Cronache dalla Ville Lumière: Lucia di Lammermoor alla Bastille

La ripresa di Lucia all’Opéra Bastille nell’allestimento di Serban, che ormai ha passato i quattro lustri, è stata all’insegna della routine, routine dalle tinte mediocri purtroppo, non aurea come sarebbe lecito aspettarsi da un teatro così importante. È noto, infatti, che la difficoltà maggiore dell’eseguire i titoli più noti del repertorio sta proprio nel sapersi elevare al di sopra della routine, tuttavia l’impresa non è facile e, anche in quest’occasione, le speranze sono state disattese.

La direzione di Riccardo Frizza, definito specialista di questo repertorio più per l’assidua frequentazione dello stesso che per il valore dei risultati, è stata piuttosto monotona, poco ispirata e tristemente povera di forza drammatica persino nei momenti più concitati (penso al finale del secondo atto, ad esempio). I primi due atti si sono trascinati pallidamente senza una reale cifra interpretativa, mentre nel terzo, fortunatamente, le cose sono leggermente migliorate. Saper tirare i remi in barca e limitarsi ad accompagnare cercando di non fare danni è semplicemente mestiere, mestiere che non valorizza la partitura donizettiana, una delle opere romantiche per eccellenza. Prestazione non certo straordinaria anche per il coro nonostante la frequenza del titolo. Mi taccio sui tagli operati, in pratica quelli della Lucia della Callas ma col finale secondo parzialmente riaperto… nel 2016 trovo profondamente urtante rappresentare così Donizetti.

Per il cast il discorso è più o meno lo stesso: c’è l’impegno, ci sono spesso anche le buone intenzioni, ma l’impressione resta di mediocrità e l’opera sembra una successione di momenti slegati e non memorabili. Dimenticabili Yu Shao (Normanno), Gemma Ni Bhriain (Alisa), Oleksiy Palchykov (Arturo) e anche l’ingolato Rafal Siwek (Raimondo) in difficoltà negli estremi del pentagramma, più a suo agio solo nel cantabile che precede la follia. L’Enrico di Arthur Rucinski canta male con una voce ingolata nei centri e nei gravi e regolarmente indietro negli acuti, seppur lanciati spavaldamente e a perdifiato in virtù della natura e della giovane età a palese – pessima – imitazione di Milnes. Il timbro non ha nulla di speciale, il legato e le sfumature non gli sono proprie, la voce non è particolarmente grande e ha poca punta, il cantante è nel suo elemento solo quando può spingere, forzare e non legare.

Trionfo di applausi e cronaca per Pretty Yende, stellina in grande ascesa negli ultimi tempi. I numerosi problemi di intonazione e difficoltà nell’andare a tempo (penso in particolare a “soffria nel pianto” in cui il direttore cercava disperatamente di starle dietro) ci sono stati, sebbene meno copiosi che in altre occasioni forse per l’arcinotorietà del titolo. Il timbro nei centri è gradevole e la voce abbastanza sonora nonostante si percepisca il tentativo della cantante di gonfiare questa parte della voce, nei gravi la voce è sorda. Per gli acuti, che si assottigliano rispetto ai centri, il discorso è più complesso: la Yende non li risolve correttamente ergo ne risultano almeno tre gravi difetti, cioè problemi sostanziali di intonazione nella zona di passaggio e acuti spesso calanti, note fisse se prese in piano o più dolcemente, vibrato stretto prossimo al belato se gli acuti sono presi in forte; particolarmente fastidiosa, inoltre, è la tendenza a portare le mani alle tempie per cercare di intonare meglio gli acuti. La cantante non è particolarmente fantasiosa ed è poco versata nelle dinamiche, ma si sforza di interpretare Lucia inserendosi nel solco della tradizione che vuole la protagonista come una fanciulla vittima predestinata e sempre un poco bamboleggiante. Come attrice la Yende si disimpegna bene anche in virtù di un bel fisico e, soprattutto, di un sorriso e un’attitudine gioiosa che ben dispongono gli spettatori. Il canto resta mediocre: se Regnava nel silenzio è stata forse il momento più riuscito, già la successiva cabaletta l’ha vista in ambasce, il duetto con Edgardo mancava di morbidezza e ha evidenziato qualche problema nella gestione dei fiati (inoltre la puntatura al mi era calante), il finale del secondo atto l’ha vista in modalità risparmio energetico, mentre la pazzia si è svolta senza pathos e virtuosismo trascendentale. La coloratura palesa molti limiti: è generalmente piuttosto faticosa, tranne in alcuni momenti in cui opta per una specie di glissando con le note appena accennate in stile macchinetta, i trilli sono scolastici e spesso più voluti che reali, i picchettati non sono facili, degli acuti si è già detto. Stanti così le cose, resta per me un mistero il successo sproporzionato che questa cantante di casa Sony sta conseguendo.

Il migliore della serata è stato il tenore Piero Pretti che qui ho ascoltato per la prima volta. La voce non è grande né particolarmente bella, ma abbastanza sicura su tutta la gamma, la dizione buona e anche l’accento che si rifà in modo piuttosto evidente agli Edgardo eleganti (stile Bergonzi per intenderci). La grande sala della Bastille, quantunque preveda degli “aiutini” per i cantanti, è troppo grande per questo Edgardo che, infatti, non prende il volo nelle scene d’insieme, ma nel finale quando è solo o quasi sul palco. In un teatro più piccolo e, magari, in ruoli meno scopertamente drammatici, categoria in cui Edgardo rientra nonostante l’alleggerimento continuo che si fa di questa parte, questo tenore può essere interessante. Il tenore per migliorare sensibilmente dovrebbe cercare un’emissione più leggera, meno muscolare, e uno squillo maggiore su tutta la gamma, ma coi tempi che corrono fa certamente la sua figura.

La regia di Seban piena di scale, passerelle e persino un’altalena mette sicuramente alla prova i cantanti costringendoli a cantare in posizioni non proprio comode, ma non aggiunge nulla alla storia di Lucia; la balaustra sopraelevata e semicircolare che abbraccia la scena su cui si avvicendano elementi che richiamano ora una palestra, ora un dormitorio, ora luoghi non ben precisati ma sempre provvisti di passerelle mobili non evoca certamente il fascino romantico dell’opera, non disturba troppo la vista, ma è ben lungi dal convincere.

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