Opera di Firenze: “Tristano e Risotta”

“[…] Un’altra forisonte, grande, di ispirazione è stato, oltre al teatro classico, il “Teatro Off”, e off, di off, di off, di off: il “teatro alternativo”, quello delle cantine, quello dove gli attori montavano anche le scene, dove gli attori erano anche spettatori; nel senso che in sala c’erano soltanto loro.
Io ho il ricordo di uno sciaguratissimo allestimento, credo intorno agli anni ’70, di un “Romeo e Giulietta” sopportato in una di quelle cantine neanche sovvenzionate con le USL, seduti su quelle panche scomode, quelle panchine fredde, “Perché fa più Teatro!”: ma chi lo dice?
[…] Con l’idea del sovvertimento, con quell’idea che l’attore può intervenire sul testo… anche ammazzandolo a volte, eh! […]” (Anna Marchesini, “Parlano da sole”, 1999)
Mentre il Teatro Comunale di Firenze muore a prezzi stracciati, tra speculazioni edilizie e aste al ribasso, è nato a Firenze l’ “OF”, acronimo che starebbe per Opera di Firenze, sulle ceneri del FU Maggio Musicale Fiorentino, il quale inaugura la propria attività nella vecchia sede di Corso Italia prima di trasferirsi nel modernissimo, costosissimo, incompiutissimo nuovo teatro nella neonata Piazza Gui.
Ora, a parte che sarebbe stato meglio chiamarlo “OM” ovvero Opera di Misericordia, questa storia della chiusura imminente del Comunale per essere mutato in condominio/parcheggio va avanti da almeno quattro anni, tanti quante sono le “inaugurazioni” del teatro nuovo e incompiuto delle Cascine che secondo le stime dovrà essere terminato nel 2016… forse!
E mentre si cercano fondi e disegni di legge per salvare teatro e Festival, piangendo miseria “cul-tura”, va in scena “Tristan und Isolde”, che torna a Firenze dopo quindici anni di assenza.
Se ne sentiva il bisogno?

Per nulla, a quanto pare, almeno per quanto riguarda la risposta del pubblico e degli interventi in rete!
Se nel 1999 l’opera wagneriana fu accolta come un evento mondano e musicale imperdibile, con ospiti importanti (la Loren), mass media in primo piano, strombazzata collaborazione con Salisburgo, doppio cast di rilievo, bacchetta prestigiosa, collegamento con Euroradio, quest’anno pare non se ne sia accorto nessuno: nemmeno il contenutissimo pubblico noiosamente intervenuto per questa serie invisibile di recite.
E se si parlava di prezzi stracciati per pagare la mastodontica struttura, vendere quella vecchia e accanirsi terapeuticamente su una serie di stagioni operistiche boccheggianti, figurarsi cosa si è inventato il FU MMF per riempire modicamente una sala vuota per 3/4 : mail e post su Facebook imploranti di accorrere numerosi grazie a saldi sui biglietti che ne riducevano drasticamente il costo fino a 10 o 30 euro. E si che siamo ancora fuori stagione per gli sconti!
Ma per assistere a cosa poi?
Alla direzione di Mehta? Già nella precedente edizione Mehta non è che avesse brillato per chissà quale interpretazione, così frigidamente ancorato a tempi grigi monotoni, sostenuti però da un’orchestra più che accettabile e dal suono curato, confermata dal video di Monaco, autentica bruttura musicale e visiva (tralascio la parte vocale davvero pedestre, compresa una Meier al suo minimo).
Ma ora, nel 2014, la direzione di Mehta è da considerarsi soltanto inaccettabile:
inaccettabili i tempi dilatati fino alla stasi e noiosi fino alla catatonia; inaccettabile il grigiore di una monotonia esangue e priva di musicalità; inaccettabile il fatto di dover far suonare l’orchestra perennemente sul piano per poi scatenarla con fragori barricadieri nei momenti privi di canto; inaccettabile la sciatteria di un’orchestra in stato di disgrazia, a ranghi ridotti, e l’accettazione di attacchi 1346966476.on-off-693x200biascicati, calanti, sporchi, di incongrui portamenti di strumenti nemmeno accordati, di suoni assimilabili al clacson degli autobus, di poca coesione nei tempi, della trascuratezza dei fraseggi spinta fino al cinismo; inaccettabili le innumerevoli papere musicali; inaccettabile la totale approssimazione nell’affrontare lo stile wagneriano di un direttore stanco che è passato dalla prevedibile routine alla totale trasandatezza.
Il cast dimostra tutta la sua provenienza low cost. Nessun cantante in scena, nessun artista, nessuna voce: sul palcoscenico agiva il nulla pneumatico. Parlando di Tosten Kerl, io credo che dovremmo chiedere scusa a gente come Peter Hofmann, Reiner Goldberg, René Kollo, per come sono stati trattati negli anni ’80-’90 dalla critica: già a Firenze mediocre Imperatore nella “Frau Ohne Schatten” e pessimo Siegmund, Kerl si conferma vocetta microscopica, nasalissima, stimbrata, disneyana, priva di proiezione, di fraseggio, di intenzioni, di corpo, e non si può nemmeno parlare di “accennare”, perché se la voce non c’è, semplicemente non esiste, dunque è inutile: eppure “canta” anche Tannhauser e Siegfried e non reggerebbe nemmeno Froh o il Pilota dell’ “Olandese Volante”!
Lioba Braun, ennesimo mezzosoprano che si crede soprano drammatico in virtù di non si sa bene cosa, se come Nutrice fu inascoltabile, nel senso che proprio non si sentiva, come Isolde muove alla rabbia: timbro drammaticamente brutto, depauperato nei colori, senile e sgradevole, dalla proiezione inesistente e dal minuscolo volume (bastava un violino per coprirla), semplicemente non è Isolde, in virtù di una estensione manchevole, di un fraseggio illusorio, e per mancanza totale di una vocalità sufficientemente accettabile.
Scandalosamente pessima la Brangaene di Julia Rutigliano: se già a Bayreuth non reggeva Wellgunde e Siegrune, figurarsi un personaggio di tale importanza praticamente massacrato in ogni nota da una tecnica poco più che amatoriale; Martin Gantner “parla” Kurwenal come se si trattasse di un anziano tenore; Stephen Milling, che confrontato con gli altri sembrava Kipnis, avrebbe anche la voce, ma è priva di appoggio, gutturale ed in almeno tre momenti la tecnica non lo ha salvato da altrettanti eclatanti sbandamenti; ben più sonoro di Kerl il Melot rabbioso di Kurt Azesberger, triste il Marinaio/Pastore di Gregory Warren.
Stefano Poda imposta la sua regia, parola grossa, scimmiottando Wilson, Mueller, Kupfer, ma senza possedere nemmeno un grammo del loro senso del teatro o la loro mimica concettuale.
Riassumendo il suo concetto si esplica in: luci bellissime, cangianti, ma che non seguiva alcun disegno drammaturgico; pioggia di riso che per quattro ore inonda il palcoscenico; suicidio di Kurwenal; comparse nero vestite o nude che si aggirano al rallentatore; protagonisti impalati che non si toccano non si guardano, non si sfiorano; “Liebestod” con Isolde che si libra nell’aere su una onnipresente pedana arrugginita mentre dietro di lei vengono calate, per tre minuti, tre candide pareti.
Visto che stiamo parlando di un Festival che piange miseria, che senso ha sperperare denaro per un direttore che ha perso il sdownload.aspxuo carisma, per un regista che ha sprecato tonnellate di riso forse pensando di mettere in scena una puntata di “Masterchef” basata sull’utilizzo del risotto da accompagnare con cibi scaduti o del tutto marci, o che fa calare per tre diconsi tre minuti, tre pareti bianche nel solo finale, allestendo uno spettacolo che tanto non verrà mai più ripreso, se poi bisogna risparmiare su un pugno di cantanti, per giunta inadatti, per poi lamentarsi che il pubblico diserta in massa e non ci sono soldi?
Non sarebbe stato meglio eseguire un’opera in forma di concerto o noleggiare un allestimento già rodato con cantanti dignitosi ed un direttore che con mestiere avrebbe potuto condurre l’orchestra a risultati apprezzabili?
Poca lungimiranza, poca civiltà artistica e musicale.

All’uscita da questo “OF” la citazione che leggete all’inizio tratta da un sublime spettacolo dell’immensa e acutissima Anna Marchesini, mi ronzava nella mente, perché perfettamente riassumeva lo stato fiorentino delle cose: una risata amara e ironica su un teatro “Of(f)” che ormai non interessa più al pubblico, che infatti, stanco e svogliato, se ne tiene lontano perché ammorbato da tanto spreco, dai dissennati scioperi e dalla totale mancanza di qualità, e perché il Festival ha annullato quegli iniziali stimolanti principi su cui si fondava e che quel pesantissimo nome, Vittorio Gui, al quale la bella piazza davanti al nuovo teatro è stata dedicata,  ci ricorda in maniera inesorabile.

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