Ripasso di fondamenti: Norma di Maria Callas.

Norma Callas LondonSembra paradossale dover cercare di giustificare il perché la Norma di Maria Callas sia un’interpretazione storica, dato che per almeno 60 anni è stata una tappa necessaria ed obbligatoria di chiunque si volesse affacciare al mondo dell’Opera, in quanto esempio di interpretazione completa dove voce, maestria tecnica, fraseggio sono in perfetta armonia e connubio. Maria Callas è stata Norma la prima volta il 30 Novembre 1948 a Firenze, sotto la guida di Tullio Serafin, interpretando poi il ruolo ininterrottamente per 10 anni, praticamente in quasi tutti i più grandi teatri del mondo e in celebri tournée sudamericane, per poi riprenderlo nel 1960 nel Teatro Greco di Epidauro e in studio e, infine, nel 1964 e 1965 a Parigi. Norma è con molta probabilità il ruolo con cui la Callas è più identificata, pur in un’ampia schiera di ruoli rimasti nel Mito, e fra i ruoli più documentati dal disco, annoverando svariati live fra il 1950 e il 1965 e due incisioni ufficiali per la EMI, la prima nel 1954 e la seconda nel 1960, entrambe dirette appunto da Tullio Serafin, che preparò la Callas al debutto nel ruolo e che la stessa Callas ha più volte indicato come uno degli incontri principali della propria carriera, soprattutto dal punto di vista della preparazione artistica. Qui varrebbe la pena aprire una piccola parentesi sul Maestro di Cavarzere, di cui in questi giorni vengono celebrati i 50 anni dalla morte, per dire quanto sia stato influente e importante per la Callas l’incontro con un Maestro del calibro di Serafin, che aveva diretto Norma in passato, fra le altre, con Eugenia Burzio, Giannina Russ, Rosa Ponselle e Claudia Muzio, capace di preparare una cantante in modo da rendere storica un’interpretazione già al proprio debutto, cosa possibile anche grazie alla grande cultura del Maestro Serafin e alla capacità di conoscere e preparare la voce.
Si può discutere su quale performance sia migliore, dove maggiormente la cantante e l’interprete si siano equivalse, ma quasi tutte le testimonianze sonore ritraggono una Callas sempre con dei profili di eccezionalità, anche quando la cantante deve fare i conti con condizioni non proprio ideali in relazione alle esigenze dello spartito, come accade nelle ultime performance, dove rimane sempre in grado di non tradire mai le esigenze drammatiche e vocali della parte, fedele allo spartito e al personaggio. La recente pubblicazione da parte della Warner di un cofanetto con svariate riprese live della Callas, in edizioni rimasterizzate, ha riportato l’attenzione sulla mitica Norma del Covent Garden 1952, dove insieme alla Callas troviamo l’Adalgisa di Ebe Stignani e la bacchetta di Vittorio Gui, oltre che una giovanissima Joan Sutherland nei panni di Clotilde, in una serie di recite rimaste nel Mito più assoluto, in cui il duo Callas-Stignani dovette anche bissare la prima cabaletta alla sera della prima. Probabilmente, dovendo scegliere, questa potrebbe essere una delle recite perfette, per grandezza interpretativa, per fraseggio e per l’incredibile maestria vocale, con il valore aggiunto di Ebe Stignani, l’Adalgisa dalla voce più sontuosa che si possa ascoltare nella storia della discografia di Norma, assieme a cui la Callas offre l’esecuzione più completa e precisa dei due duetti Norma-Adalgisa. E’, infatti, difficile eguagliare la perfezione di emissione di entrambe, l’espressività del loro canto, che dal canto parte, e la precisione in entrambe del canto di agilità, su voci importanti. Un duo irripetibile, che impressiona ancora di più oggi. Se dovessimo esemplificare la grandezza di questa interpretazione potremmo senz’altro dire che l’eccezionalità della Norma della Callas risiede appunto in questo, nell’equilibrio tra le varie esigenze vocali ed interpretative del personaggio, perché Norma non è solo “Ah bello a me ritorna” e non è solo “In mia man alfin tu sei”, ma la commistione fra il genere tragico, elegiaco, il canto di agilità e il canto declamato, nel pieno rispetto di ogni momento drammatico di un grande personaggio creato e pensato per una grandissima cantante e che secondo questi stilemi dovrebbe essere affrontato.

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31 pensieri su “Ripasso di fondamenti: Norma di Maria Callas.

  1. tecnica, tecnica, tecnica. La sua Norma passa attraverso una rivoluzione tecnica che ancora oggi lascia stupefatti, resta ineguagliata, e ci fa constatare che senza questa “camicia di forza”, come la chiamava lei, si va poco lontano, o perlomeno non si raggiunge quel “che”, che non è la perfezione, ma almeno è l’indicazione della giusta strada di come avrebbe dovuto essere cantata, come scrisse mi pare Zurletti recensendo una sua Casta Diva appunto non perfetta. Incanalare una voce ampia nel giusto focus adottato anche dai coloratura, e diminuire e rinforzare all’infinito toccando tutte le intensità richieste dai vari momenti della parte (che sono molti, visto che sta quasi sempre in scena): lo fa già nelle prime esecuzioni, ottenute a prezzo di grandi sforzi, di estenuanti prove per ottenere il giusto colore e la giusta pronuncia, ma lo fa soprattutto nell’incisione Cetra del ’49 dell’aria con cabaletta, non a caso affiancata a Puritani e a Wagner: la lezione è già completa, la tecnica è la stessa per tutte, lo stile sempre diverso. Si dice che Siciliani le propose Norma dopo una audizione in cui alle arie da drammatico fece seguire Puritani, appunto, ma è probabile che lei stessa avesse intuito che in quel ruolo c’era la migliore possibilità di mostrare a tutti “come si deve cantare l’opera”. Celletti scrisse giustamente che riusciva ad essere drammatica anche nel mezzoforte, ma anche questa, è una mèta tecnica che alla Sutherland non è riuscita così bene (considerando che la luminosità naturale dell’australiana era più adatta al Settecento, mentre il timbro naturalmente tenebroso della Callas incontrava anche il gradimento degli italiani più “illuminati” da letture protoromantiche; non a caso, la Sutherland continua a piacere moltissimo agli inglesi). Sul piano psicologico, l’approccio era molto più semplice di quanto uno possa pensare, e ancora una volta la Callas ci dimostra che quando si sa immascherare, appoggiare sul fiato ed eseguire bene la musica, non importa elucubrare chissà quali soluzioni personali. La Radvanovsky ad esempio nel finale si intenerisce anche per Pollione, ma non è necessario, e soprattutto è sbagliato nei confronti del libretto e della progressione musicale di quella che è una “tragedia lirica”. Norma muore sola e senza speranza, la vera tragedia è lì. Ha un pensiero solo per i figli, che rivolge al padre dal quale vuole semmai il perdono; ma per quanto riguarda l’ex-amante, i giochi erano già stati fatti nel corso dell’opera, gli aveva già offerto delle possibilità, delle speranze, ma niente da fare, nel duetto finale, che inizia con un motivo di disperata rassegnazione, lui fa l’eroe, e lei non ha più pietà per nessuno, e si immola. Scegliere un lirismo di stampo pucciniano per chiudere, è sbagliato proprio storicamente. In ogni modo, la Callas continua con lo scavo tecnico attraverso esecuzioni e incisioni, anche in quella del 1960 affina ancora di più uno strumento esausto e continua a dare una lezione di canto, che altro non è che piegare la propria voce alle esigenze del ruolo, inventare dei colori (ad esempio un colore “lunare” per Casta Diva ed uno materno per Teneri figli) che ben si adattino al tessuto orchestrale e alla situazione del libretto. Che poi un acuto le venga meno bene nel 56 o un pianissimo rischi di spezzarsi nel 58, quelli sono i rischi del mestiere, appunto!

  2. Buongiorno,
    mi chiamo Gabriele e studio direzione d’orchestra. Seguo regolarmente il sito ma è la prima volta che intervengo.
    Mi scuso in anticipo se non è il post adatto per questa domanda, ma vi chiedo: viste le premesse esposte nei vostri articoli, l’opera è destinata ad “estinguersi” in quanto forma d’arte? Il cosidetto “mercato dell’arte” non potrà che incitare tale declino?
    Vi ringrazio in anticipo per l’attenzione.
    Un saluto.
    Gabriele

      • Mi permetto una risposta un pò ironica e un pò seria, parafrasando per certi versi Marietta Alboni quando scriveva nel 1881 “L’Arte del canto se ne va e tornerà solo con l’autentica musica dell’avvenire, quella di Rossini”, precisando che personalmente ritengo che l’Opera possa avere un futuro solo se si recuperano buone abitudini di studio, preparazione, gusto estetico e musicale, e il lavoro serio, che era poi ciò che una stessa Callas indicava come l’unica via, lavorare e studiare tanto e bene. Finché la critica elogerà teatri e musicisti per partito preso e finché vigerà il principio che quello che si vede oggi è bello per definizione e che tutti sono bravi (purché della cerchia giusta) l’Opera come genere sarà comunque perso, perché avremo perso i fondamenti e la sua stessa natura. Disprezzando e negando i modelli del passato si arriva all’analfabetismo musicale e critico, come se si preferissero, ritenendoli superiori, Fabio Volo e Federico Moccia a Manzoni.

        • Hai perfettamente ragione (tu, non la Alboni…ahahahah): il punto è proprio questo, ossia la mancanza di lavoro e studio che tanto si trionfa lo stesso perché nessuno si accorge che si canta male, si stona, non si va a tempo. Finché l’opera sarà ostaggio dei fan club di Facebook o di certe trasmissioni radio che buttano tutto in burletta o del giro dei soliti critici chi mai si metterà a lavorar sodo?

  3. Ciao Gabriele: non credo che l’opera sia una forma d’arte estinta, semplicemente – come tutto – si trasforma e si aggiorna nel suo parlare alla contemporaneità e nel suo esserci nelle storia. Non credo esistano decadenze eterne (per cui c’è sempre un’età dell’oro da rimpiangere e che ogni epoca a rimpianto nella precedente) e restaurazioni immaginarie: anche perché se è vero – e non lo è – che la parabola discende dai primi ‘900 mi chiedo cosa vi sia di sbagliato o decadente nel canto della Callas (anzi è vero il contrario ad ascoltare alcune orribili interpretazioni del trapassato, ché non era tutto una meraviglia). Neppure credo che la riproducibilità tecnica o la commercializzazione del disco abbiano influito più di tanto: sarebbe come lamentarsi dell’esistenza e della vendita dei libri che avrebbero “rovinato” la tradizione orale… La crisi dell’opera – e solo dell’opera, perché altre forme musicali colte vivono benissimo e prosperano – risiede in altro secondo me: innanzitutto nell’apprendimento e nella preparazione tecnica che ha il suo speculare nell’incapacità del pubblico di rilevare i difetti. Oggi capita spesso di ascoltare problemi di intonazione, incapacità di andare a tempo, per tacere di carenze interpretative…il tutto accompagnato da atteggiamenti cialtroneschi di cantanti che passano maggior tempo a coltivare l’orto dei propri fan su FB e internet che a studiare. L’opera non è morta e non morirà di certo: purtroppo è invasa da approssimazione e ignoranza sia nei cantanti che nel loro pubblico. L’incapacità di discernimento, l’impreparazione musicale, la pigrizia intellettuale, l’entusiasmo immotivato, la trasformazione del genere in fenomeno folkloristico…tutto questo genera la crisi evidente oggi. Oggi che le stagioni sono tutte uguali ed il repertorio sempre più ristretto (in cui anche un Rosenkavalier diventa opera “difficile” e che – come già anticipato – vedrà per anni alla prima scaligera solo opere italiane strapopolari); oggi che dive e divi si permettono di intervenire in fanclub virtuali prendendosela con chi legittimamente li critica ed aizzando i propri catecumeni a scagliarsi contro chi osa mettere in dubbio la santità della diva di turno. Oggi che il pubblico non riesce più a capire cos’è una stonatura ed applaude a tutto perché tanto gli importa solo farsi un selfie col proprio cantante o il sipario della Scala da caricare su FB.

    • Concordo, però é anche vero che in genere la capacità tecnica é drasticamente calata e cmq il pubblico é meno cialtrone di quello che si pensa perché quando si esibisce una pratt lo si sente un entusiasmo migliore rispetto a una peretiatko. I vecchi dischi a volte testimoniano un modo di interpretare che a volte può essere strano al sentire moderno e mi riferisco ovviamente alla parte più manierista ma comunque le capacità tecniche che siano andate a scendere come dice madame grisi e un giochino che può fare chinque anche dagli anni 80 in poi senza scomodare una terrazzini o ponselle.

    • Le possibilità tecniche sono le stesse: non c’è stata nessuna mutazione genetica nella fisiologia delle persone. E’ semplicemente una questione di impreparazione dovuta soprattutto alla disponibilità del pubblico ad accettare di tutto perché di tutto ignorante: il pubblico dell’opera è composto all’80% di piccoli fan ignoranti che neppure si accorge se un cantante è stonato, se l’orchestra è fuori tempo, se ci sono dei tagli… E’ un pubblico superficiale che dell’opera ammira solo i lustrini e la versione 2.0 del divismo: quello che passa da FB. E lo fa con Peretyatko e con la Pratt nello stesso modo. Si fanno i selfie coi loro idoli e ne descrivono le iperboli perché gli basta un acuto o un picchettato per farli sbrodolare…non si pongono alcuna questione di coerenza musicale. Vanno all’opera come le ragazzine sceme andavano ai concerti dei Take That. Purtroppo la crisi dell’opera è questa: da qui si genere il resto. Un cantante non avrà alcun interesse a prepararsi sapendo di godere di un esercito di fan che lo segue e lo appoggia sempre o di una schiera di pretoriani sguinzagliata su internet a gestire il consenso. Il passato ha le sue ombre e certe cose facevano schifo anche allora, ma il pubblico era diverso e se un teatro avesse messo in scena una Bolena come l’ultima scaligera – faccio un esempio – non sarebbe terminata la serata. Poi c’è sempre una componente di rimpianto che abbiamo tutti e che tende a far risplendere sempre il passato, anche se non sempre è immacolato, ma il punto non è questo. Il discrimine è il pubblico: da quando i social network si sono diffusi c’è stata una gara al ribasso di qualità e consapevolezza. Questa è la vera decadenza: più avvertibile nell’opera rispetto ad altre forme d’arte perché c’è un pubblico più pittoresco.

    • Però bisogna ammettere che l’Opera è estinta come espressione artistica, praticamente dalla fine del ‘900. E’ un fatto naturale e mi piace ricordare a tal proposito una risposta ad una domanda simile del maestro Sinopoli durante una conferenza alla Scala prima della rappresentazione di una sua Frau ohne Schatten di una ventina di anni fa, il quale pescando dalle sue competenze di archeologo disse che così come ad un certo punto della storia i greci smisero di ceare meravigiosi vasi su fondo nero dipinti di rosso producendo da una certa epoca in poi solo vasi totalmente neri, lo stesso a suo avviso era accaduto per l’opera lirica e per la musica classica in generale. Resta la rappresentazione delle opere passate ma a poco a poco con il deterioramento del contesto culturale e in mancanza di un flusso di creazione artistico vivo è invetibale che decada la qualità degli interpreti e del pubblico e si smarrisca il senso stesso di queste opere. Probabilmente fra 100 nei teatri l’opera non esisterà più e la musica classica sarà altro (non oso immaginare cosa).

      • Questo però è un altro discorso. Sinopoli può dire quel che vuole, ma di musica e di opere se ne scriveranno sempre. Certo il linguaggio muta. L’opera non è il melodramma: oggi è un linguaggio superato e inattuale (parlo della scrittura) e solo maldestri reazionari scrivono opere liriche come avrebbe potuto scriverne Puccini o Mascagni fingendo che Berg, Schönberg, Henze, Stockhausen non fossero mai esistiti… Ogni epoca ha la sua scrittura e la funzione del teatro d’opera non è più la stessa che aveva a metà ‘800. Però questi discorsi sulla morte della musica si sentono dal ‘600 quando Artusi profetizzava la fine imminente del canto per colpa di un pericoloso corruttore del gusto e musicalmente analfabeta di nome Claudio Monteverdi… Poi la storia ha fatto il suo corso, con buona pace di Artusi.

        • Sicuramente la musica non morirà mai, non è questo il senso della citazione di Sinopoli (poi cosa pensasse realmente non lo so, ho solo riportato un ricordo che mi aveva colpito, e poi mi pare che si riferisse allla composizione, lui ex compositore di musica contemporanea, non all’esecuzione). Forse voleva dire che è morta (o è profondamente cambiata) un certo tipo di musica e la sua funzione sociale che è durata e abbiamo conosciuto per circa 2 secoli, e a giudicare dal panorama della musica contemporanea non credo che si sbagliasse. Però, rimanendo al melodramma, oggi andare all’opera equivale andare in un museo o ad ascoltare un poema in latino e man mano che ci allontaniamo dall’epoca della composizione è sempre più difficile avere i mezzi per una corretta esecuzione e comprensione e questo si riflette invetabilmente sulla qualità in confronto con il passato. Credo sia un discorso molto complesso che va al di sopra delle mie possibilità, ma era questo per me il senso della frase “l’opera è estinta”

          • Non so cosa si sia “estinto”, però l’esecuzione operistica oggi è molto diversa da quella di metà ‘800: l’opera come genere musicale è vivo – si scrivono ancora opere, così come si scrivono sonate, sinfonie o cantate – ma ovviamente è mutata la funzione. Nel secolo XIX i teatri presentavano nuove opere in misura prevalente: era un mestiere, un lavoro, un business. Oggi non è più così. Il melodramma è morto con la Turandot – si dice – ma l’opera è andata avanti con lavori importantissimi. Non ci vedo nessun dramma: del resto oggi c’è la TV e il cinema, nell’800 non esistevano questi intrattenimenti. Poi che c’è di male nel fatto che andare all’opera sia come entrare in un museo? I musei non sono polverosi né noiosi, lo diventano se mal gestiti e se incapaci di parlare alla contemporaneità. Un museo è anche conservazione e preservazione. E’ cura e amore per l’arte. Ecco oggi vedo poca cura, poco interesse o, meglio, interesse superficiale. Ma non deriva dal fatto che ci stiamo allontanando dall’epoca compositiva: ciascun repertorio ci parla in corsi e ricorsi…fino a 60 anni fa il verismo e dintorni era un linguaggio che ci coinvolgeva, oggi molto meno – e infatti si assiste ad una vera e propria invasione di musica barocca – magari tra 10 anni ci parlerà di più altro genere (da qualche tempo si assiste ad un rinnovato interesse per il grand-opera). Certo a volte si ha la sensazione che l’Italia voglia rimanere isolata e lontana. Per paure e forse incapacità.

  4. Buonasera,
    e innanzitutto grazie per le risposte.
    Rispondo, con una domanda, alla signora Grisi: quindi secondo lei aveva ragione Celletti che sosteneva, se non sbaglio, che una certa decadenza della vocalità ha origine con la scomparsa dei castrati?
    La mia preoccupazione, però, riguarda quella che è la tendenza generale del mondo musicale. D’accordissimo con lei sig. Duprez che nel passato non era tutto azzeccatissimo (penso ad un mostro sacro quale Kleiber che, a mio modestissimo parere, non capisse molto di voci viste le scelte fatte per le sue opere) ma mi sembra che ormai il mercato sia colonizzato solo da carriere costruite e non rimangano nicchie per chi voglia proporre qualcosa di meno allineato al gusto imperante. Per esempio sopra si citava la Pratt: secondo voi è già stata “inglobata” nel sistema?

    • Non so Gabriele, ma né tu né nessun altro ha mai sentito i castrati o i cantanti dell’800 quindi, mi pare, che tutti questi discorsi sulla decadenza siano oziosi. Sono altre, secondo me, le ragioni della crisi: le ho già esposte. Sostenere che Kleiber non capisse molto di opera, poi, è concetto che preferisco non commentare…anzi si commenta da sé. Non comprendo poi questo continuo accenno alla Pratt.

      • Il mio accenno a Kleiber era ovviamente una forzatura, ma rispetto a Karajan, per esempio, trovo una certa differenza…
        Condivido comunque in toto la sua affermazione sulla carenza di preparazione in cantanti e direttori. Ma in un’epoca di marketing artistico, lei reputa ipotizzabile un lavoro minuzioso su una partitura tra direttore e cantante come avveniva, ad esempio, nei casi di un Serafin o di un Marinuzzi? E i teatri poi, attenti solo ai numeri, sarebbero disposti a concedere più prove per la migliore riuscita di uno spettacolo?

        • Ci sono direttori che fanno molte prove ed altri che ne fanno meno. Il marketing non c’entra nulla (dato che cd di opere non ne fanno praticamente più): il boom del mercato discografico era all’epoca della Sutherland e di Karajan…e la qualità era elevatissima, quindi non c’entra nulla. La carenza di preparazione si vedo praticamente solo nell’opera perché ormai gestita in modo cialtronesco e ridotta a fenomeno folkloristico. Non ho mai visto uno dei tanti ottimi direttori in attività o pianisti o violinisti mettersi su FB ad aizzare i propri fan…

          Kleiber – com’è noto – incise pochissimo quindi non vedo dove si possano fare paragoni: però il suo Tristan con Margareth Price non mi pare mostri problemi nella scelta delle voci.

          • una rondine non fa primavera. Quella isotta sotto dimensionata perchè la voce era da elsa o elisabetta è circondata da una muta di cani nella assoluta media del canto wagneriano dal ritiro della nilsson in poi.

          • Quel disco è splendido. Punto. Che poi tu detesti Carlos Kleiber è un altro paio di maniche, ma definirlo “muta di cani” mi sembra un’esagerazione…

          • non detesto alcun direttore d’orchestra. Non concordo con la grandezza di quello che si crede Toscanini e quello che si credeva Mitropoulos. Quanto a Kleiber figlio non mi scalda. Mi fermo all’opera perchè sono ignorante e non mi ci metto a valutare un direttore sinfonico. Per restare in famiglia, che non è affatto un terreno di confronti artistico valido, restandolo notoriamente fra padre e figlio (sempre!) papà era più varo e con exploit da grande in Wagner e pure in MOzart e Verdi. Poi so che il Tuo pensiero è all’opposto e siamo felici e contenti tutti.

          • Va bene duprez abbiamo capito che ti piace contraddire sempre e comunque. In ogni caso quello che dico io é quello che dici tu, quindi non ti attaccare alla singola parola. Detto questo é anche una questione storica perché la gente si é abituata ad altre sonorità ben lontane dal modo vero e autentico di cantare l’opera e quindi tutto é conseguenza anche quello che dici tu. Se poi dobbiamo tutti pendere dalle tue labbra dillo subito che ti proponiamo come sovrintendente alla scala.

          • Modo autentico e vero che, immagino tu conosca perfettamente perché c’eri all’epoca dei castrati o della Pasta. Se ti infastidisce ciò che scrivo puoi evitare di rispondermi: così mi evito di leggere cazzate. Per il resto non si può cavar sangue dalle rape e discutere con chi non vuol sentire. Non so come il tuo commento maleducato sia sfuggito alla moderazione, in ogni caso se vuoi continuare a commentare ti diffido ad usare un atteggiamento più civile.

  5. Le orecchie di certi critici e di certi ascoltatori hanno oggi definitivamente sdoganato cantanti smaccatamente amplificati in recita, voci come la Bartoli e Bocelli, controtenori che cantano impunemente i ruoli scritti per contralto da Rossini….come negare che il melodramma stia agonizzando proprio non capisco. Forse alcuni giovani ascoltatori d’oggi, pur esperti di canto, non vogliono ammettere a se stessi di esser nati in un momento (per la storia del melodramma) proprio sfigato…

  6. Il tenore Wagneriano volere o volare finisce con Melchior, ci vanno vicino windgassen, max Lorenz. A parte i tenori italiani o di scuola italiana che avrebbero cantato Walter, Lohengrin e forse tannahauser e potevano chiamarsi bergonzi, Corelli, tucker, labo’ aragall…..altri tempi, ma sono i tempi dell’ opera che quella è e quella resta….

  7. Scusa Duprez al contrario tuo io non ho usato parolaccie, non ho detto che dici fesserie anzi condivido quello che hai detto e proprio per questo mi sembra esagerato il tuo commento e non fa che confermare l’impressione che ho avuto cioè di una persona che non ama essere contradetta. Per quanto riguarda il mio discorso dire che l’indubbio calo medio qualitativo sia colpa solo di facebook e critici plaudenti mi sembra un’osservazione un po’ riduttiva. Poi scusa se sei il primo che dici che molti cantano male qual é il tuo punto di riferimento del buon canto.. il futuro? Io non credo di essere stato scortese era soltanto un modo colorito di controbbattere ma senza voglia alcuna di offenderti e il fatto che tu chiami la sicurezza come se fossi un attentatore mi fa ridere.

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