Le cronache di Manuel García: L’Incoronazione di Poppea in Scala.

L'Incoronazione Di Poppea (Saison 2013-2014)E’ iniziato ieri l’ultimo capitolo della trilogia monteverdiana firmata dalla coppia Rinaldo Alessandrini e Robert Wilson: dopo “L’Orfeo” nel 2008 e “Il Ritorno di Ulisse in Patria” nel 2011, è giunta ora il Scala “L’Incoronazione di Poppea”, ultima e forse più affascinante e complessa opera del maestro cremonese, presentata per la prima volta a Venezia nell’inverno del 1642-1643. La complessa struttura musicale dell’ “Incoronazione di Poppea” è nota principalmente grazie a due fonti, una manoscritta veneziana non legata, però, alla prima rappresentazione, e una napoletana del 1651 facente riferimento ad una esecuzione ivi avvenuta, che ci hanno tramandato l’opera in una veste molto modesta soprattutto per quanto riguarda la strumentazione, praticamente inesistente in entrambe le fonti e ridotta alla sola linea del basso continuo. Da questa realtà, nel corso del ‘900 le ricostruzioni di Vincent d’Indy, Giacomo Benvenuti (utilizzata nella ripresa nel marzo del 1937 nel Giardino di Boboli con Tancredi Pasero, Gina Cigna, Elena Nicolai e Magda Olivero, con la direzione di Gino Marinuzzi) e poi di Nikolaus Harnoncourt e di René Jacobs si sono tutte mosse in questa direzione nel tentativo di ridare una veste strumentale più o meno corretta a questo capolavoro monteverdiano. Per la rappresentazione scaligera la versione scelta è stata quella del direttore Rinaldo Alessandrini, grande conoscitore del repertorio nonché raffinato e sensibile interprete. La sua orchestrazione è precisa, attenta e rispettosa del reparto vocale e delle dinamiche di scena. La compagine è piccola, circa 15 elementi tra violini, basso continuo con tiorbe, clavicembalo e violoncello, e due fiati inseriti nel III atto.

Di fatto, e al di là della bellezza della sua ricostruzione, è stato proprio Rinaldo Alessandrini il vero demiurgo dello spettacolo e di tutta la trilogia in generale, capace di unire buca e palcoscenico con grande attenzione e gusto, con un gesto preciso e concreto sempre puntuale nell’accompagnamento del basso continuo e morbido e brillante, invece, nei piccoli momenti d’insieme. Insomma una grande performance, tipica di chi conosce il repertorio, la sua storia e la sua estetica e la interpreta con saggio senso pratico senza vuoti sofismi retorici.

Ben diverso, invece, il discorso per il reparto vocale. Certo, si potrebbe dire che in Monteverdi il canto ha delle caratteristiche particolari, che rendono complessa l’applicazione delle categorie critiche di cui si fa uso per giudicare gli interpreti rossiniani e verdiani. Ma davanti a stonature, suoni ingolati, urla e effetti vocali del genere, beh, la critica non può che essere uguale. Sgradevole e acida nell’emissione la Poppea di Miah Persson, così come l’Ottavia di Monica Bacelli. Pessimo, invece, l’Ottone di Sara Mingardo ingolatissima e priva di volume tanto da essere spesso coperto dal solo basso continuo. Più gradevole, anche se non molto corretta nella tecnica, Maria Celeng, Drusilla: voce anonima, non chiarissima, con una emissione molto “masticata”, ma di certo più sonora rispetto alle altre voci forse grazie a qualche “aiutino” di cui potrebbero aver beneficiato anche altre voci misteriosamente più sonore ed ampie delle altre tra cui ad esempio Leonardo Cortellazzi nel ruolo dell’imperatore che, assieme ad Andrea Concetti nel ruolo del filosofo romano, hanno dato prova di un canto scomposto e piatto: il primo è apparso ingolato e chiuso nel registro acuto e spesso stonato, il secondo, da buon basso contemporaneo, ingolfato e con una notevole tendenza ad scurire artificialmente l’emissione. Nessuna voce dunque è stata capace di brillare sulle altre, di emergere o per tecnica o per gusto.

La regia di Robert Wilson in questo senso non è certamente stata di grande aiuto. Il regista americano, tanto nell’Orfeo come nel Ritorno e in questa Incoronazione, è a mio parere riuscito a mettere in piedi spettacoli esteticamente piacevoli, con felici abbinamenti di colori e gestualità raffinate ed eleganti, con alcuni momenti di grandissima bellezza (duetto Nerone/Poppea I atto e scena dell’omicidio nel II atto). Non si può, però, tacere su alcuni grandi difetti primo fra tutti la estrema staticità e piattezza delle scene totalmente vuote spesso costruite sulla pura mimica facciale o sui gesti. Ripetitività e piattezza che abbinate alle voci poc’anzi elencate, hanno messo a dura prova l’attenzione e la resistenza del pubblico. Resta, poi, il tema della coerenza, vero punto debole delle regie contemporanee troppo ansiose di dire la propria anche a scapito della fedeltà e integrità del testo in questione. Wilson, almeno in questa trilogia, è stato un regista cauto, certo criticabile, piatto, ripetitivo ma mai estremo o esagerato nelle sue scelte. Il teatro di Monteverdi è pero un’altra cosa. Ha una teatralità, un’estetica proprie che, come suggerito da un caro amico, forse riuscirebbero ad emergere solo nello splendido teatrino di Sabbioneta con abiti da ‘600 lombardo.

In sintesi, questa “Incoronazione” chiude una trilogia altalenante, con splendidi momenti di regia e più frequentemente di musica ma che oggi comunque appare come un’occasione mancata per il teatro milanese. Alcuni accuserebbero la piatta regia di Wilson, altri i gusti limitati e la poca curiosità del pubblico milanese troppo ancorato al suo Verdi per poter gustare qualcosa di diverso, altri arriverebbero pure a colpevolizzare Monteverdi reo di aver scritto musica “strana e noiosa”. Fatto sta che, comunque, questo percorso monteverdiano non è stato capace di richiamare a sé il pubblico milanese e risvegliare interesse in un repertorio che, al di là delle sue intrinseche difficoltà e diversità di gusto e di stile, merita un’attenzione particolare e non solo per il suo indiscutibile valore storico.

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44 pensieri su “Le cronache di Manuel García: L’Incoronazione di Poppea in Scala.

  1. Chiedo scusa in anticipo per l’eventuale aggressività ma trovo questa recensione raffazzonata , sempliciotta e non in linea con quanto propone solitamente il CdG. Non una parola sulla distrubuzione dei ruoli vocali alla prima rappresentazione (manco si dice che Nerone fu scritto per castrato), nulla su ciò che Alessandrini ha fatto mischiando i due manoscritti…. la solita litania su voci ingolate, “masticate” ecc. Veramente deludente.

    • Caro Billy Budd, la storia compositiva dell’Incoronazione la lascio alla filologia. Non era mia intenzione fare una collatio codicum dell’opera monteverdiana.
      La mia è e vuole essere una semplice, chiara e breve relazione su quanto visto in teatro. Una litania credo siano le voci che si sentono sempre più spesso nei vari teatri: solite voci, fatte con lo stampino, con gli stessi identici difetti. Quanto al tenore manco mi ero accorto che fosse un tenore!
      A lei le conclusioni della storiella…

      Se però vuole leggere la bella avventura delle due edizioni beh ci sono fior fior di libri che ne parlano. Oltretutto io francamente di spendere 20 euro per quel pezzo di carta che danno in sala non ne ho avuto voglia, sa in tempi di crisi… Comunque se tanto le interessa, le mando una bella lista di saggi e libri.

  2. Non ho visto questo spettacolo e non credo di andare a vederlo: non perché non apprezzi il sommo Monteverdi (anzi…personalmente ritengo che tutto l’800 italiano non valga una sua pagina), ma perché non voglio reggere l’ennesima non regia di Bob Wilson, con le sue belle statuine pitturate di biacca, i movimenti innaturali, la programmatica immobilità, la soppressione di ogni vitalità teatrale… Però la produzione scaligera e il resoconto di Garcia mi suscitano qualche perplessità.
    1) Innanzitutto credo che non si possa approcciare il recitar cantando come se si trattasse di opera seria o melodramma: è un repertorio – già l’ho scritto altre volte – in cui il valore del testo è prevalente e “l’harmonia è serva di oratione”. Una vocalità, dunque, che va intesa in modo differente e in cui la tecnica della “sprezzatura” prevale sulla scansione ritmica.
    2) Garcia parla dei manoscritti (Venezia e Napoli) che ci avrebbero “tramandato l’opera in una veste molto modesta soprattutto per quanto riguarda la strumentazione, praticamente inesistente in entrambe le fonti e ridotta alla sola linea del basso continuo”. In realtà non vi è alcun bisogno di “orchestrazione”: questa era una fissa dei primi ‘900 e delle fantasiose ricostruzioni di Vincent d’Indy o Giacomo Benvenuti o dei tanti che si presero la briga di trovare ipotetiche vesti orchestrali non comprendendo che il Nerone, ossia l’Incoronazione di Poppea (questo il titolo originale) NON è un’opera seria, né un’melodramma e non necessita di apparato orchestrale. I teatri veneziani dell’epoca – dove l’opera ebbe le sue prime rappresentazioni – prevedevano organici di una decina di strumentisti la cui maggior parte era impiegata per il basso continuo e non comprendevano strumenti a fiato, percussioni, ottoni e sezioni di archi. E non si tiri in ballo la ricca strumentazione dell’Orfeo (opera scritta per un ambiente diverso e non destinato alla rappresentazione pubblica e dal carattere sperimentale) che aveva finalità ed esigenze del tutto differenti da quelle dei teatri veneziani. Quindi la “veste strumentale corretta” è una chimera. I manoscritti veneziano e napoletano riportano la linea vocale, quella del basso continuo e quelle strumentali senza indicazioni (stese su tre righi a Venezia, su quattro a Napoli): da qui si deve partire per una realizzazione scarna ed essenziale (penso a Vartolo o Cavina) che non prevarichi il recitar cantando.
    3) I manoscritti di Venezia e di Napoli in realtà sono due testi perfettamente autonomi e profondamente differenti l’uno dall’altro: mi spiace che Alessandrini non abbia optato per la scelta di uno o dell’altro, proponendo – a quanto pare – un mix discutibile tra le due versioni…e Alessandrini conosce la materia dato che è il curatore dell’edizione Monteverdi per Barenreiter.
    4) Ancora più ingiustificabile mi sembrano le scelte di talune tessiture contrarie a quanto previsto da entrambi i manoscritti e causa di squilibri musicali molto gravi: Nerone è scritto per soprano (castrato o donna poco importa) e affidarlo a un tenore è semplicemente demenziale, così come trascrivere per un tenore baritonale il ruolo del Valletto o trasformare il ruolo da tenore en travesti di Arnalta (tipico del teatro secentesco) in ruolo sopranile.

  3. recita del 1 febb
    prologo e 1^ atto poi ho/abbiamo velocemente guadagnato l’uscita
    spettacolo noioso oltre ogni limite orchestra mignon (filologica?)
    inadatta al teatro tanto è vero che hanno dovuto aggiungere 2 casse elettriche, per far si che la musica si sentisse.

    Se l’eleganza è proporre una simile staticità e qualche gesto ieratico
    in un’opera che già di per sè non ‘muove’ grandi entusiasmi il minimo è avere un teatro vuoto ed u n pubblico sfiancato.
    Detto ciò un appassionato non entra nemmeno poi nel merito delle
    voci e/o dell’esecuzione è talmente provato che guadagna l’uscita alla prima occasione.
    Per inciso il Sig Pereira nel palco di proscenio dopo mezz’ora smanettava col suo cellulare e non ha neanche atteso l’intervallo
    per andarsene :!!!
    Una specie di pubblicità FLOS e TARGETTI
    da evitare accuratamente

    • Che l’opera non muova grandi entusiasmi è opinione tua. L’orchestra ridotta è quella corretta (mica è Bruckner). Le casse erano quelle per Die Soldaten e servivano per gli effetti e per la seconda orchestra. Non erano messe per la Poppea e dopo il 3 febbraio (ultima dell’opera di Zimmermann) sono state tolte. Ergo il siono era solo quello prodotto in buca

      • Ben detto Monsieur Duprez! Ma, dico, come si fa a pensare che un’opera del 600 si esegua con un’orchestra (che tale ancora non era, oltretutto) come quella di un’Aida???? Noiosa sarà forse per quelli che credono che un’opera sia bella da ascoltare solo perché orecchiabile (zum-pa-pa???). Se poi uno ci va impreparato sono affari suoi. Ho trovato la regia piuttosto raffinata, ma incapace a trasmettere quella carica di sensualità e financo di eros che Busenello ha intessuto nel libretto con incredibile maestria. Qualcosa da ridiire anche sui cantanti (che, tra l’altro, non hanno saputo supplire vocalmente alle manchevolezze della suddetta regia), ma nel complesso sono uscita (a fine spettacolo) più soddisfatta di molte altre volte

      • per inciso ho scritto: ‘per far si che la musica si sentisse’ riferito alla casse ; comunque i gusti non si discutono:
        per me resta uno spettacolo brutto ,noioso e inadatto alla Scala (sala)!
        il buon successo di pubblico, mi ricorda la ripresa economica in corso di ebetina memoria ! Essendo presente alla prima
        alla fine del 1^ atto ce ne siamo andati in parecchi ed i commenti si sprecavano …
        e ribadisco che il sig Pereira se ne andato dal palco prima della fine del 1^ atto
        essendo in un palco di 3^ ordine non ho avuto un abbaglio malgrado le ‘splendide’
        luci …..

        • Non discuto i tuoi gusti, ovviamente, solo ti preciso che le casse erano lì per l’ultima replica di Die Soldaten. Quanto agli abbandoni in corso d’opera o i commenti….francamente mi sembrano le solite litanie che si sentono quando si programmano titoli estranei al repertorio dell’800 italiano: il barocco è inadatto, l’opera tedesca è poco musicale e, appunto, in tedesco, il repertorio russo o ceco è roba da pseudo intellettuali, l’opera novecentesca o contemporanea (e spesso sento parlare di Schoenberg) come di musica contemporanea – sic!) è rumore e così via…con il risultato di ridurre i titoli rappresentabili a poche decine che si ripetono da decenni: come se il pubblico nella sua totalità fosse rappresentato dai vicini di poltrona con cui ci si scambia giudizi di non gradimento. Francamente non capisco in che senso l’Incoronazione di Poppea non sia adatta alla Scala: ho sentito L’Orfeo e Il ritorno di Ulisse in Patria e non ho certo avuto problemi di percezione sonora (anche perché in entrambe le occasioni l’orchestra era ben più rimpolpata del dovuto). Certo non è Tosca e certo l’opera ne guadagnerebbe in una sala più raccolta (ma non è che all’epoca venissero rappresentate nel salotto di casa!).

  4. Ho assistito alla prima di domenica e alla seconda di mercoledì: il pubblico – nelle due sere – mi sembra abbia reagito con favore. Nessun applauso a scena aperta ma successo cordiale alla fine e anche applausi ( non proprio meritati ) al regista. ( Pereira alla prima non se ne affatto andato: stava nel palco di proscenio alla destra dei cantanti ed è rimasto sino alla fine ). Ho trovato la direzione di Alessandrini solo sufficiente: molto molto discutibili, come è già stato sostenuto qui da qualcuno, alcune scelte riguardanti le tessiture dei cantanti. Ho riscontrato inoltre una certa inerzia nel dare risalto alle pagine di più accesa sensualità, a partire dai duetti Nerone/Poppea. Una lettura un po’ troppo asciutta e castigata. La regia non ha devastato l’opera: di questi tempi significa quasi portare a casa il risultato. Era tuttavia una regia di creatività praticamente nulla: abbiamo assistito alla riproposizione di gesti, vezzi e situazioni ammanniti da Wilson sia in Monteverdi che in altre salse. Non cattivo gusto ma una spiccata tendenza a surgelare una materia drammaturgica varia e vivissima. L’Incoronazione di Poppea costituisce un vertice difficilmente eguagliabile: ovvio che l’ottocento italiano soccomba al paragone ( ma quasi tutto soccombe al paragone ). Infine è da sottolineare come un teatro “moderno” come la Scala sia ben poco adeguato alla rappresentazione di un’opera del genere. La soluzione più brillante del problema è stata a mio parere trovata negli anni ’90 al Teatro Verdi di Pisa, quando fu svuotata la platea e adattata a palcoscenico con il pubblico presente solo nei palchi. Ne ho uno splendido ricordo.

  5. La incoronazione di Poppea come per le due opere precedenti di Monteverdi erano composte per Teatri di corte e quindi
    la compagnia dell’orchestra era assai esigua (spesso solo il basso continuo). L’idea di rappresentarla alla Scala fu già un errore quando
    vi approdò nel 1979 la compagnia di Harnoncourt. Non è chiaro il perchè oggi la Scala (mancandole un palcoscenico come quello della Piccola, non si sia rivolta ad una sala più abbordabile come quella del
    Dal Verme. Di “noblesse oblige” si può morire!

    • Non è vero Rigoletto! L’Orfeo soltanto fu scritto per un’accademia di intellettuali e artisti: un’opera sperimentale non destinata alla rappresentazione pubblica (e per questo l’organico fu insolito e non emblematico della musica del periodo). Le altre due, invece, furono scritte per atra fruizione. Ritorno e Incoronazione erano destinate alla rappresentazione in teatri pubblici a Venezia. Per un pubblico non più nobile o intellettuale, ma borgese e pagante. Le sale erano un po’ più piccole di quelle odierne, ma non erano certo minuscole: si parla di circa 1.000 posti… Peraltro Monteverdi è rappresentato in tutto il mondo e in tutto il resto dell’Italia senza suscitare queste assurde reazioni.

  6. Lasciando da parte il confronto tra Monteverdi e l’800 (che suona più o meno come il confronto tra Giotto e Caravaggio, ossia un’assurdità), è evidente che l’Incoronazione di Poppea è un capolavoro che non solo merita, ma esige di essere rappresentato. D’altra parte la fruizione da parte del pubblico di un’opera del genere non può avvenire con la stessa “facilità” con cui si fruisce – per esempio – de La Traviata. Questo non significa che l’opera monteverdiana difetti di qualcosa, ma solo che gli stilemi di metà ‘600 sono più lontani dal pubblico attuale rispetto alle forme chiuse tipiche dell’800: se dunque il pubblico anche poco preparato può – almeno in parte o superficialmente – godere de La Traviata, difficilmente lo stesso pubblico potrà godere dell’Incoronazione. Ma non diamo di questo la colpa alla Scala!

  7. Il Teatro in cui l’Incoronazione di Poppea conobbe la prima rappresentazione era la metà della Scala. Sono convinto che le opere non siano indifferenti alle dimensioni dei teatri e che l’Incoronazione rappresentata in un teatro di medie dimensioni abbia tutto da guadagnare. Cosa del resto che ho sperimentato di persona. Aggiungo poi che non amo i teatri grandi e detesto fieramente le arene da diecimila e più spettatori. Trovo l’ampio palcoscenico della Scala inadatto anche ai concerti liederistici, anche se poi – senza farla troppo lunga – vi partecipo di buon grado. Detto questo l’Incoronazione alla Scala – prescindendo dai giudizi personali – ha incontrato buon successo e dunque non condivido l’osservazione che questa ripresa non abbia richiamato il pubblico o l’abbia annoiato . Né ho rilevato particolari reazioni – assurde o meno – al fatto che l’opera vi venisse rappresentata . Il 99,9% del pubblico intervenuto non credo si sia posto neanche il problema. Dunque tutto normale, come nel resto del mondo.

  8. Che il Teatro alla Scala possa fare da cornice alle opere Monteverdiane non è una novità, che il pubblico non si trovi appagato
    è mia idea e me la tengo, visto che spesso esser approdati alla Scala èra un merito (un dì). Il teatro daltronde non conobbe popolarità se non in fette ben individuabili di pubblico (2000 per rappresentazione) e solo il Don Carlo di Abbado ebbe 13 repliche continuative, che così accontentò circa 26.000 cittadini. Solamente durante il restauro al Teatro Arcimboldi ampliò il suo pubblico per la maggior capienza.
    La mia osservazione, stante le rimostranze di Duprez, significava che La Scala fece un errore colossale ad abbandonare l’altro teatro
    più ampio (Arcimboldi) come quello di distruggere la Piccola Scala e non sostituirla con altra sala, per opere più adatte ad un pubblico popolare come ad esempio Il matrimonio segreto o il Don Pasquale che a mio parere accontenterebbero persone più semplici degli amanti di Wozzek. Ci si dimentica sempre che i costi veri degli spettacoli non sono solo quelli del biglietto ma anche i contributi A FONDO PERDUTO per appianare i costi dei teatri ( che giustamente si chiamano fondazioni )

  9. Replica di sabato 7/2:
    Faccio fatica a capire perchè Alessandrini abbia affidato a un tenore (voce per nulla amata nel ‘600 e ‘700, come diceva Celletti) la parte di Nerone. Lo stesso errore lo commise anche Harnoncourt, ma lì la regia geniale di Ponnelle faceva dimenticare quasi tutto. Il risultato è stato che si è persa buona parte della sensualità dell’opera e che il duetto finale (per me il più bel duetto d’amore mai scritto), è scivolato via senza alcun brivido erotico.
    Nutrice e Arnalta: Perchè affidare la nutrice a un attore che parla e urla e Arnalta a una donna? Però… L’interprete di Arnalta è stata brava, almeno scenicamente.
    Resto del cast: direi sopportabile, visti i tempi, ma con la Mingardo molto sotto tono e la Persson gelida come il ghiaccio.
    Direzione di Alessandrini: mi aspettavo molto di più da uno specialista spesso geniale. Ottimo nelle parti concitate ma mancante di sensualità nelle numerose parti di un’opera tendenzialmente erotica (era fatta per il pubblico e quindi…). Forse quest’opera ha bisogno di un direttore donna (e la Haim, nelle sue due versioni in video ne è buona testimone)
    La regia di Wilson: Una via di mezzo tra teatro No e movimenti di Gurdjieff. Resta negli occhi (anche per la lama di neon piazzata ad altezza occhi dello spettatore) ma poi… raggela. Non è “contro” l’opera ma è frigida. Così si perdono sia l’erotismo sia il gioco di potere. Un piccolo ricordo: avete presente gli sguardi alla corona che la Yakar – pessima cantante ma eccellente attrice – fa nella versione Ponnelle – Harnoncourt? Ben qui non c’era nessuna idea coraggiosa (magari sbagliata) di quel genere.
    Ultima osservazione: L’incoronazione di Poppea è un’opera che “sta in piedi da sola”: si può cantare non bene, dirigere male, mettere in scena in modo errato, ma il pubblico che anche casualmente la vede, ne viene stregato. Ecco perchè il pubblico applaude (anche a scena aperta sabato). Monteverdi e la sua bottega vincono su tutto e tutti.

  10. Ho assistito alla replica del 7 febbraio e, pur avendo sentito pareri discordanti tra una recita e l’altra, devo dire che lo spettacolo, complessivamente, ha funzionato. Elegante e algida la regia; ottima la direzione di Alessandrini. Quanto al cast vocale, certamente c’è da nutrire qualche perplessità, sul piano filologico, rispetto alla ripartizione dei ruoli e alle tessiture (Nerone e Arnalta su tutti). Considerato che, come ricorda Duprez, nel recitar cantando l’armonia è serva della parola, ho particolarmente apprezzato Giuseppe de Vittorio, convincente proprio perché grande attore e finissimo “dicitore”.
    Insomma, un bello spettacolo.

    • Chiedo scusa ma gli urlacci di de Vittorio erano insopportabili! Davvero quanto di più lontano dal recitar cantando! Non erano neppure uno sprechgesang!
      Se mi si consente un ricordo di quando andavo a scuola… Per una ricerca (volevo dimostrare che i libretti d’opera potevano essere vera poesia, contro le tesi dell’orrendo croce – minuscolo dovuto alla piccolezza dello pseudo filosofo) feci proprio ascoltare il finale della Poppea (versione Ewerhardt – quello passava il convento!). Ebbene, ricordo che le mie compagne mi chiesero chi fosse il cantautore… Non volevano credere che il pezzo avesse allora trecento trentatré anni! Adoro Wagner ma condivido quanto scritto da Billy Budd. Forse solo Verdi nel finale del I atto di Otello si avvicina alla sensualità del finale della Poppea… Ma impiega 10 minuti!

      • Sono pienamente d’accordo sul fatto che alcuni libretti d’opera possano essere considerati vera poesia – e certamente questo è il caso del testo di Busenello. Quanto a De Vittorio, ritengo che la sua (splendida) voce sia stata penalizzata da scelte registiche che non tengono conto delle peculiarità del “mezzo vocale” dei cantanti (la Nutrice, nella regia di Wilson, interviene sempre in secondo piano, molto indietro rispetto agli altri personaggi in scena, piantati praticamente a ridosso della buca). Mi pare che “figlia e signora mia, tu non intendi” un po’ sforzato sia dovuto anche a questa scelta poco felice. Consideriamo che i teatri in cui De Vittorio ha interpretato la Nutrice (Salamanca e Parigi – Palais Garnier) sono ben più piccoli della Scala. Poi, per carità, saranno opinioni personali, ma ho sempre apprezzato la capacità del tenore pugliese (canta, eccome se canta) di recare nel canto il senso della parola. Considerata la bellezza del libretto di Busenello, mi pare che questa sia già una gran cosa (specie se raffrontata alla fissità interpretativa di altri componenti del cast). Lo spettacolo, come dicevo, nel complesso ha retto e, se così è stato – mi sembra che siamo tutto sommato d’accordo – è merito non solo di Monteverdi (e di Cavalli e di Ferrari e di Laurenzi), ma anche di una produzione discutibile finché si vuole e tuttavia riuscita.

  11. Billy Budd è giustamente conquistato dalla bellezza del duetto finale dell’Incoronazione di Poppea. Non sono state state scritte da Monteverdi ma condivido in pieno l’ammirazione per quelle pagine. Non è però esatto dire che Monteverdi riesce a dire in 5 minuti ciò che Wagner nel Tristano dice impiegandoci molto di più. Calma. La poetica del Tristano, intrisa della filosofia del Romanticismo, espressione culminante dell’estetica e della filosofia romantica, è ben differente da quella di Monteverdi. I due non volevano dire né hanno detto la stessa cosa. L’immensa divagazione sul contrasto fra Notte e Giorno, con tutte le implicazioni filosofiche che ne conseguono, sono ovviamente estranee a Monteverdi che si è occupato – con risultati forse ineguagliati – di tutt’altro.

    • Sarà, ma io trovo che le disquisizioni wagneriane sul Giorno e la Notte puzzino di bigino di filosofia, metre il linguaggio amoroso fra Nerone e Poppea è di sconvolgente modernità. Ognuno faccia la sua scelta , è legittimo.

        • Giusto per sorridere un po’… su Wagner, che amo come musicista (meno come librettista… è così… tedesco!) si può citare anche Woody Allen “Lo sai che non posso ascoltare troppo Wagner… sento già l’impulso ad occupare la Polonia!” o l’aforisma di Stravinsky “c’è più sostanza e più genuina invenzione ne La donna è mobile che nella retorica di tutta la Tetralogia di Wagner“… Forse vale la pena di tornare alla Poppea, con un libretto che si può leggere con piacere anche senza musica (e lo si legge senza problemi nonostante i più di trecento settant’anni) e una musica che non fa trasparire all’ascolto le diverse mani. È un’opera che parla a tutti, senza bisogno di tante spiegazioni. È “pop” nel senso alto del termine. Tanto moderna che ne esiste proprio una versione pop intitolata Pop’pea di cui qui potete vedere il finale https://www.youtube.com/watch?v=PUwFSecZNcQ. Come dite? È volgare? sì, ma è la testimonianza di come sia attuale la musica del ‘600… pochi tocchi ed ecco il musical! Per fare lo stesso con la Boheme (Rent), opera per altri versi ideale per questa trasformazione, gli interventi musicali sono stati molto più radicali. Ecco, se un’occasione si è perduta alla Scala è stata proprio quella di fare ascoltare ai giovani l’opera (magari con una regia meno raggelante)… Sono certo che in molti sarebbero usciti da teatro (come una parte del pubblico di sabato) canticchiando la musica di “Apri un balcon Poppea”, o di “Oblivion soave” e avrebbero dedicato alla “ragazza” o al “ragazzo” il “pur ti miro” per il prossimo San Valentino. E queste sono cose che nessun’opera wagneriana darà mai. Se mai le ritroveremo nell’opera più antiwagneriana di tutte, la più amata da Nietzsche e forse la più canticchiata da tutti: Carmen.

        • Non occorrerà citare Dahlhaus per ricordare che il Tristano c’entra ben poco con l’ erotismo musicale (si citi il finale I della Walkiria, se proprio si desiderano colpi di reni in musica). Lo stesso ‘bigino filosofico’, comunque lo si giudichi, denuncia ben altre mire, decisamente nirvaniche. Il confronto con la Coronatione, opera che s’incardina invece su un eros terrenissimo ( e infatti intrecciato con l’ ambizione e il potere politico), è futile. Tanto varrebbe confrontare Zefiro torna del medesimo Claudio col finale italiano del Guglielmo Tell, che tutto cangia eccetera. Rispettosamente

  12. Posto che – parlando di gusti personali – preferisco L’Incoronazione di Poppea al Tristano ( l’Incoronazione è l’opera che prediligo in assoluto ) quando leggo che le disquisizioni wagneriane sul Giorno e la Notte sono riportate a livello del Bignami (!!!) sono costretto a ricordare quello che scrisse Newman in un suo classico saggio: ” Non c’è forse un solo spettatore su mille che riesca a cogliere il senso più riposto dell’interminabile divagazione poetica intrecciata dai due amanti sul contrasto tra Notte e Giorno, né, quand’anche abbia potuto leggere il poema, a intendere il significato stesso dei molti versi di Wagner e (…) “. Un po’ di cautela nell’affrontare i troppo grandi sarebbe opportuna. Consigliata anche a chi, un po’ più sopra, definisce Croce “pseudo-filosofo”. Ma dove siamo finiti? Nel salotto dei Verdurin?

  13. Mi rimangio lo pseudo filosofo, e lo cambio in filosofo nefasto, sordo alla musica, inutile categorizzatore di poesia e non poesia, spacciatore del suo gusto provinciale come metro di giudizio assoluto, massimo responsabile ideale dell’arretratezza scientifica dell’Italia (più di Gentile). Mi taccio del politico… Poi … chacun á son gout! Wagner filosofo: suvvia! Wagner librettista: grande ma di certo molto poco incline alla sintesi. Wagner musicista: talmente immenso da far dimenticare la nullità del primo e l’eccellenza del secondo. Il Tristano l’ho amato da ragazzo senza capire una parola di quanto si diceva… La musica spiegava tutto! L’aver letto e riletto il libretto non ha cambiato nulla. In Wagner é la musica che si fa parola, quasi contro la sua stessa volontá. De hoc satis

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