L’Enigma della Boninsegna. Seconda parte

boninsegna_elenaQuando suonai il campanello dell’appartamento dell’ampia Via Melzi d’Eril, la porta si aprì e apparve una donna alta, dalle ampie forme, in un vestito nero sbiadito e dai capelli grigi e trascurati. Indubbiamente la cuoca, pensai mentre chiesi “E’ in casa la signora Boninsegna?” “Ma sono io la Boninsegna.” rispose, e i cordiali occhi marroni apparvero per un momento sconcertati. Con toccante cordialità mi introdusse nel salone, con il suo pesante arredamento dorato, carta da parati fin de siècle e orrendi vasi di porcellana cinese disposti in modo disordinato. Mentre sedevo notai un tremendo ritratto della diva a figura intera, in una cornice che ricordava dei bigné dorati, appeso in un angolo.
Le dissi immediatamente delle etichette, e rispose che avrebbe fatto ciò che poteva. Era affascinata dal fatto che fossi arrivato dall’America e mi raccontò dei suoi successi transatlantici. D’un tratto si piegò in avanti vivamente e mi chiese “La Eames – è morta?” (in italiano nel testo). Risposi che M.me Eames era piuttosto viva. “Capisco”, disse in modo riflessivo. E aggiunse “Erano tutte gelose di me in America – la Sembrich, la Nordica, la Eames e in particolare la Destinn”. Pensai al Covent Garden.
“Quando feci il mio debutto in Aida al Metropolitan”, continuò, “cantai con Caruso. Caruso era abituato a dominare i suoi partner soprano, così feci una scommessa con un amico che con con me non ce l’avrebbe fatta. C’è un Si bemolle tenuto e un La nel nostro duetto nella scena del Nilo. Quando arrivai a quel punto, mi riempii di fiato e feci un Si bemolle grande quanto una casa – una cannonata! (in italiano nel testo) – e Caruso dovette smettere prima che lo facessi io. La volta successiva il mio Radames era Dippel”. Sembrava estasiata. “Anche Dippel fu sostituito quando cantai Cavalleria a Philadelphia.” E rise in modo fragoroso. “Ma queste gelosie – ah Dio! Non ho mai avuto il carattere per reagire.”
“Quando cantati alla Scala, divenni conosciuta in tutta Milano come Aida; le persone che mi incontravano in Galleria mi chiamavano Aida”. Le chiesi se andasse mai all’opera al giorno d’oggi. “Si, un amico mi ha portato lo scorso anno alla Scala. [Giannina] Arangi-Lombardi era Aida, ed era così scarsa che sono dovuta andare via”. (Dove l’ho già sentito dire?, meditai).
Iniziando a piacerle l’argomento disse “Nessun soprano oggi emette la voce nel modo giusto. E così oggi abbiamo la Arangi-Lombardi, [Tina] Poli-Randaccio, [Bianca] Scacciati e [Rosetta] Pampanini. La Pampanini ha tre voci; così pure la Randaccio.” (E’ molto vicina a casa, pensai, ricordando la rottura fra i registri della mia diva stessa.) “Gina Cigna risalta oggi perché non c’è nessuno che possa competere con lei.”
Disse che ora viveva nel passato; che lei, Luisa Tetrazzini e Rosina Storchio si incontravano frequentemente di sera. “Ricordo quegli autunni del 1907 e 1908, quando Maria Galvany e io andammo a Parigi a incidere dischi per la Pathé. Come soprano di coloratura la trovavo perfetta. Non ho più cantato in pubblico dal 1923; ma, ovviamente, ho i miei allievi.”
Mi chiese se avessi mai cantato. A quel tempo cercavo ancora di avere una modesta carriera, e le dissi che una volta avevo osato cantare Radames ad Atlantic City. In quel momento entrò la sua pianista, una donna piccola e rugosa, con occhiali a stringinaso. “Canti qualcosa per me”, disse la Boninsegna, passandomi uno spartito di Tosca. Con il cuore in bocca – bocca che non avevo aperto per cantare da diversi mesi – cantai “Recondita armonia,” “Bravo!” esclamò, leccandosi il pollice e l’indice e sfogliando fino alle pagine dell’entrata di Tosca. “Adesso dobbiamo cantare il duetto.” (Può essere vero tutto ciò?, pensai).
Alla prima frase di Tosca, “Mario! Mario!”, mi resi conto che la grande voce era ancora in ottime condizioni, sicura come una roccia e sonora. Le note gravi, di vitalità baritonale, facevano tremare le decorazioni dorate della stanza; le note acute erano entusiasmanti esattamente come le ricordavo nei dischi; suonava tutto giusto e senza sforzo. L’unico punto che faceva pensare ai suoi sessant’anni era una forzatura nel registro centrale, che mancava di rotondità (forse per abuso del registro di petto?).
Miope in modo evidente, la Boninsegna si abbassava sullo spartito di tanto in tanto; la sua musicalità era tutto fuorché precisa. Quando arrivammo al suo “Ma falle gl’occhi neri,” si girò verso di me : “Ora rifacciamolo tutto daccapo”. Così facemmo, e questa volta venne incommensurabilmente meglio. Non c’era dubbio che si stesse divertendo, in modo disarmante e disinvolto. Quanto a me, sentii che stavo sognando e che potevo svegliarmi, ricordando la mia giovane infatuazione per i suoi dischi.
Ma la Boninsegna non aveva ancora finito. “Ho ancora il mio Do”, gioì, e la stanza risuonò di vibrazioni cristalline. “E le mie note basse – queste erano la mia gloria! (in italiano nel testo)”. E con la frase di Amneris “Figlia de’ Faraoni” fece meglio di Titta Ruffo. “Ecco!” esclamò, e si sedette. La pianista ci portò del caffè in piccole tazzine dorate e la Boninsegna disse di essere pronta a firmare le etichette.
Mentre ripercorrevo all’indietro Via Melzi d’Eril, la gentilezza e il candore di questa grande donna mi colpirono. Molte delle ragioni per una carriera sbalorditiva e controversa ora apparivano in modo molto chiaro.

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