Cronache dalla Ville Lumière: Les Contes d’Hoffmann alla Bastille

La ripresa dell’ultimo capolavoro di Offenbach nel rodato spettacolo di Carsen all’Opéra era stata originariamente pensata per far sfilare un cast più lussuoso, comprensivo di Jonas Kaufmann nel title role e Sabine Devieilhe, nuova gloria nazionale, in quello di Olympia, oltre alle presenti Jaho e Aldrich. A fare da pezze in seguito alle defezioni sono stati Nadine Koutcher, che sostituiva la cantante francese incinta, e Ramon Vargas, che veniva in soccorso alla decomposizione vocale del supertenore 2.0.

Le maggiori soddisfazioni, però, sono giunte dalla bacchetta di Philippe Jordan che ha diretto molto bene l’opera, seppur in una discutibile versione mista che comporta molti snaturamenti, trovando sempre i giusti colori e il giusto ritmo, sostenendo i cantanti e mostrandosi determinato a evidenziare le bellezze della partitura. Purtroppo, il suo lavoro è stato irrimediabilmente azzoppato dal protagonista Ramon Vargas che non era pronto per affrontare l’opera. Non so se ciò dipenda da uno studio non portato a termine, dal poco tempo avuto per prepararsi o da poche prove, ma Vargas ha fatto sbracciare Jordan per tutta la serata sbagliando continuamente tempi e attacchi; ho compianto il povero Jordan costretto a fare i salti mortali per andargli appresso e fargli continuamente gesti per rimetterlo in carreggiata. Vocalmente Vargas non è stato migliore: la voce bella di un tempo è drammaticamente compromessa, gli acuti sono spinti e fibrosi alla Domingo, il suo stesso modo di cantare è tutto improntato allo sforzo col risultato che la stanchezza prende il sopravvento e così l’impossibilità di governare la voce. Il ruolo di Hoffmann, lunghissimo, difficile e di tessitura molto scomoda, non perdona e Vargas ci è affogato dentro; dall’atto di Giulietta gli svarioni vocali sempre più evidenti si cumulavano a quelli di tempo, di scansione del testo – per metà errato o inventato – e di dizione. Parlare di interpretazione avrebbe poco senso, così come invocare a parziale scusante la presenza scenica del tenore vista la sua infelice fisicità.

Gli esiti del resto del cast sono stati migliori poiché gli interpreti, se non altro, conoscevano le proprie parti. Il migliore in campo è stato Roberto Tagliavini che ha risolto Lindorf, Coppélius, Dapertutto e Miracle con sicurezza, bella voce e buon piglio; la voce non è onnipotente e gli acuti qualche volta tendono ad andare indietro, ma ha offerto una prestazione positiva e molto sopra la media dei bassi odierni affetti generalmente da comuni problemi. Sul versante femminile a spiccare è stata Stéfanie d’Oustrac nei panni della Musa e di Niklausse, scenicamente ottima e vocalmente gradevole in zona medio-alta laddove sta la sua vera voce; la parte di Niklausse si è rivelata a tratti troppo bassa costringendola a inventarsi suoni gravi poco riusciti, ma nel complesso è stata dignitosa.

A cavarsela altrettanto dignitosamente e con un tripudio di applausi è stata Nadine Koutcher nei panni di Olympia, il personaggio che solitamente riscuote il maggiore apprezzamento da parte del pubblico; la voce ha un timbro gradevole, nei centri ha una certa sonorità e anche negli acuti che, però, sono spesso imprecisi, limite piuttosto evidente in una parte che prevede quasi solamente fuochi d’artificio. L’estensione c’è, ma i picchettati e i vocalizzi in zona acuta l’hanno vista prudente e non erano sempre ben centrati (specie in chiusura d’atto). Pessima la Giulietta di Kate Aldrich tanto bella nei panni della cortigiana quanto incapace di cantare decentemente a causa di una fonazione tutta sbagliata e nonostante la parte fosse di molto accorciata. Basti dire che Yann Beuron, ottimo caratterista interprete di Andrès, Cochenille, Pitichinaccio e Frantz, si è visto tributare molti più applausi di lei sia per l’aria nell’atto di Antonia sia al termine della rappresentazione. Caso diverso quello di Ermonela Jaho, cantante di sforzo ultimamente richiestissima in Francia e Inghilterra. La Jaho sarebbe è soprano lirico-leggero che quanto riesce a cantare in piano o in mezzoforte può vantare un bel timbro; il problema è che la signora si picca di essere un soprano lirico o addirittura spinto, oltre che una cosumata tragédienne. La Jaho maltratta la sua voce, spinge sempre e per trovare un’ampiezza che non le sarebbe propria e per fare la grande attrice, ma sotto la voce resta sorda e il canto, tutto di fibra, stanca la voce in breve tempo precludendole dinamiche e salite agli acuti. La signora non si risparmia in nulla (persino il sopracuto alla fine del terzetto, calante ovviamente) e vuole accentare a ogni costo col risultato di essere alternativamente artificiosa, sopra le righe e parodistica. Accentare ogni sillaba e ogni suono è errato e assurdo tanto quanto non accentarne alcuno e diventa anche piuttosto ridicolo se non si padroneggia alla perfezione la dizione. La Jaho mi è parsa in tutto e per tutto una copia in negativo della Gheorghiu e il suo modo di cantare e le scelte di repertorio non lasciano presagire un roseo futuro.

Senza infamia e senza lode i comprimari, con una menzione speciale per la veterana Doris Soffel come Madre di Antonia, ruolo che cantò – non molto meglio di ora – anche nell’82 in un recital accanto alla Sutherland. Dignitosa, ma non brillante la prestazione del coro, più debole nel comparto femminile che in quello maschile. Al termine, ovviamente, applausi per tutti.

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5 pensieri su “Cronache dalla Ville Lumière: Les Contes d’Hoffmann alla Bastille

  1. Io me lo ricordo bene l’Hoffmann scaligero di Vargas…non era certo un bel sentire, né un bel vedere (perché ce ne voleva di immaginazione a rappresentarsi l’antieroe romantico, il turbato e sognatore artista in cerca di ispirazione, con davanti la fisicità di Vargas). Certi ruoli devono anche corrispondere fisicamente ai cantanti. Il buon Ramon un tempo era un bravo interprete di certo Donizetti e Bellini), poi qualcosa è successo e nel cambio di repertorio si è – a mio giudizio – sballato….

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