Il soprano prima della Callas, trentunesima puntata: Lucrezia Bori

LucreziaBori1Lucrezia Bori si chiamava in realtà Lucrecia Borja y Gonzales de Riancho. Era nata a Valencia nel 1887 e siccome, nella esemplare gestione della carriera, culminata con un posto nel consiglio di amministrazione del Met  sapeva perfettamente come ammantarsi di mistero e fascino, raccontava ed incentivava la diceria di essere discendente dei Borgia e di essere stata educata in un convento dal quale uscita solo  poco prima del debutto in scena. Per  la verità la cantante studiò canto con Melchiorre Vidal. Il maestro, allievo a sua volta di Garcia è importante per molti motivi: diede ad una cantante dal mezzo modestissimo un controllo tecnico che le consentì lunga carriera e le offri la possibilità, dopo un intervento chirurgico alle corde vocali, di ricominciare da zero e di allungare di altri tre lustri la carriera. Per il dettaglio il medesimo maestro produsse un’altra cantante dal mezzo non straordinario, ma dal grande controllo tecnico che ebbe carriera lunga e freschezza vocale oltre la cinquantina: Rosina Storchio.

Al mezzo vocale modestissimo la cantante ovviò sempre e benissimo. Sotto questo profilo un esempio ed un modello per tante che, oggi, credono di fare carriera solo in virtù di bellezza e dote naturale. Perchè la Bori non era bellissima (un certo mento asburgico) ma era, a quanto si racconta, fascinosissima. Prima vittima del suo fascino  Toscanini (vittima facile si potrebbe obiettare). Grazie al sapiente mix di questi ingredienti la Bori, che aveva debuttato nel 1908, nel 1910 cantava allo Chatelet, ma in realtà  quella Manon Lescaut era uno spettacolo diretto da Toscanini nel corso di una tournée del Met. La scrittura al Met arrivò per la stagione 1912 ed arrivò con l’inaugurazione della stagione, quando per il mancato arrivo di una vera diva di grande voce e supremo controllo tecnico (Frida Hempel) e, quindi, insostituibile i programmati Ugonotti della serata inaugurale divennero Manon Lescaut e la Bori una della star del Met.

Non era, va precisato né improvvisata né abusiva né una sconosciuta. Del sostegno e solido fondamento abbiamo detto parlando della formazione, della fama già solida basta a confermarlo che dopo il debutto all’Adriano di Roma nel 1909 aveva cantato  alla Scala nel 1910 il ruolo di Carolina del Matrimonio segreto ed al San Carlo come, ed addirittura nel 1911 era stato il primo Oktavian in Italia sotto la guida di Serafin sempre alla Scala.

Ma al Metropolitan quello della Bori fu un impero. Non un monopolio questo va detto perchè la concorrenza era fortissima e di qualità; la cantante, ben conscia del mezzo e dei limiti abbandonò il repertorio lirico leggero, limitato al Met a due recite di Rigoletto a distanza di dodici anni una dall’altra (1912 e 1924) perché la concorrenza poteva chiamarsi Frida Hempel, Lidia Lipkowska, Amelita Galli Curci e Maria Barrientos ed evitò ruoli pesanti salvo la Manon di Puccini e cinque di Iris (che caso aveva cantato spesso l’altra allieva di Vidal ossia la Storchio); cantò, però, Norina del Don Pasquale e soprattutto Mimì, Micaela, la protagonista della Fanciulla di neve, Antonia dei Contes d’Hoffmann anche se nel 1925 aggiunse per alcune recite la parte di Giulietta. Ad Antonia rimase sempre particolarmente legata. Dopo il rientro nel 1921 per l’ultimo decennio di carriera cantò Rondine, Giulietta di Gounod, spessissimo Manon di Massenet  ed anche Violetta ad onta del fatto che gli acuti estremi non fossero certo esemplari come conferma l’inserimento in repertorio di due parti assolutamente centrali quale Mignon e Melisande. Nella seconda parte della carriera al Met affrontò con assoluta parsimonia ruoli onerosi come la Manon di Puccini e cantò anche una parte di dicitrice come la Despina del Così fan tutte.

LucreziaBori2La recensione sulla sua Violetta è interessantissima perché ci dice chiaramente come la cantante cantasse un ruolo al di sopra delle sue possibilità (mancavano il virtuosismo e l’estensione in alto per il primo atto e lo slancio autenticamente drammatico per i successivi) e ciò non di meno non si poteva che  rendere omaggio alla capacità di creare il personaggio. Diciamo anche che i personaggi rispondevano qual più quale meno ad un cliché vocale di  creatura sofferente e languida perché questo consentivamo i mezzi della Bori alle prese con  creature sofferenti e provate dalla malattia o dal destino come Violetta o Mimì od anche  Giulietta del Romeo e Mignon con quel quanto basta di sale e pepe per il personaggio di Norina. Poi l’ascolto e della sortita di Norina e del duetto con de Luca mette in risalto che la virtuosa pur precisa e con emissione esemplare non poteva certo competere né con la Galli Curci né, soprattutto con Marcella Sembrich, che in coppia con Antonio Scotti, che fu anche il Malatesta della Bori, ha lasciato la più  attendibile esecuzione di una parte sola, purtroppo, del duetto.

Non significa dire che la cantante fosse mediocre semplicemente che il mezzo era quello che era e che l’uso che la Bori ne fa è esemplare. L’interpretazione è sempre impostata sulla misura e su toni intimistici, non tenta mai  cose che la voce non può. Basta sentire l’aria di Louise dove abbiamo una splendida dizione (caratteristica  costante della Bori), una  articolazione attenta alle parole, ma non si tentano gli eterei rallentamenti e pianissimi di una Olivero o di una Caballe né tanto meno si fa mostra di uno splendore vocale che non c’è e che nello stesso passo esibirà la Price; oltretutto gli acuti della Bori sono tendenzialmente stimbrati e fissi ed il difetto appare accresciuto nella registrazioni più tarde. Eppure la fanciulla parigina che parla del suo amore totale è  colta nel segno. Del pari insuperabile  complice la assoluta affinità vocale e sintonia interpretativa con il partner (Tito Schipa) la morte di Mimì, la più toccante e straziante perché ci dice che una grisette, una sartina tisica concepita nel 1896 non muore da prima donna  come Violetta, ma è piccola, silenziosa anche la sua morte. Ci domandiamo se la grandezza di questa interpretazione nasca dal solo conoscere la propria non illimitata voce o  da una ben precisa idea interpretativa.  Esemplare è la dizione, non serve (come accadeva del resto per Schipa) il libretto,  non solo si capiscono tutte le parole, ma è esemplare come la cantante  articoli e dia significato  senza nessuna leziosaggine alle parole. Ascoltare il  “VOLLI solo restare”  “BELLA come un tramonto”. Poi possiamo dire che molte altre Mimì sono state nella scena finale  più varie e più sfumate, ma la Bori cambia il colore della voce dalle prime battute a quelle dedicate al ricordo del primo incontro. Per la cronaca quanto deve scendere “ fingevo di dormire” lo fa in maniera esemplare senza che il suono  perda appoggio e sostegno.

Alla figura della ragazzina semplice e sognante risponde l’esecuzione dell’aria di Suzel dell’Amico Fritz ed il cosiddetto duetto delle ciliegie con Fleta. Nel caso del duetto è difficile non soccombere alla unica unione di  splendore vocale e  dinamica del tenore spagnolo eppure la Bori  non intacca la qualità del suono e la voce dolce e sottile è il giusto contrasto (e lo sarà anche nel duetto di Carmen) con quella del tenore certamente di colore e tonnellaggio ben maggiore degli altri tenori che eseguirono la commedia mascagnana. Per l’aria Son pochi fiori la Bori soccombe solo davanti a Claudia Muzio, assai più dotata,  che canta ed interpreta con la ricercatezza di fraseggio e certi “controtempi” di cui lei sola era capace e che la rendono unica ed insuperabile. Ancora  nell’addio  alle scene 1936 la Bori propose quello che, dopo la rentrée del 1921, era stato il suo personaggio al Met ovvero Manon. L’ingresso a San Sulpizio prima dell’incontro non è vocalmente una meraviglia un paio di acuti (complice anche la registrazione di fortuna) suonano fissi e bianchi e più che altro senza ampiezza ed espansione, il gioco dinamico è essenziale eppure non si può negare che la raffigurazione della donna innamorata (non certo l’invasata che altre cantanti proponevano) è credibile come pure nella scena della seduzione vera e propria non vi è mai cedimento al cattivo gusto ed alla facile platealità, utilizzata spesso per simulare la decorsa freschezza del mezzo vocale.

A parte poi ed è naturale l’esecuzione di brani leggeri o canzoni capitanati dalla Violetera dove  la cantante è al tempo stesso forbita e popolaresca, maestra di rallentando ed accelerando senza che queste scelte intacchino la linea musicale o suonino forzatamente ricercate. Ma anche il Bacio di Arditi merita una riflessione, magari strumentale, perché il valzer del compositore di Crescentino è sempre stato terreno di caccia dei soprani d’agilità che sfoggiavamo la loro privilegiata ottava superiore. Nell’esecuzione di Lucrezia Bori l’ottava superiore non è privilegiata e forse non c’è neppure, ma la cantante supplice con l’accento, il fraseggio ora languido ora piccante ed il palcoscenico di una Tetrazzini o di una Sutherland diventa il salotto fin de siècle. Credibilissimo!

 

De Falla, Siete canciones populares españolas – Jota

Blas de Laserna, El Jilguerto con pico de oro

Tiochet/Pestalozza, Ciribiribin

Arditi, Il Bacio

Varney, L’amour mouillé – Valse d’oiseau

Götze, Calm As The Night (con L. Tibbett)

Glazunov, La Primavera d’Or

Strauss II, Geschichten aus dem Wienerwald

Pagans, Malagueña

Padilla/Montesinos, La Violetera

Valverde, Clavelitos

 

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2 pensieri su “Il soprano prima della Callas, trentunesima puntata: Lucrezia Bori

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