Musica proibita: Mirra.

09 484-5 myrrha-unterwelt2Prosegue il nostro viaggio nel vasto universo della “giovane scuola” con il marchigiano Domenico Alaleona. Nato nel 1881 ebbe una formazione diversa rispetto a molti suoi colleghi, poiché parallelamente alla sua attività di compositore, Alaleona svolse un’importante carriera musicologica. Lo studio della teoria musicale svolse un ruolo fondamentale nella sua formazione e nella sua scrittura. La sua vasta cultura lo portò a concentrare la propria analisi accademica sull’approfondimento delle antiche tradizioni musicali italiane, in particolare il canto gregoriano e la musica rinascimentale. Proprio attraverso il recupero di queste tradizioni – originale e rivissuto, ovviamente, alla luce delle avanguardie novecentesche – intese riformare il linguaggio musicale nostrano, che si trovava allora in grande crisi identitaria dopo il ritiro di Verdi, la morte del melodramma, il diffondersi del dramma musicale di ispirazione wagneriana e l’incapacità di trovare, nelle giovani leve, una figura all’altezza di confrontarsi con la realtà musicale europea (Puccini a parte, naturalmente). Alaleona comprese la necessità di costruire un linguaggio moderno che non si limitasse ad imitare la realtà europea, né – peggio – si chiudesse in sé stesso nella contemplazione di un passato ormai morto e morente, cercando pietosamente di rinverdire i fasti del genere melodrammatico. Il compositore così, sulla base dei suoi approfondimenti teorici – un unicum nel mondo musicale coevo (se si pensa a Mascagni, Giordano o Leoncavallo) – elabora un vero e proprio sistema basato sulla divisione dell’ottava in parti uguali da applicare a modelli di scale catalogate secondo il numero di divisioni in bifoniche, trifoniche, tetrafoniche, pentafoniche, esafoniche e dodecafoniche. Accanto alla teorizzazione di nuovi rapporti quantitativi tra le note del sistema temperato, Alaleona recupera, nella scrittura, la polifonia rinascimentale e il cantus firmus, rivissuti in un’inusitata libertà ritmica, e tenendo in considerazioni le maggiori scuole musicali dell’Europa più evoluta (Debussy, soprattutto, l’immancabile confronto con Wagner, Strauss, Puccini e il verismo), ignorando completamente l’esperienza più tipicamente romantica. Facendo un po’ di cronologia è curioso notare come proprio mentre Alaleona teorizzava una nuova estetica del linguaggio musicale in due importanti saggi (“I moderni orizzonti della tecnica musicale: teoria della divisione dell’ottava in parti uguali” e “L’armonia modernissima: le tonalità neutre e l’arte di stupire”), nel medesimo anno – il 1911 – Schoenberg pubblicava a Vienna il suo famoso “Trattato di armonia” con cui dava il via all’avventura dodecafonica proprio partendo da Debussy, Strauss, Wagner e l’eredità tardoromantica. Questo per mostrare, ancora una volta, come sia ingiusto ridurre il ‘900 italiano al verismo e dintorni e come sia assolutamente falso che i compositori del nostro paese fossero più o meno degli analfabeti musicali che si gingillavano in storiacce strappamutande, in machismi tenorili o in svenevolezze borghesi. L’importanza delle riflessioni di Alaleona – aldilà dei risultati concreti che hanno portato –  venne apprezzata da importanti musicisti e compositori dell’epoca (lo stesso Puccini – che probabilmente non intravedeva una reale possibile rivalità – Pizzetti, Busoni, Zandonai, Malipiero, Gui, De Sabata). Il suo catalogo, tuttavia, è per la maggior parte sconosciuto: hanno avuto sporadica diffusione alcune composizioni per organo, brani per coro e musica da camera, lasciando inesplorato il vasto numero dei lavori maggiori. Tra di essi la sua unica opera: Mirra, che si propone quale summa della riflessione di Alaleona e frutto maturo e completo del nuovo linguaggio musicale elaborato dal compositore. L’opera – dedicata a Toscanini – venne composta tra il 1911 e il 1913, ma dovette attendere sino al 1920 per essere rappresentata integralmente a Roma (nel 12 e nel ’13, invece, fu eseguito solo l’intermezzo). L’opera, strutturata in due atti, mette in musica il IV e V atto della Mirra di Vittorio Alfieri. Così come Debussy col dramma di Maeterlinck e Strauss con Wilde e Hofmannsthal, anche Alaleona si rivolge direttamente al testo letterario senza modificarne il linguaggio certamente arcaico (salvo opportuni tagli ai lunghi monologhi alfieriani), anzi sfruttandolo nella rievocazione della classicità della tragedia che unita alla scrittura musicale antiromantica e arcaicizzante contribuisce all’effetto di lontananza mitica e straniamento. L’utilizzo dei soli ultimi due atti della tragedia non compromette la comprensione della vicenda, poiché la stessa opera dell’Alfieri è inusualmente strutturata come una lunga progressione di episodi collaterali che portano all’accumularsi di tensione emotiva nella protagonista sino alla confessione finale del suo amore incestuoso per il padre. Il mito, tratto da Ovidio, narra di Mirra, figlia  di Ciniro, re di Cipro e promessa sposa a Pereo, re dell’Epiro. La principessa è vittima, però, di una maledizione di Venere che, adirata con la madre della ragazza, la condanna ad un folle amore per il proprio padre: una passione travolgente e irresistibile di cui Mirra non ha colpa e che però la condanna e dove il confine tra innocenza e colpevolezza si assottiglia sino a svanire, rivelando l’infelice sorte dell’uomo vittima comunque di forze più grandi (ora la passione incestuosa inflitta dagli dei ora dalla legge morale che guida il consesso umano). L’opera di Alaleona occupa – dicevo – gli ultimi due atti della tragedia: durante la cerimonia nuziale, a cui Mirra pur riluttante aveva acconsentito, la principessa finge di essere preda delle Furie e pronuncia parole insensate tanto da convincere Pereo a dichiarare la fine del loro amore prima di fuggire disperato e togliersi la vita. Mirra, rimasta con la madre Cecri, la accusa di essere l’origine della sua infelicità poiché l’ha messa al mondo e la implora di toglierle la vita. Il padre Ciniro, dispiaciuto per la morte di Pereo crede che la figlia sia innamorata di qualcun altro e le promette che, per renderla felice, acconsentirà alle nozze con l’oggetto della sua passione, chiunque fosse. Mirra, confusa e riluttante, in un crescendo di tensione emotiva e conflitto di coscienza, confessa l’amore incestuoso per il padre e poi si toglie la vita con la consapevolezza di morire nell’empietà. Il linguaggio di Alaleona si adatta perfettamente alla classicità della tragedia e al mito terribile riletto in chiave umanistica dall’Alfieri (che interiorizza i conflitti umani trasferendo il contrasto dei grandi temi politici e morali all’interno della coscienza tormentata dell’eroe titanico anche nella sconfitta): l’utilizzo di formule arcaiche, della polifonia rinascimentale, di un un canto sillabico e di una struttura musicale formulata sulle nuove divisioni della scala cromatica teorizzate dal compositore, enfatizzano la ritualità del dramma (portato ad una dimensione metafisica). Anche l’utilizzo di formule veriste in alcuni ariosi, di certo canto di conversazione di matrice pucciniana e persino del caposaldo della tradizione dell’opera italiana (l’aria tripartita col “da capo”) è finalizzato allo straniamento e non ha alcuna velleità naturalistica o realistica all’opera. Anche la funzione del coro muta, perdendo il carattere di personaggio collettivo e assumendo piuttosto il ruolo di voce della coscienza o della moralità, svincolato dalla vicenda e assimilabile a quello dell’antica tragedia greca. Parimenti procede la scrittura orchestrale organizzata su scale e armonie arcaiche (senza rinunciare alla tonalità), combinate in modo indipendente dalle consuete regole della composizione classica (intervalli lontani, accordi diminuiti o aumentati, tritoni, uso ossessivo dell’appoggiatura, persistenza del pedale su cromatismi fluttuanti) attraverso una tavolozza strumentale molto ricca e varia (nell’organico è pure previsto un harmonium pentatonico, probabilmente fatto costruire appositamente per l’opera e di cui oggi non c’è traccia). Anche i ritmi sono spesso ostinati parossistici.  Non quindi un dramma musicale, ma la traduzione in un linguaggio moderno di qualcosa di più antico e inafferrabile. Lo stesso Alaleona dichiara di mirare ad una forma d’arte espressionista che rappresenti i più profondi sentimenti dell’animo.

Gli ascolti:

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42 pensieri su “Musica proibita: Mirra.

    • Solo recentemente: nel 2002 a Jesi e nel 2003 a Montpellier (esecuzione registrata e pubblicata nell’unica testimonianza discografica disponibile). Nel 2012 è stata ripresa al Conservatorio di Cagliari.

  1. Conosco l’Alaleona musicista solo indirettamente e colgo volentieri lo stimolo offerto da Duprez per accostarmi a Mirra. Autore negletto come pochi, perfino la storia dell’opera più amica di quel periodo ( Dorsi/Rausa ) si dimentica di lui. Anche solo per motivi strettamente anagrafici Alaleona non può essere ascritto alla Giovane Scuola che lui stesso – critico musicale di professione – definiva ” la seconda primavera lirica del nostro Ottocento musicale” ( definizione a propria volta discutibile e parecchio imprecisa ma che comunque rivela che di certo egli non sentiva di farne parte ). Ma va bene lo stesso: l’importante è esplorare un patrimonio musicale che è più vasto di quello perennemente riproposto. Fazzari non sbaglia: l’adesione al fascismo è costata cara ad Aleolona come a molti altri autori, anche ben più importanti di lui.

  2. E’ facilmente reperibile su google la trascrizione di una trasmissione radiofonica di Colonia, espressamente dedicata ad Alaleona.
    Interessanti quelle che poi chiamo’” giovanili bizzarie di tecnica e poetica musicale”,in realta’ “geniali intuizioni” non completamente sviluppate.
    Sarebbe interessante chiedersi perche’ Alaleona non arrivo’ laddove giunse Schonberg

    • Credo che Alaleona sia arrivato esattamente dove voleva arrivare. Il paragone con Schoenberg ha senso perché si coglie nel medesimo periodo e partendo da certi spunti comuni (l’eredità del tardoromanticismo e l’espressionismo) lo sforzo di rinnovare radicalmente il linguaggio musicale a partire proprio dai rapporti tra note e la suddivisione della scala cromatica. Ma i due musicisti restano diversi come sensibilità, cultura e formazione: Alaleona era legato alle tradizioni italiane della polifonia rinascimentale e del canto gregoriano e non ha mai inteso rinunciare all’inquadramento tonale; Schoenberg, invece, non si riporta a tradizioni antiche, ma intende liberare la musica proprio dai vincoli tonali attraverso una nuova teoria di rapporti quantitativi tra note, nuove regole armoniche che prescindono da tonalità e consonanze. Non si tratta dunque di non aver voluto o saputo arrivare dove si è spinto Schoenberg, ma di aver vissuto la medesima crisi e cercato un linguaggio alternativo per svecchiare la musica non solo nella forma, ma anche nella sostanza. Per il resto rimangono personalità diverse che vivono in realtà differenti e circostanze non accomunabili.

  3. Una digressione, sono all’ascolto di radio 3 suite, ove trasmettono da Londra i 3 poemi sinfonici di Respighi, e mi-vi chiedo: perche’ non inserire anche l’opera di Respighi ” Fiamma” in “musica proibita” ? ma stavolta nel senso letterale, cioe’ di proibire di sentirla, e, al di fuori dell’ironia, far capire che assemblare molti stili diversi a volte genera aborti.

    • Anche perché per navigare con profitto nell’eclettismo musicale per non scadere nell’aborto senza capo né coda, bisogna essere dotati di spirito leggero, autoironia, genialità e sommo talento: tutte doti di cui il buon Respighi era sprovvisto. Ho sempre ritenuto il valore musicale di Respighi inversamente proporzionale alla misteriosa popolarità di cui gode presso pubblici e un certo tipo di direttori d’orchestra…

    • Ricordo la ripresa di Fiamma a Roma con la regia di Hugo De Ana: un allestimento scenico meraviglioso, tra i più belli da me visti e che tra l’altro ottenne ottimo successo. L’opera a mio parere resse piuttosto bene e, la riprendesseroo da qualche parte, tornerei volentieri a vederla. In linea di principio sono un antiproibizionista: nel campo artistico in special modo chi si può arrogare il diritto di proibire qualcosa? Le proibizioni in campo strettamente operistico poi ingerenano in me l’istinto immediato di conoscere quanto mi sia stato stato proibito. ( Respighi, nel corso della seconda meta del ‘900 molto molto più eseguito all’estero che non in patria, è il classico esempio di musicista penalizzato in Italia a causa dallla sua adesione al fascismo. )

      • Penalizzato non direi proprio. Respighi è stato ed è eseguito fin troppo: i tre poemi sinfonici fanno parte del grande repertorio e i maggiori direttori d’orchestra l’hanno inserito nelle loro programmazioni. A dispetto del loro valore musicale (mia opinione naturalmente). Però non ha senso parlare per Respighi di penalizzazioni politiche: le sue opere non vengono più rappresentate non certo per congiure o perfide majors del disco, ma semplicemente perché non interessano a nessuno. Anche Mascagni aderì al fascismo e non mi sembra che Cavalleria soffra di penalizzazioni in Italia (ma anche altri titoli…certo non Pinotta, ma credo che se ne possa fare tranquillamente a meno). Poi il riferimento al “proibire” la musica di Respighi era EVIDENTEMENTE una battuta. Ciascuno ha le proprie opinioni e i propri gusti.

        • Certo che era una battuta, non particolarmente felice però. Perché le proibizioni in campo musicale ( sempre sommamente infauste ) sono state un fenomeno ben attivo nel ‘900, da quelle esplicite dei regimi nazista e comunista a quelle più subdole e larvate di contesti anche come il nostro. Mascagni aderì al fascismo, fu anzi l’artista più sostenuto e foraggiato dal fascismo ( anche se il suo Nerone, contrariamente a quello fascistissimo di Malipiero, nono trovò editore perché molto poco edificamte per il regime ): non possiamo certo dire che l’adesione al fascismo non sia stata una grave penalizzazione per lui. Cavalleria sopravvive ma su Mascagni si sono sparate bordate da guerra ideologica.

          • Per Malipiero mi riferisco oviamente al Giulio Cesare. Il fatto che Mascagni abbia conosciuto “proibizioni” è confermato dallo stesso Corrieredellagrisi che, meritoriamente, ha inserito Iris nel ciclo di articoli sulla musica proibita.

  4. Seguo sempre la rubrica del prode Duprez che, sebbene la musica sia lontana dai miei gusti personali, snocciola appassionatamente e diligentemente opere ed autori che conosco poco o, come in questo post, a me del tutto ignoti.
    Anche se la richiesta sa di immenso spoiler, ci sarà modo di trattare l’opera “Giovanni Gallurese” di Italo Montemezzi? :)
    Saluti a tutti!

    • Penso che il problema per il Giovanni Gallurese sia che a quanto ne so io non esistono registrazioni dell’intera opera completa al contrario di altre opere meno conosciute di Montemezzi come La nave o L’incantesimo (quest’ultima la consiglio se si è estimatori de L’amore dei tre Re).

  5. il planning di questo “ciclo” è molto ampio e, lasciando il gusto della sorpresa credo toccherà quanto dalla fine ‘800 agli anni ’50 è stato prodotto. Circa il discorso di penalizzazioni derivate dall’adesione al fascismo conoscendo la scarsa elasticità della critica di sinistra ( dall’altra parte non ci si occupava di cultura e per essere onesti da almeno quarant’anni quella di sinistra è bolsa e trombona per il motivo elementare, ma a loro sfugge, che non si può studiare l’arte e la cultura con i paraocchi della politica quale che sia!!) non posso meravigliarmene, anzi. Aggiungo, però, altri due “ingredienti” ovvero l’esterofilia -a torto o ragione non è questo il luogo per discettarlo- della cultura italiana e dei direttori artistici e d’orchestra in primis (sempre pronto a dosi massicce di Berg ed Janacek per elevare il pubblico) e la oggettiva difficoltà vocale delle parti che non è irrilevante. Se poi congiungiamo la difficolta vocale al fatto che all’estero a parte due o tre titoli (Chenier, Cavalleria, Pagliacci e la produzione pucciniana) l’opera italiana post verdiana non goda di stima il risultato -diffuso ed esteso oblio- è piuttosto scontato.

    • Esattamente: a parte i pregiudizi politici (presenti sicuramente negli anni ’70 e responsabili di molte scemenze critiche) credo che soprattutto l’esterofilia sia da imputare. Esterofilia che nasce, come al solito, da atteggiamenti antistorici di chi ritiene la musica qualcosa che prescinda da evoluzioni culturali e circostanze. Così che si finisce a confrontare “le mele con le pere”, non arrivando a comprendere che non ci sono linguaggi migliori o peggiori, ma solo diversi perché diversa è stata la loro evoluzione. Per le tradizioni dell’opera italiana – che ha posto al centro il canto con funzione melodica – è ovvio non aver sviluppato un linguaggio paragonabile a Berg (che discende da altro tipo di formazione culturale). E’ sciocco chi critica Mascagni perchè non scrive come Berg e ugualmente sciocco chi critica Berg perché non scrive come Mascagni. Anche perché non ci si eleva con Berg e non scade con Mascagni: sono autori diversi e inconfrontabili. Personalmente andrei a vedere mille Wozzeck piuttosto di un Iris, ma non mi sognerei mai di confrontare snobisticamente i due autori.

    • Lo so che è un pò arduo vista la difficoltà nel reperire le registrazioni per le opere composte dopo il 1920 ma se riusciste a spingervi fino al 1960-1970 sarebbe l’ideale secondo me.
      Compositori come Ghedini, Lizzi, Porrino, Maderna hanno nel loro curriculum alcune opere molto valide.

  6. Caro Gianmario, non trovo vi fosse nulla di sgradevole nella battuta: nessun intento censorio insomma (addirittura paragonabile alle politiche culturali del nazionalsocialismo o del socialismo reale!). Ogni tanto una risata non guasta…non siamo in un’aula universitaria, suvvia! Quanto alla censura più subdola a cui ti riferisci, è stata certamente presente, circoscritta però in determinati periodi storici e in anni di particolari fermenti culturali (anni ’70) durante i quali tutto era ricondotto a divisioni ideologiche e semplicistiche. Oggi (negli ultimi 30 anni direi), nessuno si sognerebbe più di giudicare questo repertorio perché molti dei suoi esponenti erano “in odore di fascismo”… Mascagni ne è un esempio: Cavalleria, Iris, Amico Fritz…non sono mai state penalizzate (Cavalleria, poi, credo sia una delle opere più rappresentate in assoluto). Piuttosto il pregiudizio nei confronti di Mascagni è di altra natura, ossia il disprezzo che certi ambienti critici (oggi marginali) nutrivano per il “successo popolare”, per la “semplicità di linguaggio”, per il mantenimento di forme tradizionali. Ne è stato vittima Mascagni, ma anche Puccini (che fu attaccato da fronti opposti: Hanslick e Adorno) ridotto a poco più di un “canzonettaro” ante litteram… Credo che la politica c’entri fino ad un certo punto e nessuna penalizzazione critica ha nuociuto a Tosca o a Cavalleria. Il concetto di “musica proibita” e il senso di questa rassegna, va individuato nel complesso di ragioni che hanno portato alla scomparsa di un genere sino a 60 anni fa “di repertorio”. Lo stesso titolo è un’iperbole: nessuno ha proibito nulla. Nessuna congiura. Nessuna macchinazione (neppure della case discografiche a cui interessa vendere, non certo indirizzare i gusti: se la “giovane scuola” avesse avuto mercato, le majors avrebbero CERTAMENTE sfornato incisioni e cofanetti!). Le ragioni della sostanziale scomparsa di un intero repertorio sono molteplici e vanno colte storicamente – perché solo la prospettiva storica deve condurre l’analisi delle cose musicali: non c’è nulla fuori dalla storia e fuori dalla sua evoluzione naturale. Oggi si deve partire da un dato di fatto, lo scarsissimo interesse per quel repertorio. Le ragioni sono tante: mancanza di presa sul pubblico, incapacità di attrarre ascoltatori, preferenza del grande pubblico per altri autori e altri periodi, mancanza di interpreti, disinteresse, pregiudizi critici (che hanno contribuito moltissimo, non lo nego affatto). Ma soprattutto ha contribuito un atteggiamento scorretto e antistorico che ha sempre posto il confronto tra linguaggi diversi, formazioni diverse, culture diverse nell’intento di dimostrare l’inferiorità del linguaggio della giovane scuola rispetto alle coeve esperienze europee: atteggiamento sbagliatissimo poiché confronta l’inconfrontabile senza tener conto dell’aspetto storico e dei contesti. La rassegna “Musica proibita” vuole proprio offrire lo spunto per parlare di titoli dimenticati (giustamente o ingiustamente non ci importa) appartenenti a diverse estrazioni perché non dobbiamo cadere nel medesimo errore di certa critica che bollava il tutto col marchio di disprezzo “verista”. Ma non si deve neppure cadere nell’eccesso contrario, ossia denunciare ipotetici complotti di consorterie politiche o di cattive case discografiche che ci hanno privati di “capolavori” irrinunciabili, perché Mirra non è certamente un capolavoro, così come non lo è Cassandra o Risurrezione o L’amore dei tre re o L’Arlesiana (ma non lo sono neppure Il corsaro o La battaglia di Legnano, Rosmonda d’Inghilterra o Gemma di Vergy, Zaira o Adelson e Salvini, Aureliano in Palmira o Matilde di Shabran, Il divieto d’amare o Il Vampiro, o gli infiniti titoli di Pacini o Mercadante).

    • Non sono capolavori nemmeno La Finta Semplice o Il Sogno di Scipione (e anche sul Ratto nel suo complesso qualche dubbio ce l’avrei), ma questo non si può dire. L’esterofilia italiana è proprio in questo, come dice benissimo Duprez: due pesi e due misure.

      • No no, si può dire….ma non c’entra l’esterofilia. Forse (e dico FORSE) la Finta Semplice e il Sogno di Scipione non sono capolavori assoluti, ma restano una spanna sopra la maggior parte dei titoli coevi. Quel che dici sul Ratto sarà una tua opinione, ma mi permetto di ritenerla una bizzarria (scusa, ma francamente la trovo un’enormità, essendo uno dei massimi capolavori del genere…ma c’è gente che è dice che Manzoni non sapesse scrivere o che Caravaggio fosse un imbratta tele!). Comunque ideale pendant all’esterofilia italica, vi è il più stupido degli sciovinismi: quello che porta a considerare la pseudo “musica” di Ponchielli superiore al Fidelio oppure che il Don Giovanni fosse un lavoro largamente inferiore all’opera napoletana dei Paisielli e Cimarosa (e questo nell’Italia degli anni ’50 veniva ripetuto senza alcun pudore).

        • Augurandomi che il più stupido degli sciovinisti non sia io, ero sicuro – caro Duprez – che Mozart non si potesse toccare… Tu sei sicuro che Finta Semplice e Sogno siano spanne superiori a Jommelli, Paisiello e Cimarosa, io ho qualche dubbio: non so cosa avvenisse negli anni ’50, oggi senz’altro vedo che qualunque cosa sia anche solo attribuibile a Mozart viene sempre e comunque posta al di sopra di tutto il resto e questo a me sembra un tantino eccessivo. E’ sciovinismo il mio? Forse, ma a me sembra solo buon senso.
          [Quanto al Ratto, sarà che io e il singspiel non ci siamo mai intesi troppo…]

          • Certo che non sei tu! Si sta discutendo solamente. A parte la questione Ratto e singspiel (pensa che miei cari amici non tollerano il Flauto, ma evidentemente non apprezzano proprio il genere) sul resto mi spiego meglio: Finta semplice e Sogno di Scipione sono tra loro diversissime: comunque sono entrambi lavori giovanili e naturalmente non sono paragonabili ai lavori della maturità. Aveva 12 anni Mozart quando scrisse la Finta semplice, e 15 quando scrisse il Sogno. Entrambe le opere rispondono ai canoni dell’epoca e ai modelli allora in uso, ma in molti brani si rileva già quello stile che emergerà nei capolavori della maturità. Si tratta di lavori acerbi, certamente, ma accanto al rispetto dei modelli vi è una tensione evidente a superarli. Molte arie, poi, sono superiori per splendore di scrittura alla maggior parte della musica coeva. E devo dire anche ai vari Jommelli, Cimarosa e Paisiello di cui vanno confrontati, ovviamente, non i capolavori. Certo che se mi paragoni Matrimonio segreto e Finta semplice, solo un ottuso potrebbe insistere nel fatto che l’opera mozartiana è superiore, ma ci sono tanti titoli. Credo, insomma, che il primo Mozart (tra infanzia e adolescenza, quando i vari Jommelli e Paisiello giocavano ancora nei cortili) sia paragonabile – e in certi singoli episodi – superiore alla media dei più maturi compositori attivi in Europa, con la differenza che quello che per lui era un punto di partenza, per molti altri era un traguardo (non per far paragoni, ma tra La Finta semplice e certe opere serie del Gluck già famoso – Ezio, Clemenza di Tito, Trionfo di Clelia – preferisco mille volte ascoltare la fresca benché immatura opera di Mozart).

        • Perdoniamogliela a Jommelli e Paisiello di aver razzolato in cortile da bambini: non tutti hanno la fortuna di nascere col padre compositore!
          Scherzi a parte, grazie per il bell’articolo su Alaleona.

          • Certo Mozart ebbe anche la fortuna di un padre che coltivò le doti del figlio. Ma quelle doti restano un unicum nella storia della musica. Certo non tutti i suoi arrivano ai vertici di Idomeneo o Nozze o della Grande Messa in Do Minore o delle ultime sinfonie etc… ma non c’è mai un titolo di routine (neppure Mitridate o Lucio Silla lo sono)…
            Grazie per l’apprezzamento :)

          • Io tendo sempre a considerare un unicum ogni grande artista, comunque trovo molto interessante come le considerazioni che fai su Mozart io le trasferirei esattamente su Rossini, compositore che invece tu non ami… Per dirla col Tasso, “io ti perdono… perdona/ tu ancora”!

          • Sarà…ma rientra appunto nel sottobosco ottocentesco che tutt’al più serve da pietra di paragone per maggiormente apprezzare le virtù compositive dei grandi. Certo anche Ponchielli “serve” per capire com’era la musica di consumo…ma trovargli un briciolo di originalità è un’impresa ardua. Non a caso quell’opera è più o meno sparita. Del resto si possono usare per Ponchielli le parole che Debussy dedicò a Thomas: esiste la musica bella, la musica brutta e la musica di Thomas”

  7. Certo. Un tempo, per accostarsi a questo repertorio ( ma anche ad altri poco presenti nei cartelloni ), le stagioni operistiche radiofoniche delle orchestre Rai svolgevano un ruolo davvero meritorio. E sovente le esecuzioni erano di qualità. Chissà se qualcuno si è occupato a ordinare, catalogare e manutenere quell’immenso patrimonio di registrazioni. Temo nessuno: la supplenza è esercitata dai collezionisti. In ogni caso oggi è soprattutto all’estero che vengono ripresi i titoli anche desueti dell’opera italiana post-verdiana. Personalmente ho in programma un viaggio a Bratislava per vedere i Gioielli della Madonna di Wolf – Ferrari: ma vi sembra possibile? Nel corso del suo recente recital alla Scala la Georghiu ebbe modo di dire ( ovviamente pro domo sua ) più o meno “spero che anche qui alla Scala si possa fare un’opera che gira nei maggiori teatri del mondo “. Si trattava di Adriana Leocuvreur…

    • La Georghiu disse più o meno una scemata, perché l’Adriana è sempre rimasta in repertorio (alla Scala e in moltissimi altri teatri, più o meno importanti: peraltro quest’anno fa parte della programmazione ASLICO), forse la “diva” intendeva dire la “sua” Adriana (che a giudicare dall’edizione della ROH, risalente a qualche anno fa, non è certo un bel sentire…). Francamente, poi, non mi scandalizza certo che I Gioielli della Madonna non siano opera rappresentata ogni stagione…non mi sembra che né l’autore né il titolo giustifichino una sua intensa riproposizione (peraltro Wolf-Ferrari operò molto più nei paesi di lingua tedesca, tanto che la maggior parte delle sue opere furono date in prima rappresentazione proprio in Germania e in tedesco, Gioielli della Madonna inclusa…la cui prima italiana avvenne più di 40 anni dopo la prima berlinese). Tutti abbiamo i nostri gusti, ma non possiamo pretendere che essi siano il metro di giudizio del repertorio. Anche io mi dispiaccio che Il Principe Igor non venga fatto quasi mai in Italia…ma comprendo che non posso pretendere chissà cosa.

      • Vorrei solo sottolineare quello che dovebbe essere un compito istituzionale ( tra gli altri ) dei nostri teatri: favorire la valorizzazione del nostro patrimonio musicale, non limitarsi a inanellare Tosche e Traviate per fare cassa. Mi sembra che questa valiorizzazione venga fatta maggiormente all’estero: non a caso Mirra è di Montpellier/Radio France ( come anche altri titoli nostri del periodo ) e credo basti compulsare operabase per rendersi conto di quanto dico. I nostri gusti non devono essere ovviamente il metro di giudizio del repertorio : io detesto il concetto stesso di repertorio ( anche se mi rendo conto sia una gabbia inevitabile ) e auspico caldamente la ripresa di quanti più titoli possibili, da Monteverdi in poi. E magari, quando un’opera viene ripresa rarissimamente, allestirla rispettando anche il dettato drammaturgico, lasciando gli eventuali stravolgimenti ai titoli che già conosciamo a fondo.

        • Certamente. Su questo siamo assolutamente d’accordo: più volte abbiamo denunciato la trasformazione dei teatri musicali in Italia ad attrazione turistica con la scusa di far cassa o, peggio, di “avvicinare” l’opera ad un pubblico più vasto. I risultati sono lì che parlano: stagioni tutte uguali fatte di Tosche, Traviate e Barbieri e, soprattutto, assenza di una vera programmazione di politica culturale (che non significa politicizzazione della cultura o spartizione delle poltrone). Le stagioni dovrebbero avere un senso, un disegno, un filo conduttore, mentre sempre più assomigliano ad un supermarket di prodotti uguali. Il caso di Mirra è emblematico: ci ha pensato la Francia (come ha fatto con Parisina, Fedra, La campana sommersa, L’Arlesiana, Risurrezione…). Ma in Francia c’è una politica culturale vera. Da noi nelle stagioni teatrali riciclano gli stessi titoli mille volte e fanno polpette delle peculiarità e delle tradizioni dei grandi teatri in una brodaglia indistinta che fa assomigliare Torino a Milano a Napoli o a Bologna; mentre i titoli più “ricercati” o comunque al margine del grande repertorio vengono destinati a festival balneari che con scarsità di mezzi e di capacità producono esiti da oratorio o velleitarismi provinciali. In Italia la riproposta di autori e opere desuete è legata al territorio d’origine del compositore: terre, spesso, impreparate culturalmente ed economicamente a reggere sforzi culturali che DOVREBBERO essere fatti seriamente…e così il più delle volte producono schifezze. Forse è un bene che certi titoli non vengano “riscoperti” in Italia…

          • perche in passato,c’era tanto finanziamento pubblico agli enti lirici ? Anche per una promozione culturale,come faceva la rai negli anni 50 fine anni 60. finanziamentI che sono serviti a foraggiare tutto,meno ( in minima parte) il motivo principale,attualmente con la crisi e finanziamenti ridotti al lumicino,è chiaro che i teatri puntano sui soliti titoli,queste opere interessanti ( ho ascoltato recentemente una registrazione “Il burbero di buon cuore ” di Vicente Martín y Soler ,Madrid 2007 opera molto bella con tante interessante pagine musicali,e un ottimo libretto,ma da decenni o qualche secolo mai allestita) dovrebbero avere un circuito alternativo ai grandi teatri,magari farli eseguire anche in forma di concerti in altre realtà e interpretati anche da giovani capaci,che sono fuori dal grande giro,forse dovrebbe essere la Scala teatro che gode di grandi finanziamenti pubblici ,a progettare un circuito alternativo per queste opere in modo che ci sia una promozione,e finalmente si può dire, che i finanziamenti pubblici sono destinati al suo obbiettivo principale ,sostenere e promuovere la cultura,non la solita minestra..

          • Ma perché un circuito alternativo? Perché una versione in forma di concerto? Perché giovani inesperti? Non è che le opere fuori dal repertorio siano più “facili” e quindi alla portata di tutti i debuttanti di buona volontà (altrimenti si finisce come con il Viaggio a Reims che il ROF propina ogni anno come refugium per dilettanti allo sbaraglio…in parti scritte per i più grandi cantanti del tempo). I teatri lirici devono affrontare quei titoli nella stagione, affiancandoli a quelli più popolari e proponendoli con intelligenza al pubblico. Se si parte con proposte cheap allora il risultato non può che essere cheap…

    • Quest’anno c’è stato l’anniversario dei 50 anni dalla morte di Arrigo Pedrollo (operista attivo soprattutto dal 1920 al 1960 circa), ho avuto modo di conoscere il nipote del compositore e mi ha detto che la RAI non ha più nessuna delle opere di suo nonno (mentre i collezionisti ne sono in possesso).
      La RAI fra il 1930 e il 1970 ha di fatto sostituito il ruolo degli editori per quanto concerne le prime esecuzioni dei compositori contemporanei italiani.
      Peccato che non sembri intenzionata a preservare e rendere disponibile per il pubblico simili rarità.

  8. Si diceva di musiche divenute proibite per motivi strettametne politici, citando in primo luogo Casella.
    Credo che, in tal senso, di più “proibito ” de “Il deserto tentato” non ci possa essere nulla. Data la curiosità di tale titolo (non so se dopo la prima fiorentina sia mai stato ripreso, nemmeno in epoca ad esso astrattamente favorevole….), mi chiedo se ne esistono delle testimonianze audio.
    Di Casella per lo meno “La donna serpente” è stata riproposta proprio quest’anno a Martina Franca (cfr. http://www.ilcorrieremusicale.it/2014/07/29/la-donna-serpente-a-martina-franca/) ed almeno è disponibile in una vecchia registrazione audio, di quando la RAI faceva cultura e non solo c……..e!
    http://www.youtube.com/watch?v=NWK9eA9X3AQ

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