Maria Stuarda al Carlo Felice di Genova

roberto-celso-albelo-maria-stuarda-elena-mosucContinuano ininterrottamente le produzioni seriali dei teatri italiani: l’uno copia l’altro, come se limiti di fantasia e cultura fossero divenute la sola prerogativa dei nostri direttori artistici.

Dopo i Don Carlo a pioggia, ecco Maria Stuarda al Carlo Felice seguire da vicino quella appena proposta dall’Opera di Roma. La produzione genovese chiude la ben conosciuta trilogia Tudor donizettiana, ormai vista, rivista e stravista anche se raramente  ascoltata negli anni recenti, coprodotta dai teatri di Parma e Genova. Ci si rammarica dell’assenza del pubblico che ha disertato la prima, ma è sempre più evidente lo spegnersi dell’interesse, quello profondo, per la lirica, cui le scelte delle direzioni artistiche tragicamente concorrono. Mancano i mezzi economici, i cantanti ed i direttori, si sa, ma anche la sensatezza  delle  proposte. Siamo al capolinea di un’arte rimasta vitale fin tanto che la produzione di cantanti, grandi e medi, era attiva: svuotata del suo componente chiave, il canto, il genere opera, contaminato da ogni forma artistica o di spettacolo o cretineria che vi si sia volluta iniettare a forza, si va esaurendo nella malinconica vista delle sale semivuote.

Questa Maria Stuarda, del resto, costituiva fin dal suo nascere l’ennesima proposta inutile e velleitaria dell‘attività teatrale corrente, affogata nella routine più routine: titolo molto ambizioso appena esaurito da Mariella Devia, ultima cantante capace che vi abbia messo mano in modo lucido e professionale, e della cui riproposta non si sentiva alcun bisogno. La Trilogia ligure – emiliana, scritturata dapprima la diva ormai senescente per un Devereux modestissimo, è proseguita con la Bolena affidata ad una cantante del tutto provinciale per le recite parmigiane, concludendosi ora con la terza puntata di Stuarda, incardinata su una professionista di lungo corso, anni fa solida, ma ora davvero anche lei a fine carriera.

Esaurita da un repertorio vastissimo e da scelte recenti troppo drammatiche e superiori alle proprie forze vocali, Elena Mosuc (pur sempre superiore alla pigolante e vetrosa Desiree Rancatore anch’essa vocalmente pensionabile) non è certo una cantante in grado di metterci “un tocco” personale, come era sapeva fare Mariella Devia, sempre impeccabile. Per Elena Mosuc il tempo è fuggito da anni (ricordo l’imbarazzante Micaela scaligera, quando si trovò a lottare con frasi per lei elementari,  tanto era importante  il suo stato di declino vocale…) e non essendo mai stata una fraseggiatrice in grado di tiran fuori dal cilindro la frase ben detta o il guizzo pirotecnico della grande virtuosa, rimane cantante dalla voce malferma e dall’intonazione precaria, oltre che priva di qualsiasi allure scenico espressivo.

E cosa resta, dunque, ad Elena Mosuc per essere Maria Stuarda? Cosa esce dalla sua prova di diverso da una creatura pigolante e stonacchiata, che vesta abusivamente i panni della tragica regina spodestata che va al patibolo in odore di santità? Cosa ha potuto farci sentire della regina cattolica reinventata dal filtro ottocentesco del verismile (e non del vero storico), del suo lato o statuario, aulico e nobilie, insomma, di una delle più teatrali tra le invenzioni di Schiller? Nulla.

Silvia Tro Santafè anche lei pareva vestire abusivamente i panni della gigantesca Elisabetta I, complice il creativo Falaschi, che non ha commisurato a dovere il suo estro al portamento ed alla reale scenicità della cantante. La signora Tro Santafè forse ha cantato un filo meglio di Elena Mosuc, ma il suo timbro chioccio, l’emissione tutta schiacciata e spinta, la scarsa penetrazione in acuto ha reso la sua Elisabetta volgare e plebea. Lo scontro tra le due regine, teatralissima invenzione romantica che il pubblico sempre attende con curiosità, pareva un combattimento da aja: nessuna incisività, molti strilli e tanta polvere. Un disastro di provincialità e inadeguatezza.

Se l’è cavata meglio Celso Albelo, imprigionato nel suo ricercatissimo vestito, che gli ha solo tolto aplomb scenico, conferendo una vena ridicola al suo personaggio, inutile e controproducente. Poco importa se un costumista vuol dare prova di conoscenza della storia del costume, soprattutto se si tratta di una scelta inusuale e rara, che il pubblico non percepisce come tale bensi come ammiccamento al travestitismo della Gran Scena Opera Company. Albelo regge la tessitura di contraltino con buona voce, pur non mancando di spingere. Gli manca sempre, però, il bel porgere la frase, quel saper mettere “il dire” mentre canta, ed è un peccato, perché la voce è bella e molto adatta a questi ruoli. Complice di questo cantare talora anche meccanico del cast è stata, però la bacchetta del signor Yurkevych, che ha battuto con pesantezza e monotonia il tempo. Nessuna ispirazione, nessun clima, nessun afflato, nessun respiro dato al canto, nessuna idea. E i cantanti schiacciati dentro il suo ritmo. Completava il cast il signor Concetti come Talbot, pessimo.

Della produzione, diciamo che riutilizzava molto delle due precedenti e poteva anche scorrere senza problemi (e senza idee…ma poco male..), non fosse per gli eccessi di Falaschi che non hanno reso buon gioco ai cantanti, i colori accesi pacchiani e troppo insistiti. Il fine è mandare in scena i cantanti in modo che abbiano l’aiuto necessario, anche e soprattutto dal costume.

Continua il Carlo Felice di Genova a calendarizzare opere che richiedono supercantanti senza averne a disposizione. Ispirato alla più cruda svendita dell’opera lirica, “tutti per tutto e tutto per tutti” pare lo slogan di questa direzione artistica che mette sul piatto nuove produzioni inutili e da archiviare presto.

Ma tanto paga pantalone, ed è tutta colpa del pubblico che non capisce.

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2 pensieri su “Maria Stuarda al Carlo Felice di Genova

  1. assistito alla penultima domenica 21 maggio
    Ad un certo punto ci siamo letteralmente abbandonati al riso … una Maria Stuarda improponibile …
    fiati corti , non un legato note prese al ‘volo’ dopo aver
    prima riempito ben ben i polmoni …dall ultima fila di platea si percepiva ottimamente la presa di fiato !
    Un ferro vecchio e usurato un ‘cigolio’ continuo di note
    sparate…
    Direzione indegna: un cagnolino che seguiva la ‘diva’
    nel tentativo di non farle perdere il filo…. di cosa poi è mistero.
    Abbiamo anche ascoltato un coro dal ‘nabucco’
    tempi letargici e che nulla avevano di Donizettiano.
    Quanto al resto del cast Elisabetta al confronto era
    più che degna quantomeno ha cantato senza sbavature di sorta utilizzando il proprio mezzo vocale
    con cura.
    Quanto al tenore boh ! si ha fatto i Suoi acuti ma noia
    infinita. e poi quando manca la prima donna e come sperare di mangiare il fagiano ripieno mentre di hanno servito un pollo allo spiedo !
    Drammaturgia sparita, di per se lo spettacolo ci poteva anche stare, sperando che la prossima produzione non sia un’ennesima fotocopia …e che certe trovate vengano prontamente rimesse nei cassetti e dimenticate li
    Il solito teatro nel teatro che ci ha ‘smaronato’ i gingilli .

    Condivido il giudizio di merito : declino declinante …
    nella speranza di portare un po’ di pubblico a teatro le sparano grosse con i risultati di cui sopra anche se un po’ di applausi e una certa claque ha tributato un caloroso (scandaloso?) successo .

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