Anna Netrebko – Verismo – Parte I

verismo
La nuova fatica discografica di Anna Netrebko, dal titolo “Verismo”, desta senz’altro curiosità, soprattutto perché sancisce ormai di fatto il definitivo passaggio di una cantante vocalmente di ascendenza lirico-leggero, che ha costruito buona parte della propria carriera attorno al repertorio belcantistico, ad un repertorio drammatico e spinto, di cui abbiamo già avuto prova nel Verdi di Trovatore, Macbeth e, in parte, Giovanna d’Arco. Il passo successivo, ci suggerisce il titolo del disco, sarebbe ora il repertorio verista, ma il recital sembra essere incentrato più su Puccini, autore che vanta ben quattro fra i titoli proposti, di cui uno, Manon Lescaut, presente con la romanza del secondo atto e l’intero quarto atto, arrivando a ricoprire dunque buona parte del disco. Per questo motivo abbiamo pensato di dividere le nostre riflessioni in due parti, una incentrata su Puccini e la seconda sul restante repertorio affrontato in questo recital.
L’incipit dell’aria di Liù, in zona centro acuta, permette alla cantante di esibire uno sprazzo della propria voce naturale lirica, che viene artificialmente scurita e ispessita già in corrispondenza della frase “Si spezza il cor, ohimé”, dove il primo acuto, un la bemolle, è un suono duro e leggermente ballante, anche se appena toccato. L’ispessimento artificioso del centro, volto a ricercare un colore scuro che mima una voce più drammatica di quella dotata in natura, oltre che un probabile escamotage della cantante per affrontare la prima ottava, rende spesso la linea vocale dura e questo si percepisce con l’andare avanti del brano (ad esempio il “noi morrem” sul passaggio, duro e fibroso), e preclude all’interprete ogni possibile variazione dinamica musicale nella linea di canto. Gli acuti risultano migliori se affrontati piano, come gli ultimi la bemolle di “Liù non regge più”, mentre il si bemolle finale mostra qualche segno di durezza. Di vero fraseggio non possiamo parlare, ma il tono dimesso di Liù si addice di più alle caratteristiche musicali della Netrebko rispetto ad altri ruoli affrontati in questo recital e di certo sulla carta sarebbe stato, e potrebbe essere ancora, ruolo a lei più consono da affrontare in teatro.
Le cose vanno leggermente meglio all’aria d’entrata di Turandot paradossalmente, per due motivi, perché la cantante è più a suo agio dove può spingere e cantare con la propria dote vocale, più che dover esprimere attraverso dinamica e fraseggio, e soprattutto dal raffronto con il modesto passato recente e l’ancor più modesto presente, con esempi recenti ben peggiori di quanto ascoltato qui. La Netrebko si sforza di accentare, ma, dove richiesto, è incapace di variare dinamica, vedasi come esempio la frase “e sfidasti inflessibile e sicura l’aspro dominio, oggi rivivi in me”, dove i segni di diminuendo e crescendo sono ignorati.
Il centro è ancora scurito artificiosamente ed evidente è la difficoltà nell’affrontare il primo passaggio di registro, per cui frasi come “dove si spense la sua fresca voce”, oppure “a gettar la vostra sorte”, mostrano una cantante in difficoltà e abbastanza approssimativa. Buono invece “quel grido e quella morte”, dove viene esibito un si naturale piuttosto facile, anche se la cantante si fa prendere la mano nelle frasi successive, non risparmiandosi note di petto a “di chi l’uccise” e “vivo nel cor mi sta” e una piccola incertezza sul si naturale di “ l’orgoglio”, che balla vistosamente. L’intervento del partner nel finale sarebbe completamente da censurare e fa rimpiangere i recital di altre dive in cui Calaf nel medesimo passaggio taceva, ma fortunatamente nell’unisono finale la Netrebko lo copre e ci risparmia quello che si intuisce chiaramente essere un bercio.
In Vissi d’arte si percepisce lo sforzo di essere all’altezza delle grandi esecuzioni del passato, anche se l’orchestra e la direzione, dal tempo slentato e per niente “Appassionato”, come vorrebbe lo spartito, non riescono a rievocare il clima e la magia necessari, così come manca del tutto il “con grande sentimento” al “Sempre con fé sincera”, che l’orchestra stessa dovrebbe suggerire all’interprete. La Netrebko si sforza di avere una buona linea musicale e di essere partecipe al brano, provando persino il diminuendo sul la bemolle successivo al si bemolle di “Perché Signor”, non previsto in spartito ma di larghissima tradizione esecutiva, ma scegliere di eseguire il brano con il tempo lento che si ascolta in questa occasione, necessiterebbe di una cantante dotata di ampiezza tale da permetterle di avere grandi arcate di suono senza essere in debito di ossigeno, come invece succede alla Netrebko fin dalle primissime frasi, inficiando il legato in più punti e rendendo dunque l’esecuzione piuttosto generica, pur se musicalmente superiore a quanto spesso abbiamo sentito in teatro in questi anni.
Il momento migliore della parte piccinina del recital è probabilmente l’aria del secondo atto di Butterfly, dove si ha l’impressione che la cantante si sia preparata più del solito e si sia sforzata di avere una linea musicale più varia rispetto a molte prove del passato, forse sapendo che in Butterfly non è solo la cantante a dover dimostrare le proprie doti, ma è soprattutto l’interprete ad essere chiamata a “dire” attraverso la linea musicale della giovane Cio Cio San. La linea musicale, come si diceva, qui è più varia che in altri brani, la dizione abbastanza curata, al di sopra degli standard della cantante. Qualche difficoltà la si percepisce sempre nel primo passaggio come su “piccina mogliettina, olezzo di verbena. I nomi che mi dava al suo venire”, dove la cantante risolve la prima ottava come può, senza mai riuscire pienamente.
Ignoro se l’impegno in Tosca e Butterfly sia derivato dalla preparazione dei ruoli in vista di futuri debutti o se semplicemente la fama dei brani scelti abbia a lei imposto di prepararsi in modo più accurato, ma il risultato è forse quello più riuscito dei brani pucciniani del recital.
A Manon Lescaut spetta il ruolo di filler del recital, vista la scelta di eseguire l’intero quarto atto oltre che all’aria del secondo. Credo tra l’altro che sia l’unico ruolo proposto finora in teatro dalla cantante, che sembra mostrare sempre maggiore predilezione per Puccini in questa fase della sua carriera. Il ruolo in generale più che vocalmente mette in difficoltà la Netrebko dal punto di vista del fraseggio, spesso generico. “In quelle trine morbide” viene affrontato volendo esibire il bel timbro, ed è più a suo agio qui che nel quarto atto, pur mancando alla linea vocale sensualità o meglio ancora del vero fascino, che l’interprete deve saper dare, al di là del proprio mezzo vocale. Le mancanze dell’interprete sono poi evidenti nel quarto atto di Manon Lescaut, qui proposto integralmente. In questo atto più che altrove è la grande interprete che deve saper montare in cattedra al cospetto di una delle scene più autenticamente drammatiche del catalogo pucciniano, magari aiutata dal direttore d’orchestra, che deve far “cantare” l’orchestra assieme ai protagonisti. Invece, se vocalmente la Netrebko può ancora essere considerata superiore a molte sue contemporanee assurte a fama internazionale in questo ruolo negli ultimi anni, l’interprete non riesce a inventare alcunché per rendere memorabile queste pagine. Il fraseggio è generico, non sapendo differenziare le frasi declamate di Manon come “Innanzi! Innanzi! No” oppure dare diverso peso e colore a “Donna, debole, cedo”. Anche lo slancio, dove necessario, come al “Sei tu che piangi” e frasi successive, risulta molto fiacco. Quanto già detto è ancora più evidente in “Sola, perduta, abbandonata” e nel finale, dove qualche accento la Netrebko lo cerca, ma il continuo alternarsi fra disperazione e ricordo richiederebbe fraseggio più accurato e una fantasia che qui manca in toto, oltre che la capacità tecnica di passare dal pieno vocale delle frasi drammatiche a pianissimi che richiedono il controllo totale della cantante. L’incontro finale di Manon e Des Grieux poi non può avere il colore e il tono dell’incontro al primo atto o al secondo, e men che meno può rievocare il duetto finale di Mimì e Rodolfo. In questo Pappano non aiuta gli interpreti, interpreti già poco fantasiosi, faticando a trovare in orchestra i colori adatti alla scena e la necessaria forza drammatica, risultando piatto oppure rifugiandosi nell’uso del fortissimo.
Quanto a Yusif Eyvazov vale solo la pena di dire che ha vera voce di comprimario e organizzazione vocale improvvisata (non posso dire da provincia perché nella provincia italiana fino agli anni 70-80, nella medesima parte non era infrequente imbattersi in tenori come Labò o Cioni), timbro secco e sgradevole, emissione sgraziata che va nel naso non appena la linea vocale sale un minimo. L’intervento di Des Grieux “Vedi, son io che piango”, così come ogni frase del finale, perdono tutta la propria forza musicale e drammatica, vanificata da un’esecuzione generica, impossibilitata per limiti tecnici ad avere la necessaria dinamica o semplicemente un fraseggio che permetta di distinguere le prime frasi dell’atto dall’invettiva “Maledizion! Crudel febbre l’avvince” o dal successivo “Manon, non mi rispondi?” o dal finale dell’opera.

Gli ascolti

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