che qualcuno chiamerebbe – con espressione ormai abusata – “post moderno”) che si illude di poter riprodurre il passato come in una macchina del tempo: non può essere così, perché noi viviamo nel XXI secolo, abbiamo memoria storica e personale di esperienze (anche musicali) inconcepibili all’epoca e che, volenti o nolenti, si riflettono in qualsiasi interpretazione. Non contesto l’uso del falsettista in quanto tale (se a qualcuno piace, liberissimo di ascoltarlo), ma ne contesto l’assunto dogmatico. Del resto l’arroganza palese di certe esecuzioni specialistiche sta nella autodefinizione “storicamente informate” o “autentiche”, e non è un caso che una forte critica a tale dogmatismo venga da un musicista considerato un pioniere di tali ricerche musicologiche, ossia Nikolaus Harnoncourt che rifiuta il termine “storicamente informate”, perché illusorio, sbagliato e offensivo per ogni approccio differente (come se il Beethoven di Furtwangler fosse “storicamente disinformato”). La penna di Beckmesser va riposta in tutti i campi…porta solo arroccamenti e chiusure.

      • Ma si certo, è tutto vero, e fra l’altro credo che ormai anche fra i “filologi” siano tutti più o meno consapevoli che il falsettista come alternativa al castrato è antistorico. Se ancora qualcuno non lo sa o fa finta di non saperlo, problemi suoi. In generale è invalso l’uso di usare il falsettista appunto come “surrogato”, un surrogato non obbligatorio ma a discrezione del direttore. è una scelta che può non essere condivisa, ma che a suo modo è comprensibile: siccome nel volere ricreare l’impasto dei colori dell’opera sei-settcentesca un certo “materiale” (il castrato) è scomparso, per mantenere il principio della varietà se ne usa al suo posto un altro,il falsettista, molto diverso e molto più povero di potenzialità, ma che nel medesimo periodo trovava utlilizzo anche se in ambiti diversi (chiesa e oratorio). A me sinceramente l’idea non sembra affatto assurda,anche se “postmoderna” finché si vuole, e come ascoltatore non mi dispiace in certe opere di Vivaldi o Haendel con sei o sette soprani e contralti trovarmi un’alternanza fra falsettisti e voci femminili, piuttosto che il monopolio assoluto delle seconde. Poi, chiaro che tutto dipende da chi canta e come…
        Capisco che l’arroganza e la presunzione intellettuale di qualcuno provochino irritazione, ma alla fine quello che conta sono i prodotti e i risultati, al di là delle motivazioni e delle dichiarazioni di intenti. Nel booklet delle Nozze di Figaro del “pioniere filologo” Mackerras c’è un’intervista fra lui e (mi pare) Robbins Landon in cui i due fanno letteralmente a gara a chi spara più bischerate e assurdità..Meglio non leggerla e passare all’ascolto, e valutare i risutati a prescindere delle intenzioni. Del resto per un po’ anche Muti è riuscito a far passare l’idea che il suo fosse un Mozart “filologico”: ora qualcuno lo vorrebbe seriamente giudicare da quel punto di vista?..

        Comunque il mio discorso mirava a sottolineare come, magari in seguito a motivazioni fallaci e pretestuose, abbia trovato affermazione una vocalità, quella controtenorile, che piaccia o non piaccia è ora una realtà del “suono” del presete, ed è di stimolo ai compositori contemporanei proprio per il suo particolarissimo colore, e non per motivazioni pseudo-storiche. Allo stesso modo l’America venne scoperta da Colombo in seguito a motivazioni sbagliate.. e anche in quel caso qualcuno rimpiange che sia stata scoperta! :)

  17. Ho riletto il passo e proprio non riesco a immaginare in quale senso possa essere stato inteso, se mi obietta che i falsettisti sono un falso storico dopo che io ho appena scritto testualmente che i falsettisti sono un falso storico… Se tu o qualcun altro me lo spiegherà, io sarò felice di chiarire ulteriormente il mio pensiero.

  18. Comunque, chi ha tempo nion si perda questa sera l’ultima replica dell’esecuzione della Prima sinfonia di Mahler diretta da Salone alla Scala.: cantabilità. morbidezza, tensione, c’è proprio tutto quello che si desidera e che manca o non è stato ancora raggiunto nell’Elektra.

    U

  19. Io mi permetto di intervenire con grande umiltà nello stimolante e denso dibattito solo per fare notare al dottissimo Duprez che il plurale di auctoritas sarebbe auctoritates… Per una volta sarò io la Nanny imperatrice bizantina…

    • Ehm Ehm… Mi pare che il Duprez scriva in italiano e la lingua italiana impone che se il numero è certo per la presenza di articoli, preposizioni aggettivi o simili, i termini stranieri non devono essere pluralizzati. (si scrive gli sport e non gli sports, i curriculum e non i curricula, come spesso silloge purtroppo).
      Quindi Un premio al Duprez e un buffetto alla Viardot (la regola, davanti ai cognomi si mette l’articolo, anche se la cosa è caduta in disuso).
      Detto questo: il 18 maggio io c’ero (come molti di voi, altri hanno sentito l’esecuzione per radio e quindi…) ed ero in galleria (I galleria I fila), uno dei pochi punti dove ormai alla Scala si sente qualcosa dopo gli sciagurati lavori di “restauro”
      1) Concordo in pieno col Duprez per la direzione. Aggiungo anche che il pugno nello stomaco arrivato all’inizio ha colpito tutti: una sciabolata di luce bianca, un dolore lancinante dell’anima, e poi subito il baratro del mondo delle ancelle. Tutta l’opera è proseguita così, con una direzione corrusca che ancor più sottolineava i momenti bui illuminandoli con luce metallica. Ha fatto suonare un’orchestra che è l’ombra di quella che fu negli anni di Abbado (per la gioia di suonare) e di Muti (per la perfezione formale) e che persino con Pappano nei Troiani ha commesso qualche errore, e questo da solo basterebbe a definirne il carisma e il valore. Aggiungo anche una cosa: Salonen seguiva il palcoscenico (oggi mi sa che sono rimasti solo Pappano e lui a farlo) facendo in modo che la parola venisse percepita sempre.
      2) A questo punto veniamo alla Meier: la voce non è quella di un tempo, si nota la fatica madide che non si sentiva è non solo scortese ma profondamente inesatto. Personalmente non ho perso una parola e quindi: o il mio posto era particolarmente fortunato, o ho le orecchie da pipistrello (non più, ho 56 anni) oppure… Ah, a proposito! La Meier ha circa la mia età, i signori Domingo e Nucci hanno passato i 70!
      3) La Herlitzius: mai trionfo fu più meritato. Spinge, sì, forse un po’ ma canta, canta tutto!
      4) La Pieczonka: sotto tono rispetto ad Aix (ma non c’ero, ho visto il video, quindi non giudico). Però anche in questo caso l’attenzione al significato delle parole, al “recitar cantando” era totale, merito suo o della regia?
      5) La regia appunto! Isotta l’ha definita innocua. Personalmente credo che siamo in presenza della miglior regia di Chereau, superiore persino a quella di “Da una casa di morti” o al “Ring” del ’76. Avete notato che nessun gesto era superfluo? che non c’erano siparietti, controscene inutili doppi? Tutto era risolto nel testo e nella musica. La pietrificazione di Elektra dopo il ballo “anchilosato” mi ha letteralmente sconvolto, così come l’azione quasi “da ragioniere” di Orest. Forse è questo il motivo per cui Pape non ha impressionato e invece è questo il motivo per cui, al contrario, ha offerto una prova maiuscola.
      Una noticina finale scorrere la locandina e leggere il nome di Donald McIntyre come Ein Alter Diener fa impressione: non so se sia così, ma ho l’impressione che Chereau abbia voluto circondarsi dei suoi cantanti, quasi a chiudere il ciclo iniziato proprio col Ring del centenario dove McIntyre era Wotan.

      • Spingere e cantare a volte sono inconciliabili.la herlizius fa gran cosa è molto l ho applaudita. Ma lega poco, poco, e a volte urla, e vibra anche per lo sforzo. Fuori da qui, dove i difetti passano in secondo piano data la parte, non la vorrei sentire. Quanto alla dizione della Meier,beh..appena è in difficoltà la lingua si attorciglia.

  20. buon giorno a tutti, ho dato anch’io un modesto contributo all’indomani della prima su questa Elektra, da me gustata alla prova generale, con un brweve succinto intervento, ma credo che per un disguido tecnico si sia perso nelle bozze di correzione senza giungere a palesarsi agli altri.
    Forse poco interessante, comunque in sintonia con il giudizio lusinghiero generale dei piu’ , pubblicati, dopo le alterne vicende artistiche della stagione ormai in avanzata fase di rappresentazione.
    Buona giornata a tutti.

  21. ” Non ci sono altri termini per definire l’esito della prova generale e credo delle rappresentazioni ufficiali in cartellone per la Elektra del” 2014 esattamente nove anni dopo quella del 2005.
    “Esecuzione pregnante, soddisfacente, emozionante per questa Elektra con meriti – come raramente accade – condivisi tra tutti”. A partire da Sofocle, per osannare ovviamente Strauss, senza dimentica il peso determinante di von Hofmannsthal, e poi da li’ a cascata verso l’orchestra scaligera correttamente allargata secondo le indicazioni dell’autore, il sobrio direttore, gli interpreti e “non da ultimo il pubblico, che almeno alla fine della prova generale non ha abbandonato precipitosamente la sala (a volte accade…), fermandosi a lungo ad applaudire”.
    Sono stati infatti gli interpreti a congedarsi dai presenti alla generale con un cordiale sentito saluto con il braccio destro teso e la mano aperta, dileguandosi sulla coda dell’ultimo applauso.
    Serata che riconcilia chi ha pazientato , opera dopo opera, in attesa della prova di orgoglio e stile che differenzia il teatro dai teatri.
    Con buona pace di taluni.

  22. un’altra grande serata ieri alla Scala. Sinceramente da come avevate descritto la prova della Meier la pensavo più in declino (l’avevo già sentita a Salzburg in Clitennestra) invece, ha avuto qualche sintomo di stanchezza solo a tre quarti del suo lavoro, ma si sentiva bene grazie anche ad una straordinaria direzione al servizio della “borghesia” ivi rappresentata. Si é poi ripresa dimostrandosi una delle “Artistone” degli ultimi venticinque anni. Buone anche la Herlitzius (molto apprezzata) e la Pieczonka (pure acclamata). Emozionante rivedere ancora una volta in carne ed ossa Mc Intyre più ancora dello straordinario Franz Mazura.-

    • parlare di borghesia, sia pure virgolettando il termine, con riferimento ad elektra è come parlare del Mito in Francesca da Rimini. Per altro un simile “risotto” di categorie è ben consono a chi ritenga in buone condizioni i resti di waltraut meier! Andare ad ascoltare questa ed altre cantanti della sua stessa covata tecnica ed ideologica equivale ad una ricognizione dei resti

      ciao !!

  23. Che Strauss si possa eseguire con i resti (alias rimasugli) di cantanti, non è novità, ma forse è l’ultima gioia rimasta a quelli che si accontentano di poco, molto poco, quali nulla.
    Se poi costoro scorazzano di teatro in teatro in mezza europa, per seguire questo caravanserraglio per dire ad amici e non “io l’ho sentita a Salisburgo….e a parigi, nonchè a vienna….mi fa sorridere anche se mi intristisce assai. Sic transit gloriae mundi.

  24. Appena tornato dalla recita. Meier sembrava una Micaela stanca. Herzlius la buttava (la voce) dove poteva e quando non poteva, urlava. La Pieczonka un po’ contenuta ma non mi dispiacque. La direzione buona ma senza quel ‘mordere’ che altri hanno dato. La regia… stendiamo un pietoso velo. Cose viste e straviste. Noiosa.
    (Ho avuto la fortuna di vedere la Nilsson/Rysanek-allora?)

  25. Ho visto lo spettacolo nella replica dello scorso 6 giugno; circa Salonen, ho anch’io trovato un po’ fiacchi i primi minuti, ma l’esecuzione è stata coerente, lucida, nitidissima (in poche altre edizioni i due accordi finali si sono sentiti così chiari nella loro verticalità). Ora, io sono il primo a voler essere “elektrizzato” da quest’opera: e da principio tutto mi faceva pensare che NON lo sarei stato. Eppure, ad ogni nuovo episodio anche la “distanza”, la “freddezza” di Salonen si è rivelata rapinosa.
    Si è tanto dibattuto, qui sopra, sulla tradizione direttoriale di Elektra: forse è già stato ricordato e non me ne sono avveduto, ma riproporrei l’indicazione di Strauss nel vademecum per il direttore d’orchestra : “dirigere Salome ed Elektra come fossero state scritte da Mendelssohn, musica delle fate”. Non è una mera boutade; non arriverei a dire che sia stato il principio interpretativo di Salonen, ma il direttore ha dimostrato senz’altro come Elektra appaghi e “la vada giù come l’acqua fresca” senza i turgori come con i turgori à la Solti…

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