Richard Strauss (1864-1949): il direttore d’orchestra.

102181-richardstrauss-heroinesstrauss-richard-strauss-dirigiertIl nostro omaggio a Richard Strauss, a 150 anni dalla nascita, parte da una prospettiva diversa e atipica: invece di ripercorrere la sua carriera compositiva o la sua biografia (aspetti che comunque sono stati già trattati in occasione di concerti e rappresentazioni teatrali), abbiamo preferito rivolgerci allo Strauss forse meno noto – anche in questa occasione celebrativa – ma ugualmente interessante, così da completare l’immagine di musicista completo e testimone del suo tempo. Richard Strauss, infatti, non fu solo un grandissimo compositore, ma anche un vero direttore d’orchestra – “vero” nel senso che il suo calcare il podio non fu meramente funzionale all’esecuzione delle proprie opere, ma assume un carattere autonomo ed una precisa identità artistica. Tanto che le sue interpretazioni di Beethoven, Mozart, Gluck, Weber, Wagner e Cornelius (ossia il lascito direttoriale) assumono un valore intrinseco e non solo perché dirette da Strauss, ma perché testimoni di un certo modo di intendere l’esecuzione musicale volto a sfatare alcuni miti ripetuti spesso senza curarsi di verificarne il senso, e rivelatori di una determinata attitudine che – riconoscibile nelle interpretazione degli autori classici – si riflette anche nell’esecuzione dei propri lavori. Lo Strauss direttore, così, diventa guida essenziale allo Strauss compositore e modello da avere presente – senza farne un feticcio – per gli interpreti coevi e successivi. Ascoltando le numerose testimonianze discografiche la prima impressione è che il cosiddetto “ultimo dei romantici” fosse un direttore decisamente e fortemente “anti romantico” (almeno secondo la vulgata che ancora oggi identifica il termine). Chi si aspettasse letture titaniche, enfasi, tempi dilatati e solenni, sonorità potnti, rimarrebbe deluso all’ascolto del suo Beethoven (la Quinta e la Settima): la lettura straussiana, infatti, anticipa certe conquiste della più moderna filologia, riportando Beethoven in quella tradizione viennese prewagneriana, ancora debitrice del classicismo e del modello haydniano. Così i tempi sono tendenzialmente rapidi, il fraseggio vivido, il suono leggero, gli archi trasparenti (così da mettere maggiormente in risalto il disegno dei fiati). Colpisce l’estrema varietà agogica che arricchisce di libertà espressiva l’esecuzione (in particolare il primo movimento della Quinta affrontato senza appesantire il suono e senza compiacimenti), la tensione costante, la ricchezza delle sfumature – seguendo scrupolosamente la maggior parte delle espressioni beethoveniane – la morbidezza. La Settima è resa con una drammaticità molto teatrale, in particolare il secondo movimento – Allegretto – lontano dall’inesorabilità ritmica che rischia di divenire eccesso meccanico, di molti esecutori pur celebrati (Strauss imprime una tensione costante unita a grande varietà agogica e all’uso sapiente di rubati). Un Beethoven quindi molto diverso da quello della cosiddetta “scuola storica” (il confronto immediato – e risalente ai medesimi anni – è il Beethoven di Pfitzner, prima, e di un decennio successivo Mengelberg e Furtwängler) e assai poco romantico nell’impianto: un Beethoven “mozartiano” che dimostra come le generalizzazioni siano sempre sbagliate. Certamente la più recente scuola interpretativa beethoveniana (Abbado, Zinman, Jarvi, Jansons, Gardiner, Immerseel, Herreweghe) ha tenuto presente il modello straussiano. Ugualmente inaspettato è l’approccio a Mozart (di cui ci restano le sinfonie 39, 40 e 41 oltre all’overture del Flauto), soprattutto se paragonato a quello coevo o appena successivo (penso a Walter, Klemperer, Furtwangler, Mitropoulos) che – pur da presupposti e con esiti differenti – guarda più all’800 romantico che al classicismo settecentesco. Stesse considerazioni valgono per i pochi brani di Wagner, Weber e Gluck privati di quell’appesantimento tipico dell’epoca tardo romantica. Ovviamente l’approccio ai compositori classici si ritrova nell’interpretazione di lavori propri (e viceversa, poiché non si può affermare quale avesse influenzato l’altro). E’ molto ricca la discografia straussiana di musiche proprie (colte anche a diversi anni di distanza, così da poter saggiare l’evoluzione interpretativa e i segni che la storia – e i suoi drammi – hanno lasciato sull’uomo e sul musicista: come ogni cosa, infatti, la musica è immersa nella storia e solo la prospettiva storicista ci permette di coglierne il senso e le dimensioni, immaginare che qualcosa possa prescindere dallo scorrere del tempo è mera illusione o ingenuità). Gli archivi ci hanno lasciato molto materiale: Don Juan (1929 e 1944), Till Eulenspiegels (1929 e 1944), Also sprach Zarathustra (1944), Ein Heldenleben (1941), Der Burger als Edelmann (1930 e 1944), Tod und Verklarung (1926 e 1944), Sinfonia domestica (1944), Don Quixote (1933 e 1941), Ein Alpensinfonie (1941), Japanische Festmusik (1940), Walzerfolgen aus “Der Rosenkavalier”, atto II e atto III (1927 e 1941), Tanz der sieben Schleir aus “Salome” (1928), Symphonisches Zwischenspiel aus “Intermezzo” (1967), Macbeth (1936). L’ascolto di questa mole di incisioni (alcune in studio di registrazione, altre riprese dal vivo), mostrano come il compositore e l’interprete si compenetrassero e quanto l’approccio ai musicisti classici si riflettesse nell’esecuzione dei propri capolavori. Così come in Beethoven e Mozart, anche nella propria musica Strauss è interprete controllato, che non eccede mai in sonorità ed enfasi (quanto diversamente, spesso, hanno suonato molti successivi esecutori, trascinati, a volte, da un edonismo fine a sé stesso!): la musica fluisce spontaneamente, con estrema semplicità e naturalezza. La retorica è bandita anche dai brani che più vi si presterebbero (si ascolti l’incipit dello Zarathustra, dove l’espressività pare persino trattenuta, senza autocompiacimenti). Si dice che Strauss dirigesse sé stesso come se stesse dirigendo musica altrui: in realtà è più corretto affermare che dirigeva la musica altrui come se fosse la propria, nel senso che il medium – il direttore e l’interprete – si affiancava al compositore nel porgere all’ascoltatore l’opera musicale che in assenza dell’interpretazione rimane concetto astratto e trascendente. L’interprete con la propria soggettività, con la propria esperienza e cultura diventa un ponte necessario alla trasmissione dei contenuti musicali che, è bene ribadirlo, non esistono come realtà oggettiva, ma coinvolgono necessariamente lo spirito di chi ascolta e di chi esegue. Perché la musica vive nella storia e con la storia muta e si trasforma. E’ una grande lezione quella di Strauss, che ci pone al riparo da formalismi o dogmatizzazioni. E anche da facili semplificazioni.

Gli ascolti:

Strauss dirige Beethoven, Mozart e Wagner.

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Strauss dirige Strauss.

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Un pensiero su “Richard Strauss (1864-1949): il direttore d’orchestra.

  1. Autore che pian piano sto cercando di approfondire, ringrazio Duprez per la dissertazione :) Io amo molto Ariadne, Salome e la fanciulla silenziosa (scoperta di recente), meno Elektra per ora. Sto attendendo trepidante il cofanetto della deutsche grammophone delle sue opere, sperando non mi deluda.

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