Tamerlano: prolegomena alla recita.

FriedrichChrysanderEmilBieberNei giorni in cui la Scala celebra, con la provinciale miseria di cui ha riferito Donzelli, la memoria di Maria Callas, i giornali, da sempre in prima linea nel celebrare le magnifiche sorti e progressive del teatro milanese, officiano con eguale modestia (rilevata, per una volta, anche da alcuni addetti ai lavori) l’approdo nel supposto tempio della lirica del Tamerlano, dramma per musica di Georg Friedrich Haendel. Naturalmente i peana non sono rivolti principalmente al titolo, peraltro già proposto in tempi non certo remoti al Regio di Torino e alla Pergola di Firenze (sala, quest’ultima, infinitamente più adeguata a questo repertorio rispetto a quella ambrosiana), bensì ai responsabili dell’allestimento e, per la proprietà transitiva, alla regnante sovrintendenza, che li ha assoldati. Va notato peraltro, in tema di politiche di “riforma” culturale, come Haendel abbia rimpiazzato, presso la gestione corrente, l’autore da promuovere a ogni costo, caro alla sovrintendenza precedente, ovvero Janacek. Sappiamo bene i frutti dell’integrale Janacek a suo tempo propagandata da dirigenza e giornali (la programmazione, nelle ultime stagioni post Lissner e nell’annunciata 2017/2018, parla chiaro) e ci auguriamo che Haedel non debba patire analoga sorte. Sulla qualità dell’attuale proposta scaligera preferiamo, pur avendo ascoltato la diretta radiofonica, attendere la prova teatrale, onde esprimere un giudizio non viziato dal supporto tecnologico, anche se dubitiamo che la qualità sonora di solisti ed ensemble scaligero possa essere significativamente peggiorata dalle tecniche di registrazione di mamma Rai, che inducono a rimpiangere quelle della radio berlinese sotto i bombardamenti alleati. Ma alcune imprecisioni, per non dire scempiaggini e asinerie, sciorinate vuoi dal direttore Fasolis durante gli intervalli della serata radiofonica, vuoi dalla stampa di cui sopra, vanno riferite, non per amore di polemica, ma perché fungano da spunto di riflessione per lettori e ascoltatori sempre più consapevoli del proprio cruciale ruolo. La più notevole è che, in presenza di un titolo più volte rimaneggiato dall’autore e privo, perciò, di un assetto definitivo e definibile, sia lecito, giusto e opportuno intervenire con alterazioni e inserimenti arbitrari, come l’innesto di un’aria proveniente da altra opera (“Amadigi di Gaula”) al posto di un numero previsto in partitura e l’aggiunta di strumenti concertanti in una delle arie di Bajazet. Il ragionamento ovviamente non tiene, non fosse che per il fatto che, in effetti, sappiamo perfettamente quale fosse l’assetto voluto dal compositore per la prima assoluta dell’opera e le modifiche (tra cui l’inserimento di brani composti ad hoc) per le riprese del titolo nelle stagioni successive. E siccome la scoperta risale a Friedrich Chrysander, che nel 1876 curò, nell’ambito di un’ambiziosa integrale haendeliana, la pubblicazione della partitura a partire dal manoscritto utilizzato dallo stesso compositore per dirigere l’opera, trovo infinitamente più onesto, sotto il profilo intellettuale, quello che fa John Eliot Gardiner nella presentazione della propria incisione di Tamerlano (disco Erato 1986), ovvero rendere conto delle proprie scelte in materia di tagli, versioni alternative di un medesimo brano alla luce di una valutazione (soggettiva, ma lucidamente argomentata) dell’effetto drammatico delle soluzioni adottate, piuttosto che rifugiarsi in una deliberata e opaca “vaghezza” per giustificare ogni sorta di arbitrio, anche il più insensato (l’inserimento di un assolo di tromba nel brano di un’opera, nel cui organico questo strumento non è previsto, in forza del fatto che viene aggiunta all’opera un’aria, da altro titolo, che prevede un assolo di tromba). Tutto questo è nulla, però, di fronte alla scienza di giornalisti, supposti critici e assidui frequentatori dei più prestigiosi teatri d’opera (bigliettati a spese dei contribuenti), che affermano che con questo Tamerlano arriverebbero alla Scala le voci bianche, che sarebbero quelle dei falsettisti. Peccato che le voci bianche siano quelle dei bambini che non hanno ancora subito la muta della voce (o dei maschi adulti, che siano stati castrati prima di raggiungere quella fase dello sviluppo naturale), non certo quelle di adulti che cantano (e tralasciamo come) in falsetto. A questi insigni conoscitori del repertorio barocco (ma forse, a giudicare dal repertorio delle loro pubblicazioni, dello scibile umano), dedico volentieri le voci che seguono, quelle di grandi cantanti che furono, nella loro infanzia, pueri cantores, vuoi nel seno della Chiesa cattolica, vuoi in altre organizzazioni religiose.

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