Traviata a Ferrara e il senso della provincia

Pochi giorni fa Donzelli ha avuto modo di riflettere sul ruolo che un grande teatro ricopre o, almeno, dovrebbe ricoprire per quanto riguarda la tradizione artistica. Mi permetto di aggiungere che teatri infinitamente più piccoli e defilati hanno avuto, sino a pochi anni fa, compiti complementari e non meno cruciali. In provincia, tanto per dirne una, i divi affrontavano per la prima volta i ruoli che avrebbero in seguito proposto nei teatri più importanti. Penso a una Norma al Teatro Cagnoni di Vigevano, anno 1932, che vide il debutto nel title role di Gina Cigna, affiancata da Pederzini, Merli e Pasero. Insomma, un cast che avrebbe potuto agilmente essere proposto tale e quale alla Scala, al Costanzi o in qualsiasi altro palcoscenico di prima sfera. Debuttare in provincia era un segno di rispetto, nei confronti dei grandi teatri (alla Scala si arriva “fatti e non da fare”, secondo una celebre dichiarazione di Maria Callas), ma anche dell’artista (che poteva, con minore ansia, affrontare le insidie legate a un primo approccio al titolo) e, perché no, del pubblico di provincia, che aveva occasione di sentire i divi e, per giunta, in anteprima rispetto a piazze più celebrate. La provincia non era ovviamente solo questo, ma soprattutto una palestra per giovani esecutori, che avevano modo di farsi ascoltare dagli addetti ai lavori, maestri, agenti e impresari, pronti a “lanciarli” nei grandi teatri, qualora ci fossero state le premesse oggettive per una carriera. È chiaro che da uno spettacolo in provincia, oggi come oggi, non si possano attendere mirabilie produttive o cast di richiamo assoluto (i fondi sono quello che sono, sempre più risicati anche nelle piazze di maggior nome, figuriamoci nei cosiddetti “teatri di tradizione”), ma appare legittima la speranza di assistere a uno spettacolo dignitoso, magari arricchito da qualche voce promettente. La Traviata proposta al Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara, spettacolo coprodotto dai teatri di Treviso e Rovigo e dedicato a Tullio Serafin nel cinquantenario della morte, non ha che in misura estremamente limitata le caratteristiche sopra richiamate. Lo spettacolo di Alessio Pizzech propone una visione funebre e a tratti splatter del dramma di Dumas, in cui il dramma della malattia viene inutilmente sottolineato a forza di fazzoletti intrisi, anzi, incrostati di sangue, lamenti e rantoli da parte della protagonista, mentre Germont padre e figlio sembrano più che altro in preda ad attacchi di labirintite, barcollando per il palcoscenico senza ragione apparente, con la scorta di un’Annina costantemente in scena (un ricordo dell’allestimento scaligero di Tcherniakov?) e che, più che la cameriera di Violetta, ne sembra di volta in volta l’infermiera e la badante. Passi per le feste a base di fanciulle smutandate e gentiluomini in bretelle sul torace nudo (che fa molto Portiere di notte), passi anche per il letto presente nel secondo atto (quasi che Violetta ricevesse Germont padre nel proprio boudoir) e assente nell’ultimo (la protagonista muore su una sedia a rotelle, verosimilmente affetta da distrofia muscolare, più che dalla tisi), ma scene come il finale primo, con il ritorno di Alfredo anch’egli convenientemente discinto e pronto all’amplesso con la protagonista, e l’attacco del duetto fra Violetta e Germont padre, con il vecchio che rabbiosamente getta all’aria le carte che gli porge la donna, anziché leggerle e apprendere così la verità circa il ménage della tenuta di campagna, rendono palese l’indifferenza del regista verso la sostanza del dramma, rimpiazzata da ammiccamenti pretenziosi quanto fuori luogo agli allestimenti “à la page” così alla moda nei grandi teatri. Sul podio, Francesco Ommassini va nella medesima direzione, proponendo una lettura priva di nerbo, dai colori spenti e dai ritmi che vorrebbero essere languidi e risultano solo slentati, oltretutto costringendo orchestra e coro a sistematici décalage (il che si verifica anche alla festa di Flora, pur staccata a un tempo più consono). La scelta di proporre l’opera in versione integrale (entrambe le strofe di Ah fors’è lui e Addio del passato e ripetizione di tutte le cabalette, compresa quella dell’aria del baritono) non fornisce lo spunto per alcuna variazione dinamica o agogica, rendendo solo più straziante l’affanno di esecutori che farebbero fatica ad arrivare in fondo a un’esecuzione di Traviata con i vilipesi tagli di tradizione. Del terzetto protagonistico il solo Leonardo Cortellazzi (cantante di una certa esperienza anche in palcoscenici più blasonati) risulta sempre udibile al di sopra dell’orchestra e riesce, soprattutto nel primo atto, a trovare accenti pertinenti al personaggio, ma i suoni schiacciati che compaiono in prossimità del passaggio superiore gli precludono l’emissione di acuti sicuri e squillanti e finiscono per compromettere tanto la scena della borsa quanto il duetto all’ultimo atto, in cui la fatica si evidenzia nell’incapacità di cantare piano e con la necessaria morbidezza. Rose e fiori di fronte al Germont padre di Francesco Landolfi, che ripropone, con voce sorda, i limiti di emissione e interpretativi di Leo Nucci, modello indiscusso di esecuzione becera di questa e altre figure paterne verdiane. La protagonista, Gilda Fiume, a poco più di trent’anni ha già affrontato, in teatri defilati così come in piazze di un certo “peso” quali Napoli, Parma e Bergamo, un repertorio a dir poco vario, che spazia da Lucia di Lammermoor e Amina a Leonora del Trovatore, sino a Donna Anna e Norma. Ascoltata dalla platea la voce risulta quella di un lirico puro, modestissima in termini di volume e proiezione, specie in fascia medio-grave, quella in cui Violetta massimamente è chiamata a fraseggiare per buona parte dell’opera. In alto l’esecutrice risulta maggiormente sonora, ma a prezzo di suoni ghermiti e duri, spesso calanti d’intonazione. Si ha comunque l’impressione di ascoltare una voce non sfogata, di quelle che, emesse e governate correttamente, toccherebbero i sovracuti senza problemi, tanto predominante risulta la zona superiore rispetto alle altre. Superato alla bell’e meglio lo scoglio del primo atto (in cui sarebbe lecito attendersi un’esecuzione meno cempennata dei passaggi brillanti, visti i titoli affrontati), nel duetto con Germont padre la cantante cerca di trovare un legato accettabile (riuscendovi molto limitatamente, anche in un punto tradizionalmente a ciò deputato come il Dite alla giovine), ma le resta comunque estranea l’ampleur che il personaggio dovrebbe sfoggiare nelle ampie arcate melodiche, soprattutto alla festa di Flora, in cui compaiono, di nuovo, suoni ora pigolanti, ora prossimi al grido. Il terzo atto, risolto interamente nei limiti del registro patetico (quindi senza lo slancio di disperata vitalità che il Gran Dio! Morir sì giovine esigerebbe, per giunta con un volume ulteriormente ridotto, forse anche per la sopravvenuta stanchezza e i tempi mortiferi imposti dalla buca), è la parte migliore di questa interpretazione, che però non si avvicina neppure limitatamente a quello che sapevano fare soprani lirici quali Lina Pagliughi e Rosanna Carteri. E cito proprio queste cantanti per il fatto che entrambe hanno eseguito a più riprese Traviata in provincia, fra l’altro anche al Sociale di Rovigo, teatro che coproduce questa Traviata, ben misero omaggio a un direttore, Tullio Serafin, cui questo titolo fu sempre carissimo. Dubito, comunque, che il maestro Serafin avrebbe osato proporre il coro Largo al quadrupede come base preregistrata, anche se avesse potuto disporre della tecnologia necessaria: l’effetto karaoke è immediato quanto avvilente. E quindi consono a questa Traviata.

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