Herbert Schuch in concerto al Conservatorio di Milano.

herbert-schuchTanto per smentire la fola secondo la quale quelli della Grisi uscirebbero di casa solo per vedere spettacoli di merda (e lamentarsene in pubblico), giovedì 17 siamo andati al Conservatorio per assistere al debutto milanese in sede di recital del pianista Herbert Schuch, ospite delle Serate Musicali, una delle tante associazioni che con fondi limitati, buone idee e adeguate capacità organizzative riescono a dar vita a concerti di qualche rilievo al di fuori dei grandi circuiti (destinati, per il solito, a manifestazioni molto meno significative, se non sotto il profilo del marketing – un profilo puramente virtuale, almeno a giudicare dalle statistiche delle vendite nel mercato discografico). Non si può dire che fosse palpabile l’attesa per il concerto, ché la Sala Verdi era quasi deserta (ci sembra comunque poco probabile che gli appassionati di musica del circondario fossero impegnati con i preparativi di improbabili, imbarazzanti e improponibili trasferte berlinesi). L’esibizione è stata però tale da indurre a credere che il prossimo impegno milanese del solista, previsto ad aprile 2016, potrebbe dar luogo a una ben diversa risposta da parte del pubblico (e magari anche degli addetti ai lavori). Già nei Quattro Klavierstücke op. 119 di Brahms (un eccellente “scaldavoce”, per usare una metafora estranea alla musica strumentale) si può apprezzare il tocco morbido del pianista, che dà vita a un suono quasi impalpabile, ma capace di colmare la sala: l’esecuzione è un piccolo miracolo di rubati, con un languido indugiare sulle frasi, che risuonano perfettamente cesellate e soprattutto chiare, quasi vitree nella loro perfezione formale. Un suono meravigliosamente distillato, che racchiude in sé le bellezze sempre cangianti di questa musica. L’atmosfera si riscalda con il primo libro delle Variazioni su un tema di Paganini op. 35: il tema è enunciato con rapidità vertiginosa ma senza precipitazione, le quattordici “metamorfosi” si susseguono impetuose, parzialmente scardinando l’immagine di placida contemplazione costruita dal primo numero del programma, ma confermando il virtuosismo pirotecnico, senza esitazioni o posticce estroversioni, la delicatezza del tocco, il rigore, necessaria cornice e indispensabile sostegno dell’esecuzione. La Suite inglese n. 3 BWV 808 non ci è parsa agli stessi altissimi livelli: questo Bach risulta estremamente elegante, a tratti quasi ipnotico nella levità dell’ornamentazione, ma i movimenti in tempo rapido potrebbero essere più incisivi, i cantabili scanditi con un po’ più di libertà. Vertice assoluto della serata è l’esecuzione della Sonata n.32 op. 111 di Beethoven: l’enigmatico attacco del primo movimento, sospeso tra una velata minaccia e un’angoscia senza parole, si stempera presto in un abbandono lirico che non ignora scarti improvvisi, pur prediligendo le zone d’ombra, in un gioco di piani e pianissimi aerei (con tanto di trilli perfettamente sgranati) che dopo avere sfiorato (senza illudersi di illustrarli o, peggio ancora, di dominarli) i misteri di questa pagina, si spegne dolcemente nella cantilena conclusiva, accolta da un silenzio sbigottito, solo preludio possibile ai copiosi applausi finali. Un solo, adeguatissimo bis: il corale “Nun komm’ der Heiden Heiland” BWV 659, nella trascrizione di Ferruccio Busoni.

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